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Quando la Discovery si illuminò all’improvviso come il proverbiale albero natalizio, con le luci di navigazione e le luci interne che splendevano da un’estremità all’altra dell’astronave, l’applauso a bordo della Leonov fu tale da poter quasi essere udito attraverso il vuoto che separava le due navi spaziali. Ma si tramutò poi in un gemito ironico non appena, quasi subito, la luce tornò a mancare.
Non accadde niente altro per una mezz’ora; poi gli oblò di osservazione del ponte di volo della Discovery cominciarono ad essere illuminati dal tenue bagliore cremisi delle luci di emergenza. Pochi minuti dopo fu possibile intravvedere Curnow e Brailovsky che si spostavano qua e là all’interno, le loro sagome offuscate dalla pellicola di polvere di zolfo.
«Pronto, Max… Walter… potete udirci?» chiamò Tanya Orlova. Entrambe le sagome salutarono subito con cenni della mano, ma non risposero in alcun altro modo. Ovviamente erano troppo indaffarati per potersi permettere una inutile conversazione; gli osservatori dalla Leonov dovettero aspettare con pazienza mentre varie luci lampeggiavano, accendendosi e spegnendosi, mentre uno dei tre portelli del locale di rimessaggio si apriva adagio per poi richiudersi rapidamente e l’antenna principale ruotava di dieci modesti gradi.
«Pronto, Leonov» disse Curnow infine. «Spiacente di avervi fatti aspettare, ma siamo stati alquanto occupati.
«Ecco una rapida valutazione, basata su quanto abbiamo potuto constatare fino ad ora. L’astronave si trova in condizioni assai migliori di quanto temessi. Lo scafo è intatto, le perdite sono trascurabili… la pressione dell’aria è all’ottantacinque per cento del valore teorico. Respirabilissima, ma dovremo effettuare un riciclaggio in grande stile perché puzza da morire.
«La notizia più rassicurante è che gli impianti per generare energia sono okay. Reattore principale stabile, batterie in buono stato. Quasi tutti gli interruttori di corrente erano aperti… o sono scattati per loro conto o li ha azionati Bowman prima di abbandonare l’astronave… per cui tutti gli impianti vitali sono stati salvaguardati. Tuttavia sarà un compito enorme quello di controllare ogni cosa prima che possiamo avere il massimo dell’energia.»
«Quanto tempo occorrerà… almeno per i sistemi essenziali di mantenimento della vita e di propulsione?»
«È difficile dirlo, comandante. Quanto tempo manca prima che ci schiantiamo su Io?»
«L’attuale previsione minima è di dieci giorni. Ma lei sa di quanto può variare… in più o in meno.»
«Bene, se non ci imbatteremo in grossi intoppi potremo far sollevare la Discovery fino a un’orbita stabile, lontano da questo inferno… oh, direi entro una settimana.»
«Vi occorre qualcosa?»
«No… Max ed io ce la stiamo cavando benissimo. Andremo a esaminare il giroscopio che aziona il tamburo ruotante, adesso, per controllare i cuscinetti a sfere. Voglio rimetterlo in funzione al più presto possibile.»
«Mi scusi, Walter… ma è davvero importante, questo? La gravità è comoda, però noi ne abbiamo fatto a meno per parecchio tempo.»
«Non è la gravità che voglio, anche se sarà utile averne un po’’ a bordo. Se riusciremo a rimettere in funzione il giroscopio, esso fermerà la rotazione dell’astronave… le impedirà di continuare a girare su se stessa. Potremo allora procedere alla manovra di attacco accoppiando i nostri due locali a chiusura ermetica. Questo renderà il lavoro cento volte più semplice.»
«Buona idea, Walter… ma lei non unirà la mia astronave a quel… mulino a vento. Supponga che i cuscinetti a sfere grippino e che il giroscopio si blocchi. Questo ci farebbe a pezzi.»
«D’accordo. Risolveremo la questione quando verrà il momento. Le farò un nuovo rapporto non appena possibile.»
Nei due giorni che seguirono, nessuno poté riposare molto. Al termine di questo periodo di tempo, Curnow e Brailovsky si erano in pratica addormentati entro le tute spaziali, ma avevano portato a termine tutti i controlli sulla Discovery senza imbattersi in sorprese sgradevoli. Sia la Space Agency, sia il Dipartimento di Stato furono soddisfatti del rapporto preliminare; esso consentiva di asserire, con qualche giustificazione, che la Discovery non era un relitto, ma «una nave spaziale degli Stati Uniti temporaneamente fuori servizio». Cominciava adesso il compito di rimetterla in grado di funzionare.
Una volta ridata energia all’astronave, il problema successivo fu quello dell’aria; anche le operazioni più meticolose per purificarla non erano riuscite a eliminare il fetore. Curnow non aveva sbagliato identificando la causa nei viveri deteriorati quando il frigorifero si era spento; asseriva inoltre, con simulata serietà, che la cosa era del tutto romantica. «Devo soltanto chiudere gli occhi» dichiarava «e ho l’impressione di trovarmi su una baleniera dei bei tempi antichi. Riesce a immaginare quanto doveva essere fetida la Pequod?»
Convennero tutti all’unanimità che, dopo una puntata sulla Discovery, occorreva uno sforzo minimo dell’immaginazione. Il problema venne risolto, infine — o per lo meno ridotto a dimensioni tollerabili — scaricando nel vuoto tutto il fetore dell’astronave. Fortunatamente esisteva ancora, nei serbatoi di riserva, aria sufficiente per sostituirla.
Una notizia graditissima fu il fatto che era ancora disponibile il novanta per cento del propellente necessario per il viaggio di ritorno; la scelta dell’ammoniaca in luogo dell’idrogeno come fluido per la spinta del plasma era stata quanto mai redditizia. Il più efficace idrogeno si sarebbe disperso nello spazio già da anni, ribollendo, nonostante l’isolamento dei serbatoi e la gelida temperatura esterna. Invece quasi tutta l’ammoniaca era rimasta allo stato di liquefazione, e bastava per riportare l’astronave su un’orbita sicura intorno alla Terra. O per lo meno intorno alla Luna.
L’eliminazione dello spin, simile a quello di un’elica, della Discovery fu forse l’impresa più critica della fatica per riportare sotto controllo l’astronave. Sascia Kovalev paragonò Curnow e Brailovsky a Don Chisciotte e a Sancio Panza, ed espresse la speranza che la loro spedizione contro il mulino a vento si concludesse più felicemente.
Con molta cautela e innumerevoli interruzioni rese necessarie dagli accurati controlli, la corrente venne ridata ai motori del giroscopio e Il grande tamburo fu accelerato così da riassorbire lo spin impartito molto tempo prima all’astronave. La Discovery effettuò una complicata serie di precessioni, finché, in ultimo, la rotazione su se stessa cessò quasi completamente. Le ultime tracce di rotazione indesiderata vennero neutralizzate dai getti di controllo dell’assetto, finché le due astronavi galleggiarono immobili una accanto all’altra, la tozza e tarchiata Leonov rimpicciolita dalla snella e lunga Discovery.
Il trasferimento dall’una all’altra astronave era ormai sicuro e facile; tuttavia la comandante Orlova continuava a rifiutarsi di consentire un vero e proprio attracco. Tutti approvavano tale decisione, in quanto Io continuava ad avvicinarsi sempre più; sarebbero ancora potuti essere costretti ad abbandonare la nave spaziale per il cui ricupero avevano lavorato così duramente.
Il fatto che conoscessero adesso la causa del misterioso abbandono dell’orbita da parte della Discovery non giovava minimamente. Ogni qual volta l’astronave passava tra Giove e Io doveva attraversare l’invisibile fascio di flusso che collegava i due corpi celesti — il fiume elettrico scorrente da un mondo all’altro. Le conseguenti correnti vorticose indotte intorno alla Discovery continuavano a rallentarla, frenandola ad ogni rivoluzione.
Non esisteva alcuna possibilità di prevedere il momento finale dell’impatto, in quanto la corrente nel fascio del flusso variava in modo pazzesco in base alle imperscrutabili leggi di Giove. A volte si determinavano drammatici aumenti di attività accompagnati da spettacolari tempeste elettriche e aurorali intorno a Io. Le astronavi perdevano allora quota per molti chilometri, divenendo sgradevolmente calde prima che i loro impianti di controllo termico riuscissero a riportare la temperatura al livello normale.
Questo effetto inaspettato aveva spaventato tutti prima che ci si fosse resi conto della spiegazione ovvia. Qualsiasi forma di frenaggio genera calore, in qualche punto; le correnti formidabili indotte negli scafi della Leonov e della Discovery tramutavano per breve tempo le due astronavi in forni elettrici a basso voltaggio.
Il paesaggio suppurante di Io, che sempre più ricordava qualche illustrazione di un testo di medicina, distava appena cinquecento chilometri quando Curnow corse il rischio di attivare il propulsore principale, mentre la Leonov si manteneva ad una assai prudenziale distanza di sicurezza. Non vi furono effetti visibili — né il fumo né le fiammate dei razzi chimici dei tempi passati — ma le due astronavi si allontanarono adagio una dall’altra mentre la Discovery acquistava velocità. Dopo poche ore di manovre molto dolci, entrambe le navi spaziali si erano sollevate di mille chilometri; v’era adesso il tempo di riposarsi brevemente e di fare progetti per la fase successiva della missione.
«Ha svolto un lavoro meraviglioso, Walter» disse la dottoressa Rudenko, cingendo con un braccio voluminoso le esauste spalle di Curnow. «Siamo tutti orgogliosi di lei.»
Con un’aria molto noncurante, gli spezzò una piccola fiala sotto il naso. Soltanto ventiquattr’ore dopo egli si destò, irritato e affamato.