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Un filosofo findesiècle osservò una volta — non senza essere subito bersagliato dalle critiche — che Walter Elias Disney aveva contribuito all’autentica felicità umana più di tutti i maestri religiosi della storia. Ora, mezzo secolo dopo la morte dell’artista, i sogni di lui stavano ancora proliferando nel paesaggio della Florida.
Quando era stato inaugurato, nei primi anni Ottanta del secolo ventesimo, il Prototipo Sperimentale della Comunità di Domani aveva costituito una vetrina di nuove tecnologie e nuovi modi di vivere. Ma, come si rendeva conto il suo fondatore, il PSCD sarebbe riuscito a ottenere lo scopo soltanto quando una parte della sua vasta estensione fosse divenuta un’autentica e viva cittadina abitata da persone che la considerassero la loro dimora. Per tale processo era occorso tutto il resto del secolo; adesso la zona residenziale contava ventimila abitanti e, inevitabilmente, aveva finito con l’essere denominata Disneyville.
Poiché era possibile trasferirvisi soltanto dopo aver penetrato una guardia di palazzo formata da legali di Walter Elias Disney, non ci si poteva stupire se l’età media degli abitanti era più elevata che in ogni altra comunità degli Stati Uniti, né se i servizi medici della cittadina erano i più progrediti del mondo. Alcuni di essi, invero, difficilmente sarebbero potuti essere concepiti, e ancor meno realizzati, in qualsiasi altra comunità.
L’appartamento era stato progettato accuratamente in modo che non sembrasse far parte di un ospedale, e solo alcuni insoliti particolari potevano tradirne lo scopo. Il letto arrivava a malapena all’altezza delle ginocchia, così da ridurre al minimo il pericolo di eventuali cadute; poteva tuttavia essere sollevato e inclinato per facilitare il compito delle infermiere. La vasca del bagno era affondata nel pavimento e vi si trovavano un seggiolino incorporato nonché maniglioni per far sì che anche gli infermi e gli anziani potessero entrarvi e uscirne facilmente. Il pavimento era rivestito da una spessa moquette, ma non esistevano tappeti contro i quali si sarebbe potuto inciampare, né spigoli non arrotondati che potessero causare lesioni. Altri particolari risultavano meno manifesti — e le telecamere erano così ben nascoste che nessuno ne avrebbe sospettato la presenza.
Esistevano alcuni tocchi personali — una pila di vecchi libri in un angolo, e la prima pagina incorniciata di uno degli ultimi numeri stampati del New York Times che annunciava:
L’ASTRONAVE AMERICANA PARTE PER GIOVE.
Accanto ad essa si trovavano due fotografie, una delle quali mostrava un adolescente sui diciassette o diciotto anni; l’altra ritraeva un uomo di età notevolmente più matura che indossava l’uniforme degli astronauti.
Sebbene la donna fragile, dai capelli grigi, che stava seguendo la commedia sullo schermo del televisore non avesse ancora settant’anni, sembrava molto più anziana. Di tanto in tanto ridacchiava con apprezzamento di qualche battuta spiritosa, ma, ciò nonostante, continuava a sbirciare la porta come se stesse aspettando una visita. E, quando guardava da quella parte, impugnava più saldamente il bastone da passeggio appoggiato alla poltrona. Venne poi distratta momentaneamente dalla commedia televisiva quando la porta si aprì, infine; ed ella si voltò, allora, con un trasalimento colpevole mentre il piccolo carrello dei pasti veniva avanti nella stanza, seguito da una strana infermiera dal grembiule bianco.
«È ora di pranzo, Jessie» disse l’infermiera. «Le abbiamo preparato qualcosa di prelibato, oggi.»
«Non voglio pranzare.»
«Si sentirà molto meglio dopo aver mangiato.»
«Non mangerò finché non mi avrà detto che cos’è.»
«Perché non vuole mangiare?»
«Non ho appetito. A lei capita mai di non avere appetito?» soggiunse in tono scaltro.
Il carrello robotizzato si fermò accanto alla poltrona e il coperchio che proteggeva i cibi durante il trasporto si sollevò, rivelando i piatti. Nel frattempo l’infermiera non toccò mai nulla, nemmeno i comandi del carrello. Restava ora in piedi, immobile, con un sorriso alquanto stereotipato, contemplando la sua difficile paziente.
Nella sala dei monitor, lontana un cinquanta metri, il tecnico disse al medico: «Stia a vedere, adesso.»
La mano nodosa di Jessie sollevò il bastone da passeggio; con una fulmineità stupefacente, gli fece percorrere un breve arco verso le gambe dell’infermiera.
Quest’ultima parve non accorgersene minimamente, nemmeno quando il bastone le attraversò le gambe. Disse invece, in tono suadente: «Ebbene, non ha un aspetto appetitoso? Suvvia, mangi, mia cara.»
Un sorriso scaltro si diffuse sul volto di Jessie, ma ella diede ascolto all’esortazione. Dopo un momento stava mangiando di buon appetito.
«Ha visto?» disse il tecnico. «Si rende perfettamente conto di quello che succede. È molto più lucida di quanto finga di essere, la maggior parte delle volte.»
«Ed è la prima ad essersene accorta?»
«Sì. Tutte le altre credono che sia davvero l’infermiera Williams a servire loro i pasti.»
«Bene, non credo che la cosa rivesta importanza. Guardi quanto è soddisfatta, soltanto perché crede di averci battuto in astuzia. Ora sta mangiando, ed è questo lo scopo che vogliamo raggiungere. Ma dobbiamo avvertire le infermiere… tutte quante, e non soltanto la Williams.»
«Oh, sicuro… naturalmente. La prossima volta potrebbe non trattarsi di un ologramma… pensi allora alle cause che ci verrebbero intentate dal personale percosso.»