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Quando l’American Institute of Aeronautics and Astronautics pubblicò il controverso compendio Cinquant’anni di UFO, nel 1997, molti critici fecero rilevare che oggetti volanti non identificati erano stati osservati per secoli, e che l’avvistamento di un «disco volante» da parte di Kenneth Arnold, nel 1947, aveva innumerevoli precedenti. La gente aveva veduto cose strane nel cielo sin dagli albori della storia; ma, fino alla metà del secolo ventesimo, gli UFO avevano costituito un fenomeno casuale che non destava l’interesse generale. Dopo tale data erano divenuti una questione che destava la curiosità sia del pubblico, sia degli ambienti scientifici, nonché il fondamento di quelle che potevano essere definite soltanto credenze religiose.
Non è difficile individuare il motivo: l’avvento dei razzi giganteschi e l’inizio dell’era spaziale avevano orientato la mente degli uomini verso altri mondi. La consapevolezza del fatto che il genere umano sarebbe stato presto in grado di abbandonare il suo pianeta di origine, poneva interrogativi inevitabili: dove si trovano tutti gli altri esseri, e quando possiamo aspettarci visitatori? Esisteva inoltre la speranza, anche se di rado la si esprimeva apertamente, che benevole creature di altri mondi potessero aiutare l’umanità a guarire dalle tante ferite che si era autoinflitta e ad evitare futuri disastri.
Ogni studioso di psicologia avrebbe potuto prevedere che una necessità così profonda sarebbe stata rapidamente soddisfatta. Durante la seconda metà del secolo ventesimo, vi furono letteralmente migliaia di rapporti su avvistamenti di navi spaziali in ogni parte del mondo. Non solo, ma si ebbero centinaia di rapporti relativi a «incontri ravvicinati» — veri e propri abboccamenti con creature extraterrestri, non di rado abbelliti da racconti di gite celestiali, di rapimenti, e persino di lune di miele nello spazio. Il fatto che, ripetutamente, questi rapporti fossero risultati essere menzogne o allucinazioni, non dissuase minimamente i credenti. Uomini ai quali erano state fatte visitare città sull’altra faccia della Luna non divennero affatto meno credibili anche quando le esplorazioni Orbiter e le missioni Apollo non rivelarono costruzioni di qualsiasi genere; le signore che avevano sposato venusiani continuarono ad essere credute anche quando quel pianeta risultò essere, purtroppo, più caldo del piombo fuso.
Quando l’AIAA pubblicò il rapporto, nessuno scienziato degno di tal nome — anche tra quei pochi che un tempo avevano ammesso la possibilità — credeva più che gli UFO avessero un qualsiasi rapporto con la vita o l’intelligenza extraterrestre. Naturalmente, non sarebbe mai stato possibile dimostrarlo; ognuno di quella miriade di avvistamenti, avvenuti negli ultimi mille anni, poteva essere stato reale. Ma, con il trascorrere del tempo, e man mano che le telecamere e i radar dei satelliti, esplorando l’intero firmamento, non fornivano alcuna prova concreta, il grande pubblico si disinteressò. I fedeli, naturalmente, non si scoraggiarono, ma continuarono a professare la loro fede mediante lettere ai giornali e libri, la maggior parte dei quali rielaborava e abbelliva rapporti del passato, molto tempo dopo che erano stati screditati o smascherati.
Quando la scoperta del monolito di Tycho — il TMA-1 — venne infine resa nota, vi fu un coro di «ve lo avevo detto!» Non si poteva ormai più negare che vi fossero stati visitatori sulla Luna — e presumibilmente anche sulla Terra — appena una bazzecola come tre milioni di anni prima. Subito gli UFO ricominciarono a infestare i cieli, sebbene fosse strano che i tre indipendenti sistemi di avvistamento della nazione, in grado di individuare nello spazio qualsiasi oggetto più grande di una penna a sfera, non riuscissero ancora a trovarli.
Alquanto rapidamente, il numero dei rapporti diminuì, una volta di più, fino al livello «rumore di fondo» — vale a dire fino al numero che era logico aspettarsi — semplicemente come il risultato dei tanti fenomeni astronomici, meteorologici e aeronautici che si determinano continuamente nei cicli.
Ora, però, tutto ricominciava daccapo; questa volta non potevano esservi errori; la notizia era ufficiale. Un autentico UFO si stava dirigendo verso la Terra.
Avvistamenti vennero riferiti pochi minuti dopo l’avvertimento della Leonov; i primi incontri ravvicinati ebbero luogo di lì a poche ore appena. Un agente di Borsa in pensione, mentre stava facendo passeggiare il suo bulldog sulle brughiere dello Yorkshire, rimase esterrefatto allorché un’astronave a forma di disco atterrò accanto a lui e il suo occupante — umano sotto ogni aspetto, a parte le orecchie appuntite — domandò come si arrivasse in Downing Street. Il contattato era talmente sbalordito che riuscì soltanto ad agitare il bastone da passeggio nella direzione approssimativa di Whitehall; la prova conclusiva dell’incontro consisteva nel fatto che il bulldog si rifiutava adesso di mangiare.
Sebbene nel caso dell’agente di Borsa non fossero risultati precedenti di malattie mentali, persino coloro che gli credettero stentarono alquanto ad accettare il rapporto successivo. Questa volta si trattò di un pastore basco che stava eseguendo una missione tradizionale; l’uomo provò un sollievo enorme quando i due individui che aveva temuto fossero guardie di confine risultarono essere invece due uomini avvolti in mantelli e dagli occhi penetranti; i due vollero sapere come si arrivasse alla sede delle Nazioni Unite.
Parlavano alla perfezione il basco — una lingua tormentosamente difficile e senza alcuna affinità con qualsiasi altra lingua nota del genere umano. Ovviamente, i visitatori provenienti dallo spazio erano linguisti straordinari, pur essendo stranamente ignoranti in fatto di geografia.
E i rapporti continuarono ad affluire, un caso dopo l’altro. Pochissimi dei contattati mentivano consapevolmente o erano pazzi; quasi tutti credevano sinceramente in quel che dicevano e continuavano a credervi anche sotto ipnosi. E alcuni di essi erano semplicemente vittime di burle o di improbabili incidenti — come lo sfortunato archeologo dilettante che trovò gli scenari abbandonati quasi quattro decenni prima da un celebre regista di film fantascientifici nel deserto tunisino.
Eppure solo all’inizio — e proprio alla fine — un qualsiasi essere umano divenne autenticamente consapevole della sua presenza, e questo perché così egli desiderava.
Il mondo gli apparteneva per essere esplorato ed esaminato a suo piacere, senza alcuna restrizione e senza alcun impedimento. Nessun muro poteva ostacolarlo, nessun segreto poteva essere nascosto ai sensi di cui disponeva. A tutta prima egli credette di limitarsi a soddisfare antiche ambizioni, visitando luoghi mai veduti nell’esistenza precedente. Soltanto molto tempo dopo si rese conto che i suoi vagabondaggi veloci come il fulmine sulla superficie della Terra avevano uno scopo più profondo…
In qualche modo sottile, veniva utilizzato come una sonda, per farsi un’idea di ogni aspetto delle umane faccende. Il controllo era talmente tenue da far sì che egli ne fosse a malapena consapevole; poteva essere paragonato, in qualche modo, a un cane da caccia al guinzaglio, al quale viene consentito di compiere escursioni per conto proprio, ma, ciò nonostante, è costretto ad ubbidire agli ordini non ignorabili del padrone.
Le piramidi, il Gran Canyon, le nevi inondate di chiarore lunare dell’Everest, queste furono scelte sue. Cose come certe gallerie d’arte e certe sale da concerti; anche se, senza dubbio, non avrebbe mai sopportato, di propria iniziativa, l’intero Ring.
Né sarebbe andato a visitare tante fabbriche, tante prigioni, tanti ospedali, una sanguinosa piccola guerra in Asia, un ippodromo, una complicata orgia a Beverly Hills, lo Studio Ovale della Casa Bianca, gli archivi del Cremlino, la biblioteca del Vaticano, la sacra Pietra Nera della Ka’bah alla Mecca.
Vi furono inoltre esperienze delle quali non serbò alcun chiaro ricordo, come se fossero state censurate — o come se ne venisse protetto da qualche angelo custode. Ad esempio…
Che cosa ci stava facendo nel Leakey Memoria! Museum, della Olduvai Gorge? Non si interessava all’origine dell’uomo più di ogni altro membro intelligente della specie Homo Sapiens, e i fossili non significavano nulla per lui. Ciò nonostante, i famosi crani, conservati come gioielli della Corona nelle loro bacheche, destarono strani echi nella sua memoria e causarono un’eccitazione che non riuscì a spiegarsi. Provò una sensazione di déja vu più forte di qualsiasi altra mai sperimentata; il luogo sarebbe dovuto essergli familiare — eppure v’era qualcosa che non andava. Come una casa nella quale si torna dopo molti anni, per constatare che tutti i mobili sono stati cambiati, le pareti spostate e persino le scale rifatte.
Era un luogo squallido, ostile, arido e deserto. Dove si trovavano le lussureggianti pianure e le miriadi di veloci erbivori che un tempo, tre milioni di anni prima, vagabondavano su di esse?
Tre milioni di anni. Come poteva saperlo?
Nessuna risposta gli giunse dal silenzio echeggiarne nel quale aveva lanciato l’interrogativo. Ma poi scorse, una volta di più profilata dinanzi a lui, una nera forma a rettangolo che gli era familiare. Si avvicinò e un’immagine spettrale apparve nelle sue profondità, simile a un qualcosa riflesso da una pozza di inchiostro. Gli occhi tristi e interdetti che ricambiarono il suo sguardo sotto una fronte pelosa e sfuggente contemplavano, al di là di lui, un futuro che non avrebbe mai veduto. Poiché egli era quel futuro, centomila generazioni più avanti sul fiume del tempo.
La storia era cominciata là; questo, almeno, ora lo capiva. Ma in qual modo — e soprattutto perché — altri segreti continuavano ad essergli celati?
Rimaneva tuttavia un ultimo compito, il più difficile di ogni altro. Ed egli continuava ad essere sufficientemente umano per rinviarlo fino all’ultimo momento.
E adesso che cosa sta combinando? si domandò l’infermiera di turno, zumando il monitor della TV sull’anziana signora. Ne ha commesse di bizzarrie, ma questa è la prima volta che la vedo parlare con il suo apparecchio acustico, santo cielo. Mi domando che cosa stia dicendo.
Il microfono non era abbastanza sensibile per captare, ma questo sembrava non rivestire alcuna importanza. Di rado Jessie Bowman era sembrata così serena e soddisfatta. Sebbene avesse gli occhi chiusi, l’intero viso di lei veniva raddolcito da un sorriso quasi angelico, mentre le labbra continuavano a formare parole bisbigliate.
E poi l’infermiera vide qualcosa che si sforzò di dimenticare, poiché, se ne avesse parlato, sarebbe stata considerata all’istante non più in grado di essere infermiera. Adagio e a sussulti, il pettine che si trovava sul comodino si sollevò in aria come se fosse stato preso da dita goffe e invisibili.
Al primo tentativo, fallì; poi, con manifesta difficoltà, cominciò a ravviare i lunghi capelli argentei, fermandosi a volte per districare un groviglio.
Jessie Bowman non stava più parlando, adesso, ma continuava a sorridere. Il pettine si stava muovendo con maggior precisione, non più a bruschi e incerti sussulti.
L’infermiera non seppe mai con certezza per quanto tempo la cosa fosse durata. Né, fino a quando il pettine venne rimesso con dolcezza sul comodino, si riebbe dalla paralisi.
Il decenne Dave Bowman aveva portato a termine il compito che invariabilmente odiava, ma che piaceva a sua madre. E un David Bowman ormai senza età era riuscito a dominare per la prima volta la caparbia materia.
Jessie Bowman stava ancora sorridendo quando l’infermiera si decise infine a indagare. Si era spaventata troppo per affrettarsi; ma anche precipitarsi subito nella camera non avrebbe fatto alcuna differenza.