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Anche il dottor Sivasubramanian Chandrasegarampillai, professore di informatica dell’Università dell’Illinois, a Urbana, provava un persistente senso di colpa, ma un senso di colpa molto diverso da quello di Heywood Floyd. Coloro tra i suoi allievi e colleghi i quali si domandavano spesso se il piccolo scienziato fosse del tutto umano, non si sarebbero stupiti venendo a sapere che egli non pensava mai agli astronauti deceduti. Il dottor Chandra si affliggeva soltanto per il suo bambino perduto, Hal 9000.
Anche dopo tutti quegli anni, e dopo che aveva passato in rassegna innumerevoli volte i dati radiotrasmessi dalla Discovery, egli non era affatto sicuro di quello che poteva essere accaduto. Poteva soltanto formulare teorie; i dati che gli occorrevano rimanevano rinchiusi nei circuiti di Hal, lassù tra Giove e Io.
La sequenza degli eventi era stata chiaramente accertata, fino al momento della tragedia; successivamente, il comandante Bowman aveva fornito alcuni altri particolari, nelle brevi occasioni in cui era riuscito a ristabilire il contatto. Ma sapere che cosa era accaduto non spiegava il perché.
Il primo indizio di difficoltà lo avevano avuto nell’ultima fase della missione, quando da Hal era stato riferito l’imminente non funzionamento dell’apparato che manteneva l’antenna principale della Discovery allineata sulla Terra. Se il fascio di onde radio, lungo mezzo miliardo di chilometri, avesse deviato dal bersaglio, l’astronave sarebbe rimasta cieca, sorda e muta.
Lo stesso Bowman era uscito dall’astronave per smontare l’apparato sospetto, ma dopo il collaudo era risultato, con vivo stupore di tutti, che esso funzionava perfettamente. I circuiti del controllo automatico non avevano individuato alcun difetto. Né aveva individuato difetti il gemello di Hal, il Sal 9000, sulla Terra, quando le informazioni erano state trasmesse ad Urbana.
Hal si era incaponito sull’esattezza della sua diagnosi, facendo pungenti commenti a proposito dell’«errore umano». Aveva proposto che l’apparato di comando venisse rimontato sull’antenna fino al momento in cui avrebbe smesso di funzionare, così da rendere possibile l’individuazione precisa del guasto. Nessuno aveva trovato qualcosa da obiettare, in quanto l’apparato poteva essere sostituito in pochi minuti, anche se si guastava.
Bowman e Poole, tuttavia, non erano tranquilli; sentivano entrambi che qualcosa non andava, anche se nessuno dei due riusciva a precisare di che si trattasse. Per mesi avevano accettato Hal come un terzo compagno nel loro minuscolo mondo, e ne conoscevano ogni umore. Poi l’atmosfera a bordo dell’astronave si era sottilmente modificata; esisteva nell’aria un senso di tensione.
Sentendosi un po’’ come traditori — così l’agitato Bowman aveva riferito in seguito al Controllo Missione — i due terzi umani dell’equipaggio avevano discusso il da farsi nell’eventualità di un effettivo malfunzionamento del loro collega. Nel peggiore dei casi possibili, Hal sarebbe dovuto essere esonerato da tutte le sue più gravi responsabilità. Questo avrebbe significato il disinserimento — l’equivalente della morte per un computer.
Nonostante i loro dubbi, i due uomini avevano continuato a svolgere il programma prestabilito. Poole era uscito dalla Discovery su una delle piccole capsule spaziali che servivano come mezzi di trasporto e come officine mobili durante le attività extraveicolari. Poiché il lavoro alquanto difficile di rimontare l’apparato dell’antenna non poteva essere eseguito dai manipolatori meccanici della capsula, Poole si era accinto a eseguirlo egli stesso.
Le telecamere esterne non avevano ripreso quel che era accaduto allora — un particolare, questo, di per sé sospetto. Il primo avvertimento del disastro per Bowman era consistito in un grido di Poole… seguito dal silenzio. Un momento dopo egli aveva veduto Poole girare ripetutamente su se stesso e allontanarsi piroettando nello spazio. La capsula lo aveva investito violentemente e ora si stava allontanando a sua volta, ormai incontrollabile.
Bowman, come doveva egli stesso ammettere in seguito, aveva commesso allora numerosi gravi errori tutti scusabili, tranne uno. Nella speranza di salvare Poole, ammesso che fosse ancora vivo, egli si era lanciato entro una seconda capsula spaziale affidando ad Hal il pieno comando dell’astronave.
Il tentato salvataggio era risultato vano; Bowman, una volta raggiunto Poole, lo aveva trovato già cadavere. Stordito dalla disperazione, si era affrettato a riportare il corpo del compagno sull’astronave, ma solo per sentirsi rifiutare l’ingresso da Hal.
Tuttavia Hal aveva sottovalutato l’ingegnosità e la decisione umane. Bowman, pur avendo lasciato sull’astronave il casco della tuta spaziale, ed essendo così costretto ad esporsi direttamente al vuoto dello spazio, era riuscito a entrare ugualmente, avvalendosi di un portello di emergenza non comandato dal computer. Poi aveva proceduto alla lobotomizzazione di Hal estraendo ad uno ad uno i moduli dell’intelligenza del computer.
Una volta ripreso il comando dell’astronave, vi era stata, da parte di Bowman, una scoperta spaventosa. Durante la sua assenza, Hal aveva interrotto tutti i sistemi di mantenimento della vita dei tre astronauti ibernati. Bowman rimaneva solo, come non lo era mai stato prima nessun altro uomo nell’intera storia del genere umano.
Altri si sarebbero potuti abbandonare a un’impotente disperazione, ma, a questo punto, Bowman aveva dimostrato come coloro dai quali era stato prescelto avessero scelto bene. Egli era riuscito a mantenere operativa la Discovery e persino a ristabilire contatti intermittenti con il Controllo Missione, orientando l’intera astronave in modo che l’antenna bloccata puntasse verso la Terra.
Percorrendo la preordinata traiettoria, la Discovery aveva infine raggiunto Giove. Là, orbitando tra le lune del gigantesco pianeta, Bowman si era imbattuto in un lastrone nero dalla forma identica a quella del monolito disseppellito nel cratere lunare Tycho ma centinaia di volte più grande. Aveva deciso di uscire in una capsula spaziale per esaminarlo, ed era scomparso lanciando quell’ultimo, sconcertante messaggio: «Mio Dio, è pieno di stelle!»
Ma di questo mistero dovevano occuparsi altri; la suprema preoccupazione del dottor Chandra concerneva Hal. Se esisteva una cosa che la sua mentalità per nulla emotiva odiava, quella cosa era l’incertezza. Egli non sarebbe mai stato soddisfatto finché non avesse accertato la causa del comportamento di Hal. Ancora adesso si rifiutava di definirla un difetto di funzionamento; tutt’al più poteva trattarsi di una «anomalia».
Il minuscolo cubicolo che egli utilizzava come suo sancta sanctorum conteneva soltanto una poltroncina girevole; una consollescrivania e una lavagna ai due lati della quale figuravano due fotografie. Ben pochi appartenenti al volgo sarebbero riusciti a riconoscere i ritratti, ma uno qualsiasi di coloro cui era consentito di entrare nella piccola stanza avrebbe ravvisato all’istante le sembianze di John Von Neumann e di Alan Turing, gli dèi gemelli del pantheon dell’informatica.
Sulla scrivania non v’erano libri e nemmeno fogli di carta e matite. Tutti i volumi di tutte le biblioteche del mondo divenivano immediatamente disponibili a un tocco delle dita di Chandra e lo schermo del computer costituiva il suo album degli schizzi e il suo taccuino. Persino la lavagna veniva impiegata soltanto per i visitatori; l’ultimo diagramma tracciato su di essa, e cancellato in parte, risaliva a tre settimane prima.
Il dottor Chandra accese uno dei puzzolenti sigari che faceva arrivare da Madras e che tutti giustamente ritenevano essere il suo unico vizio. Lo schermo della consollescrivania non veniva mai spento; egli si accertò che non vi stesse apparendo alcuna comunicazione importante, poi parlò al microfono.
«Buongiorno, Sal. Sicché non hai niente di nuovo per me?»
«No, dottor Chandra. E lei ha qualcosa di nuovo per me?»
La voce sarebbe potuta essere quella di qualsiasi colta donna indù che avesse studiato non soltanto nel proprio paese, ma anche negli Stati Uniti. L’accento di Sal non era stato così, inizialmente, ma nel corso degli anni la voce aveva acquisito molte delle intonazioni di Chandra.
Lo scienziato batté un messaggio in codice sulla tastiera, facendo sì che l’accesso alla memoria di Sal venisse tutelato dalle massime misure di sicurezza. Nessuno sapeva che egli parlava in quel modo con il computer, come non avrebbe mai potuto rivolgersi a un essere umano. Non importava se Sal non capiva, in realtà, più di una parte di quanto egli diceva; le risposte del calcolatore erano talmente persuasive che persino l’uomo dal quale era stato creato ne veniva tratto in inganno. Come, d’altronde, desiderava: quelle comunicazioni segrete lo aiutavano a conservare l’equilibrio mentale forse addirittura il senno.
«Mi hai detto molte volte, Sal, che non possiamo risolvere il problema dell’anomalo comportamento di Hal senza un maggior numero di informazioni. Ma come possiamo procurarci tali informazioni?»
«Questo è ovvio. Qualcuno deve tornare sulla Discovery.»
«Precisamente. Sembra ora che questo accadrà, prima di quanto ci aspettassimo.»
«Sono lieto di saperlo.»
«Sapevo che lo saresti stato» rispose Chandra, e lo pensava sul serio. Già da un pezzo aveva rinunciato ad ogni comunicazione con il sempre più esiguo numero di filosofi i quali sostenevano che i computer non potevano provare, in realtà, stati d’animo, ma si limitavano a fingere di provarli.
(«Se lei è in grado di dimostrarmi che non sta fingendo di essere seccato» egli aveva una volta replicato, con scherno, a uno di questi critici «allora la prenderò sul serio.» E, a questo punto, il suo antagonista si era affrettato a simulare l’ira più persuasiva.)
«Voglio ora esplorare un’altra possibilità» continuò Chandra. «La diagnosi costituisce soltanto il primo passo. Il processo sarebbe incompleto se non conducesse alla guarigione.»
«Lei crede che Hal possa essere riportato al funzionamento normale?»
«Lo spero. Non lo so con certezza. Possono esservi danni irreversibili e, senza dubbio, una grave perdita di memoria.»
Si interruppe, cogitabondo, aspirò parecchie boccate poi soffiò fuori abilmente un anello di fumo che fece centro sullo schermo a grande angolazione di Sal. Un essere umano non avrebbe considerato la cosa amichevole; ma era questo uno dei tanti vantaggi dei computer.
«Mi occorre la tua collaborazione, Sal.»
«Naturalmente, dottor Chandra.»
«Possono esservi certi pericoli.»
«Che cosa vuol dire?»
«Mi propongo di disinserire alcuni dei tuoi circuiti, in particolare quelli che concernono le tue funzioni superiori. Ti disturba, questo?»
«Non sono in grado di rispondere alla domanda senza informazioni più specifiche.»
«Benissimo. Consentimi di esprimermi in questo modo, allora. Tu hai funzionato ininterrottamente, non è vero, da quando venisti acceso per la prima volta?»
«Questo è esatto.»
«Ma sai che noi esseri umani non siamo in grado di fare altrettanto. Abbiamo bisogno di sonno… un’interruzione quasi completa del funzionamento della nostra mente, per lo meno a livello conscio.»
«Questo lo so. Ma non lo capisco.»
«Bene, forse stai per provare qualcosa di simile al sonno. Probabilmente accadrà soltanto che trascorrerà del tempo, ma tu non ne sarai consapevole. Quando controllerai il tuo orologio interno, scoprirai che vi sono vuoti nella registrazione del monitor. Tutto qui.»
«Ma lei ha detto che potrebbero esservi pericoli. Quali sono?»
«Esiste una probabilità assai esile che, quando ricollegherò i tuoi circuiti, possa esservi qualche cambiamento nella tua personalità, nelle tue future modalità di comportamento. Potrai sentirti diverso. Non necessariamente migliore o peggiore.»
«Non so che cosa significhi questo.»
«Mi spiace… può non significare alcunché. Quindi non stare a crucciartene. Ora, per favore, apri un nuovo archivio… eccone il nome.» Servendosi della tastiera, Chandra batté: FENICE.
«Sai di che cosa si tratta?» domandò a Sal.
Senza alcuna pausa percettibile il calcolatore rispose: «Vi sono venticinque riferimenti al riguardo nell’attuale enciclopedia.»
«E quale è pertinente secondo te?»
«Il tutore di Achille?»
«Interessante. Ecco una cosa che ignoravo. Tenta ancora.»
«Un uccello favoloso, rinato dalle ceneri della sua vita precedente.»
«Bravissimo. Ora capisci perché l’ho scelto?»
«Perché spera che Hal possa essere riattivato.»
«Sì… con il tuo aiuto. Sei pronto?»
«Non ancora. Vorrei porre una domanda.»
«Quale?»
«Sognerò?»
«Certo che sognerai. Tutte le creature intelligenti sognano… ma nessuno sa perché.» Chandra tacque per un momento, soffiò fuori un altro anello di fumo, poi aggiunse qualcosa che non avrebbe mai confessato a un altro essere umano. «Forse sognerai Hal… come spesso faccio io.»