120369.fb2 2010: Odissea due - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 8

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5. LA LEONOV

I mesi si ridussero a settimane, le settimane si ridussero a giorni, i giorni a ore; e, all’improvviso, Heywood Floyd venne a trovarsi, di nuovo, al Cape diretto verso lo spazio esterno per la prima volta dopo il viaggio di tanti anni prima fino alla Base Clavius e al monolito di Tycho.

Ma questa volta non era solo e non esisteva alcunché di segreto nella missione. Poche poltrone più avanti rispetto a lui viaggiava il dottor Chandra, già impegnato in un dialogo con il suo calcolatore portatile, e del tutto ignaro di quanto gli stava intorno.

Uno degli spassi segreti di Floyd, che egli non aveva mai confidato a nessuno, consisteva nel cogliere le similarità tra esseri umani e animali. Le somiglianze erano quasi sempre più lusinghiere che offensive, e questo suo piccolo hobby costituiva inoltre un aiuto assai utile per la memoria.

Paragonare il dottor Chandra a un animale risultò facile le parole «simile a un uccello» gli vennero in mente all’istante. Lo scienziato era minuscolo, delicato, e tutti i suoi movimenti avevano un che di rapido e di preciso. Ma quale uccello? Ovviamente un uccello molto intelligente. La gazza? No, era troppo impertinente e avida. Il gufo? No… si muoveva troppo adagio. Forse il passero costituiva il paragone più efficace.

Walter Curnow, lo specialista di sistemi, al quale sarebbe toccato il compito formidabile di rendere nuovamente operativa la Discovery, poneva un problema più difficile a risolversi. Si trattava di un uomo robusto, ben piantato, senza dubbio per nulla simile a un uccello. Di solito si riusciva a trovare un’analogia nella vasta gamma dei cani, ma nessun canide sembrava adattarsi a lui. Oh, ma certo… Curnow era un orso, non uno di quelli scontrosi e pericolosi, ma un orso amichevole e di buona indole. E forse l’analogia era appropriata anche per un altro motivo: ricordò a Floyd i colleghi russi che avrebbe raggiunto di lì a non molto. Loro si trovavano in orbita da giorni, impegnati negli ultimi controlli.

Questo è un grande momento della mia vita, si disse Floyd. Parto adesso per una missione che può decidere l’avvenire del genere umano. Ma non provò alcuna sensazione di esultanza; la sola cosa cui gli riuscì di pensare, durante gli ultimi minuti del conto alla rovescia, furono le parole che aveva bisbigliato subito prima di andarsene da casa: «Arrivederci, caro bambino mio; ti ricorderai ancora di me quando tornerò?» E inoltre continuò a risentirsi con Caroline in quanto non aveva voluto destare il bambino addormentato per l’ultimo abbraccio; eppure sapeva che ella era stata assennata, essendo molto meglio così.

Il suo stato d’animo venne disperso da una risata improvvisa ed esplosiva: il dottor Curnow stava raccontando una barzelletta ai compagni di viaggio, oltre a dividere con loro una grossa bottiglia che maneggiava delicatamente come se si fosse trattato di una massa di plutonio a malapena subcritica.

«Ehi, Heywood» gridò «mi dicono che il capitano Orlov ha chiuso a chiave tutte le bevande alcoliche, per cui questa è la tua ultima occasione. Château Thierry 1995. Scusa per i bicchieri di plastica.»

Sorseggiando lo champagne davvero superbo, Floyd si sorprese a rabbrividire mentalmente mentre pensava alle sghignazzate di Curnow riverberantisi ovunque nel sistema solare. Per quanto egli ammirasse le capacità dell’ingegnere, come compagno di viaggio Curnow avrebbe potuto dare alquanto ai nervi. Per lo meno il dottor Chandra non poneva problemi del genere; difficilmente Floyd riusciva a immaginarlo con un sorriso sulle labbra, e tanto meno capace di ridere. Ora, naturalmente, egli rifiutò lo champagne, con un fremito percettibile. Curnow fu così cortese, o così contento, da non insistere.

L’ingegnere era deciso, a quanto pareva, ad essere la vita e l’anima della comitiva. Pochi minuti dopo, tirò fuori una tastiera elettronica a due ottave e si esibì con rapide versioni della canzone «D’ye ken John Peci» suonata, in ordine successivo, da un pianoforte, da un trombone, da un violino, da un flauto e da un organo, con tanto di accompagnamento vocale. Risultò essere davvero molto bravo e ben presto Floyd si sorprese a cantare insieme agli altri. Era comunque una fortuna, pensò, che Curnow dovesse trascorrere la maggior parte del viaggio silenziosamente ibernato.

La musica cessò con una improvvisa e disperante dissonanza mentre i motori venivano accesi e la navetta si lanciava nel cielo. Floyd fu pervaso dalla familiare, ma sempre nuova, esultanza — la sensazione di una potenza sconfinata che lo portava in alto e lontano dalle preoccupazioni e dai doveri della Terra. Gli uomini l’avevano saputa più lunga di quanto si fossero resi conto situando la dimora degli dèi al di là della portata della gravità. Ora lui stava volando verso quel regno dell’assenza di peso; e, per il momento, avrebbe ignorato il fatto che lassù non esisteva la libertà, bensì la più grande responsabilità della sua carriera.

Mentre la spinta si intensificava, sentì sulle spalle il peso di interi mondi — ma lo gradì, come un Atlante che non si fosse ancora stancato del proprio fardello. Non cercò di pensare, ma si accontentò di assaporare l’esperienza. Anche se stava abbandonando la Terra per l’ultima volta, e doveva dire addio a tutto ciò che avesse mai amato, non provava alcuna tristezza. Il rombo che lo circondava era un peana di trionfo e spazzava via tutte le emozioni di minor conto.

Quasi si dispiacque quando cessò, anche se gradì la respirazione più facile e l’improvvisa sensazione di libertà. Quasi tutti gli altri passeggeri cominciarono a sganciare le cinture di sicurezza, accingendosi a godere i trenta minuti di gravità zero durante l’orbita di trasferimento, ma i pochi che, ovviamente, facevano per la prima volta quel viaggio rimasero ai loro posti cercando intorno a sé, ansiosi, con lo sguardo, gli inservienti di cabina.

«Parla il comandante. Ci troviamo adesso all’altezza di trecento chilometri e stiamo arrivando sopra la costa occidentale dell’Africa. Non vedrete un granché, in quanto laggiù è notte — quel bagliore davanti a noi è Sierra Leone — e sta imperversando una grande tempesta tropicale sul Golfo di Guinea. Guardate i lampi!

«Avremo l’aurora tra quindici minuti. Nel frattempo sto facendo inclinare la navetta affinché possiate vedere bene la fascia dei satelliti equatoriali. Il più luminoso quasi immediatamente sopra di noi è Antenna Farm Atlantic-1 dell’Intelsat. Si vede poi Intercosmos 2 a ovest… quella stella più fioca è Giove. E, guardando subito più in basso, vedrete una luce lampeggiante in movimento sullo sfondo stellato… quella è la nuova stazione spaziale cinese. Passiamo a cento chilometri di distanza, e non siamo vicini quanto basta per poter scorgere qualcosa a occhio nudo…»

Quali erano gli scopi dei cinesi? pensò Floyd, pigramente. Aveva esaminato le fotografie, scattate a distanza ravvicinata, della tozza struttura cilindrica con i suoi curiosi rigonfiamenti, e non vedeva alcun motivo di credere alle voci allarmistiche secondo le quali si trattava di una fortezza munita di laser. Ma, poiché l’Accademia della Scienza di Beijing aveva ignorato le ripetute richieste di ispezione da parte del Comitato per lo Spazio dell’ONU, i cinesi potevano incolpare soltanto se stessi di una propaganda così ostile.

* * *

L’astronave Cosmonauta Alexei Leonov non era un esempio di bellezza; ma ben poche navi spaziali lo erano. Un giorno, forse, il genere umano avrebbe creato una nuova estetica; sarebbero potute sorgere generazioni di artisti che non avrebbero basato i loro ideali sulle forme naturali della Terra, modellate dal vento e dall’acqua. Lo spazio stesso era spesso un luogo di sconvolgente bellezza; sfortunatamente, i veicoli creati dall’uomo non riuscivano ancora a dimostrarsene all’altezza.

A parte i quattro enormi serbatoi di propellente, che sarebbero stati sganciati non appena percorsa l’orbita di trasferimento, la Leonov era sorprendentemente piccola. Dallo scudo anticalore ai motori non raggiungeva la lunghezza di cinquanta metri; si stentava a credere che un veicolo così modesto, più piccolo di molti aerei commerciali, potesse trasportare dieci persone, tra uomini e donne, attraverso una buona metà del sistema solare.

Ma la gravità zero, che consentiva alle pareti, ai soffitti e ai pavimenti di essere intercambiabili, rinnovava completamente tutte le regole di vita. Si trovava spazio in abbondanza, a bordo della Leonov, anche quando tutti erano desti contemporaneamente, come accadeva senza dubbio in quel momento. Anzi, l’equipaggio normale era adesso, come minimo, raddoppiato da vari giornalisti, da ingegneri che procedevano alle ultime regolazioni e da ansiosi funzionari.

Non appena la navetta ebbe attraccato, Floyd cercò di trovare la cabina che avrebbe diviso — di lì a un anno, quando si fosse destato dall’ibernazione — con Curnow e con Chandra. Quando l’ebbe trovata, constatò che era talmente piena zeppa di casse di materiale e di provviste chiaramente etichettate da rendere quasi impossibile entrarvi. Si stava domandando imbronciato come mettere piede oltre la soglia, quando un uomo dell’equipaggio intento a lanciarsi abilmente dall’una all’altra maniglia notò il dilemma di Floyd e si fermò con una frenata.

«Dottor Floyd… benvenuto a bordo. Sono Max Brailovsky… aiuto ingegnere.»

Il giovane russo parlava il lento e circospetto inglese di uno studente al quale siano state impartite più lezioni da un insegnante elettronico che da un maestro umano. Mentre si scambiavano una stretta di mano, Floyd accomunò il volto e il nome alle biografie dell’equipaggio che aveva già studiato: Maxim Andrei Brailovsky, età quasi trentuno, nato a Leningrado, specializzato in strutture; hobbies: scherma, deltaplani, scacchi.

«Piacere di conoscerla» disse Floyd. «Ma come entro in questa cabina?»

«Non deve preoccuparsi» disse Max, allegramente. «Tutte queste casse saranno scomparse quando lei si desterà. Contengono materiale com’è che dite voi? sacrificabile. Le avremo vuotato la cabina a furia di mangiare quando lei ne avrà bisogno. Glielo prometto.» Si batté la mano sullo stomaco.

«Bene, ma nel frattempo… dove metto la mia roba?» Floyd additò le tre piccole sacche da viaggio peso complessivo cinquanta chilogrammi contenenti, o almeno lo sperava, tutto ciò di cui avrebbe avuto bisogno durante il paio di miliardi di chilometri. Non era stato un compito facile portarne la mole senza peso, ma non priva di inerzia, lungo i corridoi dell’astronave con appena poche collisioni.

Max prese due delle sacche, scivolò con disinvoltura attraverso il triangolo formato da tre travi d’acciaio intersecantisi e si tuffò entro un piccolo boccaporto, sfidando in apparenza, nel frattempo, la prima legge di Newton. Floyd si procurò alcuni altri lividi mentre lo seguiva; dopo un intervallo di tempo considerevole — la Leonov sembrava molto più vasta all’interno che all’esterno — giunsero davanti a una porta con la targhetta COMANDANTE, sia in caratteri cirillici, sia in caratteri romani. Sebbene sapesse leggere il russo assai meglio di quanto lo parlasse, Floyd apprezzò il pensiero gentile; aveva già notato che tutti gli avvisi sull’astronave erano bilingui.

Dopo che Max ebbe bussato, una luce verde lampeggiò e Floyd scivolò all’interno con tutta la grazia di cui era capace. Benché avesse parlato molte volte con la comandante Orlova, non si erano mai incontrati prima di allora. Lo aspettavano pertanto due sorprese.

Era impossibile valutare la vera statura di una persona al videotelefono; la telecamera, in qualche modo, tramutava tutti nella stessa scala. La comandante Orlova, in piedi — per quanto si potesse restare in piedi con gravità zero — arrivava a malapena alle spalle di Floyd. Il videotelefono non era assolutamente riuscito, inoltre, a dare un’idea della penetrante espressività di quegli abbacinanti occhi azzurri, la caratteristica senz’altro più impressionante di un viso la cui bellezza non poteva essere giudicata, in quel momento, con equità.

«Salve, Tanya» disse Floyd. «È un piacere incontrarla, finalmente. Ma che peccato… i suoi capelli.»

Si strinsero entrambe le mani, come vecchi amici.

«Ed è un piacere averla a bordo, Heywood!» rispose la comandante. L’inglese di lei, diversamente da quello di Brailovsky, era molto scorrevole, anche se con un accento spiccatissimo. «Sì, mi è dispiaciuto perderli… ma i capelli sono una seccatura durante le lunghe missioni, ed io preferisco tenere lontani il più a lungo possibile i parrucchieri. Oh, mi scuso per la sua cabina; come Max le avrà già spiegato, ci siamo accorti all’improvviso che avevamo bisogno di altri dieci metri cubi di spazio per stivaggio. Vasili ed io non rimarremo a lungo qui, nelle prossime ore… si ritenga libero, la prego, di servirsi del nostro alloggio.»

«Grazie. E Curnow e Chandra?»

«Ho preso accordi analoghi con l’equipaggio. Potrebbe sembrare che vi stiamo trattando come carico…»

«Non necessario durante il viaggio.»

«Pardon?»

«Oh, è un’etichetta che solevano applicare ai bagagli nei tempi lontani dei viaggi oceanici.»

Tanya sorrise. «Sembra quasi che sia così. Ma sarete necessarissimi al termine del viaggio. Stiamo già predisponendo i festeggiamenti per quando rivivrete.»

«Detto così, ha un’aria un po’’ troppo religiosa. Diciamo… no, resurrezione sarebbe ancor peggio… diciamo festeggiamenti per il risveglio. Ma vedo quanto lei è occupata… mi consenta di lasciare qui il bagaglio e di continuare il giro dell’astronave.»

«Max gliela farà visitare… conduci il dottor Floyd da Vasili, vuoi? È giù nel reparto propulsori.»

Mentre scivolavano fuori dall’alloggio della comandante, Floyd lodò mentalmente la commissione che aveva selezionato l’equipaggio. Tanya Orlova faceva già una considerevole impressione sulla carta; in carne e ossa riusciva quasi a intimidire, nonostante il suo fascino. Mi domando come sia, si domandò Floyd, quando perde la pazienza. Si tratterà di fuoco o di ghiaccio? Tutto sommato, preferirei non doverlo accertare.

Le gambe di Floyd andavano abituandosi rapidamente allo spazio; quando giunsero accanto a Vasili Orlov, egli riusciva già a destreggiarsi quasi con la stessa sicurezza della sua guida. L’accoglienza del capo degli scienziati fu cordiale quasi quanto lo era stata quella di sua moglie.

«Benvenuto a bordo, Heywood. Come si sente?»

«Bene, a parte il fatto che sto morendo lentamente di fame.»

Per un momento Orlov parve interdetto; poi un ampio sorriso gli dilagò sulla faccia.

«Oh, Heywood, stavo dimenticando: ebbene, non sarà per molto. Tra circa dieci mesi potrà mangiare tutto ciò che vorrà.»

I destinati all’ibernazione venivano sottoposti, una settimana prima, a una dieta con bassi residui; e nelle ultime ventiquattr’ore non potevano ingerire altro che liquidi. Floyd stava cominciando a domandarsi quanto del suo crescente stordimento fosse dovuto all’inedia, quanto allo champagne di Curnow e quanto alla gravità zero.

Per concentrarsi, scrutò la massa multicolore di tubazioni che li circondava.

«Sicché questo è il famoso propulsore Sakharov. È la prima volta che ne vedo uno in dimensioni reali.»

«È soltanto il quarto che viene costruito.»

«Spero che funzioni.»

«Sarebbe un guaio se non funzionasse. Il consiglio municipale di Gorky dovrebbe altrimenti ribattezzare la Piazza Sakharov.»

Era un indizio dei tempi il fatto che un sovietico potesse scherzare, per quanto obliquamente, sul trattamento riservato dal suo paese al più grande scienziato russo. Floyd rammentò, una volta di più, l’eloquente discorso pronunciato da Sakharov all’Accademia, quando, tardivamente, egli era stato nominato Eroe dell’Unione Sovietica. La prigione e l’esilio, aveva detto ai suoi ascoltatori, erano splendidi incentivi alla creatività; non pochi capolavori erano stati concepiti tra le mura di una cella, lontano dalle distrazioni del mondo. Del resto, il più grande, singolo conseguimento dell’intelletto umano, gli stessi Principia, lo si doveva all’esilio che Newton si era autoimposto da Londra, ove imperversava la peste.

Non si trattava di un paragone immodesto; dagli anni trascorsi a Gorky erano scaturiti non soltanto nuovi approfondimenti per quanto concerneva la struttura della materia e l’origine dell’universo, ma anche i nuovi concetti relativi al controllo del plasma, che avevano reso possibile lo sfruttamento pratico dell’energia termonucleare. Lo stesso propulsore, sebbene fosse il risultato più noto e più reclamizzato di tali scoperte, era soltanto un sottoprodotto di quello stupefacente conseguimento intellettuale. La tragedia consisteva nel fatto che simili progressi fossero stati facilitati dall’ingiustizia; un giorno, forse, l’umanità avrebbe trovato modi più civili per tutelare il proprio interesse.

Quando uscirono dal reparto motori, Floyd aveva imparato più cose del propulsore Sakharov di quante volesse in realtà sapere o potesse aspettarsi di ricordare. Conosceva bene i princìpi fondamentali l’impiego della reazione nucleare pulsante per riscaldare ed espellere Virtualmente qualsiasi materiale propellente. I migliori risultati li si otteneva con l’idrogeno puro come fluido operante, ma l’idrogeno era un gas eccessivamente voluminoso e difficile da conservare per lunghi periodi di tempo. Il metano e l’ammoniaca costituivano alternative accettabili; persino l’acqua poteva essere impiegata, anche se con una resa considerevolmente inferiore.

Sulla Leonov si era addivenuti a un compromesso; gli enormi serbatoi di idrogeno liquido che fornivano la spinta iniziale sarebbero stati abbandonati non appena l’astronave avesse raggiunto la velocità necessaria per portarla fino a Giove. Una volta raggiunta la mèta, sarebbe stata impiegata l’ammoniaca per le manovre di frenaggio e di attracco, e per l’eventuale ritorno sulla Terra.

Questa era la teoria, controllata e ricontrollata mediante innumerevoli prove e simulazioni con il computer. Ma, come aveva dimostrato la sfortunata Discovery, tutti i progetti umani erano assoggettati alla spietata revisione della natura, o del Fato, o comunque si volessero denominare i poteri celati dietro l’universo.

«Ah, sicché lei è qui, dottor Floyd» disse un’autoritaria voce femminile, interrompendo Vasili, che spiegava entusiasticamente il feedback magnetoidrodinamico. «Perché non si è presentato a me?»

Floyd ruotò adagio sul proprio asse, grazie al movimento torcente impresso dalla lieve spinta di una mano. Scorse una sagoma massiccia e materna che indossava un curioso camice adorno da decine di tasche e borse; l’effetto non era dissimile da quello di un soldato cosacco drappeggiato con cartucciere.

«Lieto di incontrarla di nuovo, dottoressa. Sto ancora esplorando… spero che abbia ricevuto la mia cartella clinica da Houston.»

«Quei veterinari del Teague! Credo che non saprebbero diagnosticare nemmeno l’afta epizootica!»

Floyd sapeva benissimo che esisteva reciproco rispetto tra Katerina Rudenko e il Centro Medico Olin Teague e pertanto l’ampio sorriso con il quale la dottoressa smentì le proprie parole fu superfluo. Ella notò lo sguardo apertamente curioso di lui e, non senza fierezza, tastò l’armamentario che portava intorno alla larga vita.

«Il borsetto nero convenzionale non è molto pratico con gravità zero gli oggetti ne escono galleggiando e, quando ti occorrono, non li trovi. È un’idea mia, questa; si tratta di un’attrezzatura per piccoli interventi chirurgici. Con gli strumenti che ho potrei operare di appendicite, o far venire al mondo un bimbo.»

«Ritengo che quest’ultima evenienza non si verificherà a bordo della Leonov.»

«Ah! Un buon medico deve essere pronto a tutto.»

Quale contrasto, pensò Floyd, tra la comandante Orlova e la dottoressa Rudenko! Tanya Orlova aveva la grazia e l’intensità espressiva di una prima ballerina; la dottoressa sarebbe potuta essere il prototipo della Madre Russia… tarchiata, con un viso piatto da contadina, le mancava soltanto uno scialle affinché il quadro fosse completo. Non lasciarti trarre in inganno dall’aspetto, si disse Floyd. Questa è la donna che ha salvato almeno una dozzina di vite quando vi è stato l’incidente di attracco della Komarov… e, nei momenti liberi, riesce anche a dirigere la pubblicazione Annali di medicina spaziale. Considerati molto fortunato perché si trova a bordo.

«E ora, dottor Floyd, avrà tutto il tempo in seguito di esplorare la nostra piccola astronave. I miei colleghi sono troppo compiti per dirlo, ma hanno del lavoro da sbrigare, e lei è d’intralcio. Vorrei ibernare lei e i suoi compagni al più presto possibile. Dopodiché avremo minori motivi di preoccupazione.»

«Lo temevo, ma mi rendo perfettamente conto del suo punto di vista. Sono pronto, non appena lo sarà lei.»

«Io sono sempre pronta. Venga… la prego.»

L’infermeria dell’astronave era grande appena quanto bastava per contenere il tavolo operatorio, due biciclette da palestra, alcuni armadi di strumenti e l’apparecchio per le radiografie. Mentre la dottoressa Rudenko stava sottoponendo Floyd a un rapido, ma accurato esame, gli domandò, inaspettatamente: «Che cos’è il cilindretto d’oro che il dottor Chandra porta al collo, appeso a una catenina… qualche aggeggio per le comunicazioni? Non ha voluto toglierselo… in effetti, è tanto timido che non si sarebbe voluto togliere quasi nulla.»

Floyd non poté fare a meno di sorridere: era facile immaginare le reazioni del pudico indiano a quella donna alquanto invadente.

«È un lingam.»

«Un che?»

«La dottoressa è lei… avrebbe dovuto riconoscerlo. È il simbolo della fecondità maschile.»

«Ma certo… quanto sono stata stupida. È un indù praticante il dottor Chandra? Sarebbe un po’’ tardi se ci richiedesse una dieta strettamente vegetariana.»

«Non si preoccupi… se così fosse vi avremmo avvertiti tempestivamente. Sebbene non beva alcolici, Chandra non è fanatico per nessuna cosa, eccettuati i computer. Mi ha detto una volta che suo nonno era sacerdote a Benares e gli diede quel lingam… appartiene alla famiglia da generazioni.»

Non senza un certo stupore da parte di Floyd, la dottoressa Rudenko non reagì negativamente come egli si era aspettato; anzi, l’espressione di lei divenne malinconica.

«Capisco i suoi sentimenti. Mia nonna mi fece dono di una meravigliosa icona… del sedicesimo secolo. Avrei voluto portarla a bordo… ma pesa cinque chilogrammi.»

La dottoressa tornò bruscamente alle cose pratiche, fece a Floyd un’iniezione indolore, servendosi di una siringa ipodermica azionata da un gas, e gli disse di tornare da lei non appena si fosse sentito sonnacchioso. Questo, gli assicurò, sarebbe accaduto entro meno di due ore.

«Nel frattempo, si rilassi completamente» gli ordinò. «C’è un oblò di osservazione a questo piano… il Posto di guardia D.6. Perché non si reca là?»

Sembrava una buona idea e Floyd galleggiò via, nella gravità zero, con una docilità che avrebbe stupito i suoi amici. La dottoressa Rudenko consultò l’orologio, dettò un breve appunto alla segreteria automatica e la predispose per la suoneria di allarme di lì a trenta minuti.

Quando giunse all’oblò D.6, Floyd vide che Chandra e Curnow si trovavano già lì. Lo sbirciarono con una totale assenza di riconoscimento nello sguardo, poi tornarono a contemplare l’imponente spettacolo esterno. Accadde di pensare a Floyd ed egli si congratulò con se stesso per un’osservazione così brillante che Chandra non poteva godersi, in realtà, il panorama. Aveva già gli occhi strettamente chiusi.

Un pianeta del tutto sconosciuto si trovava là all’esterno, sospeso nelle tenebre, splendente di favolosi azzurri e di bianchi abbacinanti. Come è strano, si disse Floyd. Dove è andata a finire la Terra? Oh, ma certo… non ci si poteva stupire se non l’aveva riconosciuta! Era capovolta! Quale disastro… e, fuggevolmente, egli pianse per tutta quella povera gente che stava precipitando nello spazio…

Quasi non si accorse di nulla quando due uomini dell’equipaggio portarono via il corpo inerte di Chandra. Allorché tornarono a prendere Curnow, anche Floyd aveva chiuso gli occhi, ma respirava ancora. Quando tornarono per lui, a sua volta non respirava più.