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Prima della trasformazione in sole di Giove, Io era quanto di più vicino all’inferno — secondo solo a Venere — esistesse nel sistema solare. Ora che Lucifero aveva fatto aumentare la temperatura alla superficie di Io di altri duecento gradi, Venere veniva secondo in graduatoria.
I vulcani e geyser sulfurei avevano enormemente accresciuto la loro attività, modificando radicalmente l’aspetto del tormentato satellite nello spazio di pochi decenni, se non di qualche anno soltanto. I planetologi avevano ormai rinunciato a ogni tentativo di cartografarlo, accontentandosi di prenderne fotografie orbitali ogni pochi giorni. Montando queste fotografie e facendone un film, si aveva una chiara idea di che cos’era l’inferno.
I Lloyd’s di Londra avevano preteso cifre altissime per la copertura assicurativa di questa parte della missione, ma Io non rappresentava un gran rischio per un’astronave che effettuasse un passaggio ravvicinato a una distanza di diecimila chilometri, passando oltretutto sulla faccia non illuminata, relativamente tranquilla.
Mentre osservava la sfera giallo arancio che si faceva sempre più vicina — l’astro forse più vistoso e improbabile di tutto il sistema solare — il secondo ufficiale Chris Floyd non poté fare a meno di pensare che anche suo nonno, già mezzo secolo prima, era stato in quella zona dello spazio. Qui la Leonov aveva accostato la Discovery abbandonata, e qui il dottor Chandra aveva risvegliato il computer disattivato, Hal. Quindi le due navi avevano proseguito il viaggio per esaminare l’enorme monolito nero fermo in L1, il Punto di Lagrange interno tra Io e Giove.
Ora il monolito non c’era più — e non c’era più nemmeno Giove. Il minisole che era nato come la fenice dall’implosione del gigantesco pianeta ne aveva trasformato i satelliti praticamente in un altro sistema solare, sebbene solo su Ganimede ed Europa si trovassero zone con temperature di tipo terrestre. Per quanto tempo sarebbe durata questa situazione, nessuno lo sapeva. Le stime della vita di Lucifero andavano da mille a un milione di anni.
L’equipe scientifica imbarcata sulla Galaxy fissava con occhi bramosi il punto L1, cui ora però era troppo pericoloso accostarsi. Vi era sempre stato un fiume di energia elettrica — il «tubo di flusso» di Io che scorreva tra Giove e i satelliti interni, e la nascita di Lucifero ne aveva centuplicato l’intensità. Certe volte questo fiume di elettricità era visibile a occhio nudo; acceso di una luce gialla che rivelava la presenza di ioni di sodio. Alcuni scienziati di Ganimede avevano prospettato l’opportunità di attingere a tutti quei gigawatt che andavano sprecati; ma nessuno aveva la minima idea di come farlo.
Venne lanciato il primo penetrometro, tra i lazzi dell’equipaggio, e due ore dopo la macchina cacciò un ago ipodermico nel satellite ribollente. Continuò a funzionare per quasi cinque secondi — e cioè dieci volte la durata media prevista in progetto — trasmettendo migliaia di misurazioni chimiche, fisiche e reologiche, prima che Io la distruggesse.
Gli scienziati erano in estasi; van der Berg mostrò solo una moderata soddisfazione. Sapeva che la sonda avrebbe compiuto il suo lavoro: Io era un bersaglio facilissimo. Ma se aveva visto giusto sul conto di Europa, il secondo penetrometro non avrebbe sicuramente funzionato.
Ma ciò non avrebbe provato nulla; c’erano decine di ottimi motivi per cui la macchina avrebbe potuto non funzionare. E in tal caso non ci sarebbe stata altra alternativa che l’atterraggio diretto.
Il che, naturalmente, era proibito — e non solo dalle leggi umane.