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Il capitano Laplace si svegliò di colpo al rumore minimo, simile al battere di un picchio lontano, dei jet di controllo dell’assetto. Per un attimo rimase in dubbio: forse stava sognando. Ma subito capì che l’astronave si stava davvero girando nello spazio.
Forse un lato dell’astronave si stava riscaldando troppo e il sistema di controllo termico era entrato in azione modificando lievemente l’assetto. Qualche volta succedeva, e ciò andava a demerito dell’ufficiale di guardia, che avrebbe dovuto accorgersi dell’innalzamento della temperatura.
Tese la mano per premere il pulsante dell’intercom e chiamare chi c’era in plancia? Ah, sì, il secondo ufficiale Chang. Ma la mano non portò a termine il movimento.
Dopo giorni e giorni di assenza di peso, anche un decimo di gravità è uno shock. Al capitano parve di impiegare minuti interi, sebbene in realtà non si trattasse che di pochi secondi, per liberarsi dalle cinture e saltare dalla cuccetta. Questa volta trovò il pulsante e lo premette con violenza. Non vi fu risposta.
Cercò di non badare agli urti e ai tonfi causati dagli oggetti malamente assicurati colti di sorpresa dall’imprevisto ritorno della gravità. Tonfi e urti continuarono per molto tempo, e quando infine cessarono si udì un suono soltanto, e cioè l’urlo lontano del reattore a pieno regime.
Scostò con uno strattone la tendina del piccolo oblò e guardò le stelle. Il capitano sapeva grosso modo quale sarebbe dovuto essere l’orientamento dell’asse dell’astronave, anche se con un’approssimazione di trenta o quaranta gradi, ed era dunque in grado di rendersi conto di che cosa stesse succedendo.
Sotto propulsione, la Galaxy poteva o aumentare o diminuire la velocità orbitale. Il capitano capì che la velocità stava diminuendo e che l’astronave si stava dunque avvicinando a Europa.
Presero a bussare con insistenza alla porta, e il capitano si rese conto che doveva essere trascorso appena un minuto o poco più. Il secondo ufficiale Floyd e due uomini dell’equipaggio si accalcavano nello stretto corridoio.
«Il ponte di comando è chiuso a chiave, signore!» disse Floyd con il fiato mozzo. «Non si può entrare, e Chang non risponde. Non so che cosa sia successo, signore.»
«Io sì… Ho paura.» rispose il capitano Laplace infilandosi i calzoni corti. «Qualche matto doveva ben provarcisi, prima o poi. Questo è un dirottamento, e riesco anche a immaginare benissimo la destinazione. Ma perché, che io sia dannato se lo capisco.»
Guardò l’ora e fece qualche rapido calcolo mentale.
«Con questa accelerazione, usciremo dall’orbita nel giro di quindici minuti. Diciamo dieci, per sicurezza. Possiamo interrompere la propulsione senza mettere in pericolo l’astronave?»
Il secondo ufficiale di macchina Yu, che aveva l’aria pochissimo allegra, rispose con riluttanza.
«Possiamo togliere energia alle pompe e interrompere l’afflusso di propellente.»
«Le pompe sono accessibili?»
«Sì… sono sul Ponte Tre.»
«Allora andiamo.»
«Ehm… però interverrebbe il sistema di riserva. È del tutto indipendente, e per sicurezza è alloggiato in un compartimento sigillato sul Ponte Cinque. Bisognerà usare la fiamma ossidrica… No, non faremmo in tempo.»
Il capitano l’aveva temuto fin dal principio. I bravissimi ingegneri che avevano progettato la Galaxy avevano cercato di proteggerla da ogni incidente possibile, ma non dalle cattive intenzioni degli esseri umani.
«C’è qualche altra soluzione?»
«Temo che non ci sia tempo.»
«Allora andiamo su in plancia e vediamo se possiamo parlare con Chang… e con chi è con lui.»
Chi poteva mai essere? Si chiese il capitano. Non certo qualcuno dell’equipaggio, di questo era sicurissimo. Allora doveva trattarsi… ma certo, non poteva essere altrimenti! Tornava tutto: uno scienziato monomaniaco cerca di dimostrare una sua teoria, gli esperimenti non vanno in porto; allora lo scienziato in questione decide che la ricerca della conoscenza viene prima di ogni altra cosa…
Era un’ipotesi melodrammatica e a buon mercato, ma i fatti tornavano perfettamente. Forse il dottor Anderson aveva deciso che quello era l’unico modo per arrivare al Nobel.
Ma la teoria del capitano crollò di lì a poco, quando arrivò di corsa, spettinato e ansimante, il dottor Anderson in persona. «Per l’amor del cielo, capitano… che cosa sta succedendo? Siamo sotto spinta! Stiamo salendo… o scendendo?»
«Scendendo» rispose il capitano Laplace. «Tra dieci minuti saremo in un’orbita che ci porterà dritti su Europa. Speriamo che chiunque sia ai comandi sappia il fatto suo.»
Erano giunti davanti alla porta chiusa che dava sul ponte di comando. Dall’interno non veniva il minimo rumore.
Il capitano bussò più forte che poté cercando di non sbucciarsi le nocche.
«Sono il capitano! Fateci entrare!»
Si rendeva conto di far la figura dello stupido a dare ordini che non sarebbero certamente stati rispettati, ma sperava in una qualche reazione. E, con sua sorpresa, una reazione ci fu.
Con un sibilo l’altoparlante esterno entrò in funzione e una voce disse: «Non fate sciocchezze, capitano. Sono armata, e il signor Chang è mio prigioniero».
«Che cosa?» sussurrò un ufficiale. «Ma è una donna!»
«Proprio così» rispose sarcasticamente il capitano. Ciò riduceva le alternative a una sola, ma non risolveva nulla.
«Ma che cosa credi di fare? Lo sai che non può andarti liscia!» gridò cercando di sembrare sicuro di sé.
«Scendiamo su Europa. E se volete ripartire, non cercate di fermarmi.»
«Nella sua cabina non c’è nulla» riferì il secondo ufficiale Chris Floyd mezz’ora dopo, quando l’accelerazione era ormai cessata e la Galaxy procedeva in caduta libera lungo un’ellisse che l’avrebbe portata di lì a poco a sfiorare l’atmosfera di Europa. Ormai era fatta; ora sarebbe stato possibile fermare le macchine, ma farlo sarebbe stato un suicidio. Ci sarebbe stato bisogno del propulsore per l’atterraggio anche se atterrare poteva essere solo una forma di suicidio meno immediata.
«Rosie McMahon! Chi l’avrebbe mai detto! Che sia una drogata?»
«No» fece Floyd. «Non è questo. Il dirottamento è stato attentamente programmato. Deve avere una radio nascosta da qualche parte. Bisogna perquisire l’astronave.»
«Parli proprio come un poliziotto…»
«Basta così, signori!» li interruppe il capitano. Gli animi si riscaldavano soprattutto per il senso d’impotenza e per l’impossibilità di stabilire altri contatti con il ponte di comando, sempre inaccessibile. Guardò l’ora.
«Tra meno di due ore entreremo nell’atmosfera di Europa… quella poca che c’è. Io scendo in cabina… può darsi che mi cerchino lì. Signor Yu, la prego di rimanere di guardia al portello del ponte di comando, e di chiamarmi immediatamente se succede qualcosa.»
Mai si era sentito così impotente in vita sua, ma nella vita in certi casi l’unica cosa che si può fare è non fare nulla. Uscendo dal quadrato ufficiali, sentì qualcuno dire malinconicamente: «Avrei proprio voglia di caffè. Rosie faceva il miglior caffè che abbia mai assaggiato».
Già, disse cupamente il capitano dentro di sé, è una donna sicuramente molto in gamba. Tutto quello che fa, lo fa davvero bene.