120384.fb2 2061 Odissea tre - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 34

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29. DISCESA

Il secondo ufficiale Chang si arrovellava col suo problema fin da quando la Galaxy era entrata — con sua sorpresa e sollievo — nell’orbita di trasferimento. Per il paio d’ore successive l’astronave sarebbe stata nelle mani di Dio, o, meglio, in quelle di sir Isaac Newton; non vi era nulla da fare se non aspettare la frenata finale e la manovra di atterraggio.

Per un attimo aveva pensato di ingannare Rosie dando all’astronave un vettore inverso nel punto di massimo avvicinamento, e riportarla così nello spazio. L’astronave sarebbe allora venuta a trovarsi in un’orbita stabile, e i soccorsi sarebbero potuti arrivare facilmente da Ganimede. Però il progetto presentava una pecca fondamentale: lui non l’avrebbe soccorso nessuno, perché sarebbe morto prima. Chang non era certo un codardo, ma non aveva nessuna intenzione di diventare un eroe morto.

Comunque le probabilità di uscire vivo dalle prossime ore sembravano molto poche. Gli era stato imposto di far atterrare, da solo, un’astronave da tremila tonnellate in un territorio del tutto sconosciuto. Era un’impresa che non avrebbe tentato nemmeno sulla familiare Luna.

«Quanti minuti mancano all’inizio della frenata?» chiese Rosie. Forse era più un ordine che una domanda; la ragazza evidentemente conosceva i princìpi fondamentali dell’astronautica, e Chang rinunciò a ogni proposito di ingannarla.

«Cinque» rispose a malincuore. «Posso avvertire equipaggio e passeggeri di tenersi pronti?»

«Lo farò io. Mi dia il microfono… Qui È IL PONTE Di COMANDO. TRA CINQUE MINUTI INIZIA LA FRENATA. RIPETO, TRA CINQUE MINUTI. FINE.»

Il messaggio non giunse imprevisto agli scienziati e agli ufficiali riuniti nel quadrato. La situazione presentava un solo lato positivo, e cioè che le telecamere esterne non erano state disattivate. Forse Rosie se n’era dimenticata; ma più probabilmente non si era curata di disinserirle. E dunque, spettatori impotenti — pubblico manipolato nel vero senso della parola — potevano assistere allo svolgersi del loro destino.

La mezzaluna velata di Europa ora riempiva il campo visivo della telecamera di poppa. La coltre di vapore acqueo che tornava a condensarsi sulla faccia oscura si stendeva ininterrotta. Ma questo non aveva importanza, giacché la manovra di discesa sarebbe stata controllata a mezzo radar fino all’ultimo momento. Ciò, però, avrebbe prolungato l’angoscia degli spettatori, che potevano contare solo sulla luce visibile.

Nessuno guardava quel mondo che si avvicinava con maggiore interesse dell’uomo che per quasi un decennio ne aveva fatto l’oggetto dei suoi studi, spesso così frustranti. Rolf van der Berg, assicurato saldamente dalla cintura di sicurezza al seggiolino a bassa gravità, a malapena si accorse che il peso era ritornato con l’inizio della frenata.

Nel giro di cinque secondi l’accelerazione raggiunse il massimo. Tutti gli ufficiali facevano rapidi calcoli sui computer individuali; senza l’accesso alla navigazione, bisognava fare un mucchio di congetture, e il capitano Laplace attese che confrontassero i loro calcoli.

«Undici minuti,» annunciò a un certo punto «ammesso che non diminuisca la potenza… che ora è al massimo. Più altri cinque minuti, ammesso che l’effetto frenante dell’atmosfera cominci a dieci chilometri dalla superficie, appena sopra la coltre di nuvole, e che poi l’astronave scenda verticalmente.»

Il capitano pensò che non fosse il caso di aggiungere che il maggior pericolo si sarebbe corso nell’ultimo secondo di quei cinque minuti.

Europa pareva decisa a conservare i suoi segreti fino all’ultimo. A dieci chilometri dalla superficie, appena sopra la coltre di nuvole, ancora non si vedeva segno né di terra né di mare. Quindi, per qualche terribile secondo sugli schermi non si vide più nulla, tranne qualche particolare confuso dell’incastellatura d’atterraggio, pochissimo usata e ora pronta per il touchdown.

Il rumore dell’incastellatura che usciva dallo scafo aveva provocato, qualche minuto prima, un attimo di panico tra i passeggeri; adesso potevano solo sperare che l’incastellatura facesse il suo dovere.

Ma quanto è spessa questa dannata coltre di nuvole? si chiese van der Berg. Magari arriva giù fino alla superficie…

No, ora era meno fitta, e si diradava in banchi… Ed ecco Nuova Europa che si stendeva a poche migliaia di metri più sotto.

Era nuova davvero; non bisognava essere geologi per accorgersene. Quattro miliardi di anni prima, forse la Terra, allora giovanissima, avrebbe potuto avere quell’aspetto, quando terra e mare si accingevano a porre termine al loro eterno conflitto.

Su Europa appena cinquant’anni prima non esistevano né terra né mare solo ghiaccio. Ma adesso il ghiaccio si era sciolto sull’emisfero rivolto a Lucifero, l’acqua così ottenuta era evaporata e si era depositata, di nuovo in forma di ghiaccio, sulla faccia non illuminata. Lo spostamento di milioni di tonnellate di liquido da un emisfero all’altro aveva lasciato esposti antichi fondali marini che non avevano mai visto nemmeno la fioca luce del sole lontano.

Un giorno, forse, quel paesaggio rotto e contorto sarebbe stato addolcito e domato da un manto di vegetazione; per ora si vedevano nude colate di lava e bassifondi fangosi che fumavano sotto i raggi di Lucifero, interrotti qua e là da rocce affioranti che mostravano strati stranamente obliqui. Anche il profano capiva che in quei luoghi erano avvenuti imponenti fenomeni tettonici; e questa conclusione non stupiva affatto, dato che quel mondo aveva visto di recente la nascita di una montagna alta quanto l’Everest.

E infatti eccolo lì, il Monte Zeus, torreggiante su un orizzonte innaturalmente angusto. Rolf van der Berg ebbe un tuffo al cuore e un brivido. Stava guardando la montagna dei suoi sogni non più per mezzo dei sensi remoti e impersonali degli strumenti, ma con i suoi occhi.

Come ben sapeva, la montagna aveva grosso modo la forma di un tetraedro inclinato da una parte così che una faccia era pressoché verticale. (Quella sì che sarebbe stata una ben dura scalata, anche con la bassa gravità di Europa, tanto più che non era roccia da poterci piantare i chiodi…) La vetta era nascosta dalle nuvole, e gran parte del versante meno ripido era coperto di neve.

«Tutto qui?» brontolò qualcuno, deluso. «A me sembra una montagna come tutte le altre. Quando se ne è vista una…» Gli altri gli dissero irosamente di stare zitto.

La Galaxy dirigeva ora lentamente verso il Monte Zeus mentre Chang cercava un luogo adatto all’atterraggio. L’astronave aveva uno scarso controllo laterale, perché il novanta per cento della potenza doveva essere impiegato solo per sostenerla. Vi era propellente per circa cinque minuti; dopo di che sarebbe ancora potuta atterrare normalmente, ma non avrebbe più potuto decollare.

Neil Armstrong si era trovato di fronte allo stesso dilemma, cent’anni prima. Ma lui non stava ai comandi con una pistola puntata alla tempia.

Eppure fino all’ultimo minuto Chang si era praticamente dimenticato e della pistola e di Rosie. Badava alla manovra con tutto se stesso; era quasi entrato a far parte della grande macchina che stava pilotando. L’unica emozione che era in grado di provare non era di paura, ma di esaltazione. Quello era il compito che era stato preparato a svolgere; quello era il culmine della sua carriera, anche se avrebbe potuto esserne l’atto conclusivo.

E quest’ultima ipotesi diveniva via via più probabile. La montagna distava ormai meno di un chilometro, e lui non aveva ancora trovato un punto adatto all’atterraggio. Il terreno era incredibilmente accidentato, rotto da canyon e cosparso di giganteschi macigni. Non aveva visto uno spiazzo in qualche modo orizzontale più grande di un campo da tennis — e la linea rossa sull’indicatore del propellente era lontana solo trenta secondi.

Ma infine ecco una superficie pianeggiante — di gran lunga la più pianeggiante che avesse visto fino a quel momento. Era la sua unica possibilità di farcela.

Delicatamente spostò il gigantesco e instabile cilindro verso lo spiazzo — pareva fosse coperto di neve — sì, proprio così — il getto del propulsore stava spazzando via la neve — ma che cosa c’era sotto? — ghiaccio, — si direbbe dev’essere un lago gelato — ma spesso quanto SPESSO QUANTO…

Le cinquecento tonnellate di spinta del propulsore principale della Galaxy colpirono la superficie ingannevolmente invitante. Subito linee sottili si sprigionarono dal punto d’impatto; il ghiaccio si ruppe, e grandi lastroni presero a capovolgersi. Onde concentriche di acqua bollente corsero via verso le rive mentre tutta la potenza dei propulsori investiva le acque a un tratto libere.

Chang era un ufficiale ben addestrato, e quindi reagì automaticamente, senza esitazioni che sarebbero state fatali. Con la mano sinistra strappò la copertura di sicurezza; con la mano destra afferrò la leva rossa che stava sotto di essa e la tirò.

Il programma ANNULLA, che aveva pacificamente dormito nei sistemi dell’astronave fin dal giorno del lancio, entrò in funzione e riportò la Galaxy nello spazio dal quale era venuta.