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L’inattesa notizia che l’astronave gemella Universe era già in viaggio — e che sarebbe arrivata molto prima di quanto chiunque avrebbe osato sperare — ebbe, sul morale dell’equipaggio della Galaxy, un effetto che si può soltanto definire euforico. Il fatto stesso che stessero andando impotenti alla deriva su un oceano alieno, circondati da mostri sconosciuti, apparve a un tratto meno preoccupante.
Anche i mostri, che di quando in quando facevano qualche comparsa, sembravano meno minacciosi. Vennero avvistati alcuni «squali» giganteschi, che però non si avvicinarono all’astronave nemmeno quando venivano gettati in mare i rifiuti. Questo comportamento era sorprendente; veniva da pensare che quei giganteschi animali — a differenza dei loro omologhi terrestri — disponessero di un ottimo sistema di comunicazione. Forse erano più simili ai delfini che agli squali.
Vi erano anche moltissimi pesci più piccoli, che su un mercato della Terra nessuno avrebbe degnato più che di un’occhiata distratta. Dopo parecchi tentativi, un ufficiale, che era anche un abile pescatore, riuscì a prenderne uno con un amo privo di esca. Non lo portò dentro l’astronave — il capitano non l’avrebbe mai permesso — ma lo misurò e lo fotografò per bene prima di rigettarlo in acqua.
Tuttavia questo prode sportivo dovette pagare un caro prezzo per il suo trofeo. Quando rientrò nell’astronave, la tuta spaziale a pressione parziale che aveva indossato puzzava di acido solfidrico — aveva cioè il caratteristico odore delle uova marce — e l’ufficiale divenne l’oggetto di interminabili scherzi. Anche questo era il segno di una biochimica aliena e implacabilmente ostile.
Malgrado le richieste degli scienziati, non furono consentite altre partite di pesca. Potevano osservare e registrare a volontà, ma non raccogliere esemplari. E comunque, fu fatto loro notare, essi erano planetologi, e non naturalisti. A nessuno era venuto in mente di portare della formalina, che, in ogni modo, non sarebbe probabilmente servita a nulla.
Una volta l’astronave si trovò a galleggiare per parecchie ore in mezzo a masse, o a strati, di una sostanza di un vivido color verde. La sostanza verde formava una sorta di isolotti ovali di una decina di metri di diametro, tutti delle stesse dimensioni. La Galaxy li attraversava senza incontrare nessuna resistenza, e gli isolotti subito si riformavano dopo il passaggio dell’astronave. Si pensò fossero colonie di organismi viventi.
Una mattina, l’ufficiale di guardia ebbe un sussulto quando un periscopio uscì dall’acqua ed egli si trovò a fissare un occhio azzurro dall’espressione mite che, riferì in seguito, gli ricordava quello di una mucca malata. L’occhio lo guardò malinconicamente per qualche secondo senza mostrare grande interesse, e poi tornò a immergersi lentamente nell’oceano.
Nulla si muoveva rapidamente laggiù, e per ovvi motivi. Quello era un mondo ancora a bassa energia — non vi era l’ossigeno libero che consente agli esseri terrestri di vivere come con una serie di esplosioni continue, dal momento in cui cominciano a respirare fino alla morte. Solo lo «squalo» visto la prima volta aveva mostrato segni di un’attività violenta, negli ultimi spasmi dell’agonia.
Forse ciò tornava di vantaggio agli uomini. Anche se le tute spaziali li rendevano lenti e goffi, probabilmente su Europa non esisteva una forma di vita in grado di raggiungerli — anche se avesse voluto prenderli.
Con sarcastica amarezza il capitano Laplace si diceva che aveva affidato il governo dell’astronave al commissario di bordo; e si chiedeva se ciò fosse mai accaduto nella lunga storia della navigazione sui mari e nello spazio.
Non che il signor Lee avesse gran che da fare. La Galaxy galleggiava in posizione verticale, per un terzo fuori dall’acqua, lievemente inclinata per il vento che le faceva fare cinque nodi abbondanti. Le infiltrazioni d’acqua erano minime, e tutte sotto controllo. Inoltre, cosa forse più importante, lo scafo era ancora a tenuta d’aria.
Sebbene gran parte degli strumenti di navigazione fosse inutilizzabile, la posizione era perfettamente nota. Ogni ora Ganimede trasmetteva loro la posizione sul canale d’emergenza, e se la Galaxy avesse continuato a seguire quella rotta sarebbe andata ad arenarsi sulle rive di una grande isola di lì a tre giorni. Se avesse mancato l’isola, avrebbe continuato ad andare alla deriva sul mare aperto fin quando avrebbe raggiunto la zona di acqua in ebollizione, ma tiepida, immediatamente sotto Lucifero. Questa prospettiva, sebbene non necessariamente catastrofica, era pur sempre sgradevole; e il signor Lee, in quanto facente funzione di capitano, meditava ore e ore sul modo di evitarla.
Avrebbero potuto innalzare vele di fortuna, se avessero trovato il materiale adatto; ma ciò sarebbe servito a ben poco. Aveva scandagliato l’oceano fino alla profondità di cinquecento metri alla ricerca di correnti di cui approfittare, ma non ne aveva trovata alcuna. Lo scandaglio non aveva toccato il fondo; quel mare era profondo chissà quanti chilometri.
Forse anche questo era loro di vantaggio, perché la gran massa d’acqua li proteggeva dai terremoti sottomarini che squassavano in continuazione quel giovanissimo oceano. Certe volte la Galaxy si scuoteva tutta sotto l’onda d’urto, come colpita da un martello gigantesco. Nel giro di poche ore un’ondata di marea alta decine di metri si sarebbe abbattuta su qualche costa di Europa; ma con un mare così profondo, l’ondata mortale era sì e no un’increspatura sull’acqua.
Molte volte videro vortici improvvisi che si formavano lontano dall’astronave, gorghi pericolosi, maelstrom che avrebbero potuto risucchiare la Galaxy nell’abisso; ma per fortuna erano così lontani che non sortivano altro effetto che quello di far ruotare l’astronave su se stessa per qualche tempo.
Una volta sola una gran bolla di gas salì dal profondo, scoppiando a un centinaio di metri di distanza. Fu un fenomeno impressionante, e tutti condivisero il commento del medico di bordo: «Grazie al cielo non possiamo sentirne l’odore».
È buffo con quanta facilità la situazione più inconsueta diventi tran tran di tutti i giorni. In breve tempo la vita a bordo della Galaxy prese a scorrere secondo una routine senza scosse e il problema principale del capitano Laplace fu di tenere occupato l’equipaggio. Non c’è nulla che danneggi il morale di un equipaggio quanto l’ozio, e il capitano Laplace si chiedeva come facessero i comandanti delle navi a vela di un tempo a tenere occupati gli uomini durante le lunghissime traversate. Non potevano passare tutto il tempo ad arrampicarsi sull’alberatura e a pulire il ponte.
Gli scienziati costituivano un problema opposto. Costoro non facevano che chiedergli di fare test ed esperimenti, che bisognava valutare accuratamente prima di concedere il permesso. E se il capitano l’avesse consentito, gli scienziati avrebbero monopolizzato tutti i canali di comunicazione dell’astronave, ora molto limitati.
L’antenna principale si trovava proprio sulla linea di galleggiamento, ed era rimasta danneggiata. La Galaxy non poteva più comunicare direttamente con la Terra. Tutte le comunicazioni dovevano venire ritrasmesse da Ganimede, e su una gamma d’onda di pochi miserabili megahertz. Un solo canale video l’avrebbe occupata tutta quanta, e bisognava tagliar fuori accuratamente il clamore delle reti televisive terrestri. Non che la Galaxy avrebbe avuto qualcosa di meglio da mostrare al pubblico del mare aperto, gli angusti quartieri dell’astronave e un equipaggio che, malgrado il morale fosse ancora alto, stava diventando sempre più irsuto»
Un numero insolitamente elevato di messaggi pareva diretto al secondo ufficiale Floyd, le cui risposte erano così laconiche che sicuramente non potevano contenere molte informazioni. Alla fine Laplace decise di dire due parole a quel giovanotto.
«Signor Floyd,» gli disse nell’intimità della sua cabina «le sarei molto grato se mi volesse illuminare sul suo secondo lavoro.»
Floyd apparve piuttosto imbarazzato, e si aggrappò al tavolo mentre l’astronave ondeggiava lievemente sotto una raffica improvvisa.
«Mi scusi, signore, ma non mi è consentito.»
«E da chi, se è lecito?»
«In tutta franchezza, non ne sono sicuro nemmeno io.»
Diceva la verità. Floyd sospettava che si trattasse dell’ASTROPOL, ma i due distinti signori da cui aveva ricevuto le istruzioni su Ganimede non avevano voluto dargli questa informazione.
«In quanto capitano di questa astronave, e tanto più in queste circostanze, desidero essere al corrente di ciò che succede a bordo. Se riusciamo a cavarcela, dovrò passare qualche anno a rispondere alle varie commissioni d’inchiesta. E lei lo stesso, probabilmente.»
Floyd sorrise a labbra strette. «Non val tanto la pena di cavarcela, allora. Tutto quello che so è che qualche agenzia ad alto livello prevedeva che vi sarebbero stati guai, senza però sapere esattamente che cosa sarebbe successo. A me hanno detto soltanto di tenere gli occhi aperti. Ho paura di non aver combinato gran che, ma credo che non abbiano fatto in tempo a contattare qualcuno più in gamba.»
«Non è stata colpa sua. Chi avrebbe immaginato che Rosie…»
II capitano s’interruppe, colto da un’idea improvvisa. «Forse ha dei sospetti su qualcun altro?» Fu sul punto di aggiungere: su di me, per esempio? ma fece in tempo a trattenersi. La situazione era già abbastanza paranoica.
Floyd parve pensarci su; quindi si decise. «Forse avrei dovuto parlargliene prima, signore, ma lei aveva molte cose da fare. Sono sicuro che il dottor van der Berg c’entra in qualche modo. È uno di Ganimede, naturalmente; strana gente, quelli di Ganimede, che non mi riesce di capire.» Né di farmeli piacere, aggiunse dentro di sé. Troppo legati tra di loro, e troppo poco aperti verso gli altri. Però non si può biasimarli; tutti i pionieri che hanno colonizzato una terra disabitata sono probabilmente fatti allo stesso modo.
«Van der Berg… hmmm. E gli altri scienziati?»
«Sono stati tutti controllati, naturalmente. Sono perfettamente a posto.»
Ciò non era del tutto vero. Il dottor Simpson aveva avuto, in passato, più mogli di quante ne consentisse la legge, e il dottor Higgins possedeva una vasta collezione di libri molto particolari. Il secondo ufficiale Floyd non sapeva bene perché gli avessero detto questo; forse i suoi mentori volevano solo impressionarlo con l’accuratezza delle loro informazioni. Si era detto che lavorare per l’ASTROPOL, o chi per esso, poteva anche essere divertente.
«Molto bene» disse il capitano, congedando il poliziotto dilettante. «Ma la prego di informarmi nel caso in cui scoprisse qualcosa… qualsiasi cosa, badi bene… che possa mettere a repentaglio la sicurezza dell’astronave.»
In quelle circostanze, era difficile immaginare di che cosa potesse trattarsi. Però correre altri rischi era del tutto superfluo.