120384.fb2
Ancora ventiquattro ore prima che l’isola fosse in vista, non era possibile sapere se la Galaxy l’avrebbe mancata e sarebbe stata spinta dal vento in mare aperto. La posizione dell’astronave, calcolata da Ganimede, venne riportata su una grande mappa che tutto l’equipaggio osservava con ansia parecchie volte al giorno.
Anche se l’astronave fosse riuscita ad approdare, i guai non sarebbero di certo finiti. Poteva per esempio venire fatta a pezzi dalla risacca contro gli scogli, invece che essere delicatamente depositata su una spiaggia sabbiosa in lieve pendìo.
Il signor Lee era acutamente consapevole di tutte queste possibilità. Aveva già fatto naufragio una volta, con un cabinato il cui motore si era guastato in un momento critico al largo dell’isola di Bali. In realtà non aveva corso nessun pericolo, anche se l’avvenimento era stato fin troppo emozionante, e non aveva nessuna intenzione di ripetere quell’esperienza, tanto più che su quel mondo non vi era nessuna nave guardacoste che sarebbe venuta in loro soccorso.
La loro situazione non era davvero priva d’ironia. Eccoli lì, a bordo del mezzo di trasporto più avanzato mai costruito dall’uomo — in grado di attraversare tutto il sistema solare! — e incapaci di modificarne la rotta anche di pochi metri. Tuttavia non erano del tutto impotenti; infatti Lee aveva ancora qualche carta in mano.
Su quel mondo piccolo, dall’orizzonte troppo vicino, avvistarono l’isola quando distava solo cinque chilometri. Lee notò con grande sollievo che non si vedevano gli scogli che aveva temuto; d’altra parte non vi era nessun segno nemmeno della spiaggia sabbiosa che aveva sperato. I geologi gli avevano detto che, perché su quel mondo si formasse la sabbia, si sarebbe dovuto aspettare qualche milione di anni; i mulini di Europa macinavano piano, e non avevano ancora avuto il tempo di fare il loro lavoro.
Non appena fu certo che avrebbero toccato terra, Lee diede ordine di svuotare i serbatoi principali, che erano stati colmati d’acqua subito dopo l’ammaraggio. Le ore successive furono molto scomode, e un quarto dell’equipaggio dovette disinteressarsi alla manovra.
La Galaxy si alzò sempre di più sull’acqua, oscillando sempre più violentemente, e quindi si rovesciò su un fianco con un grande tonfo, galleggiando sulle acque come una balena morta — nei brutti giorni in cui i balenieri pompavano l’aria nelle carcasse per impedir loro di affondare. Lee studiò il nuovo assetto dell’astronave e lo corresse così che la poppa fosse un poco più immersa e la prua quasi fuori dall’acqua.
Come aveva previsto, la Galaxy offriva il fianco al vento. Un altro venticinque per cento dell’equipaggio era a quel punto fuori combattimento, ma restavano uomini a sufficienza per dare una mano a Lee a gettare fuori bordo l’ancora galleggiante che aveva preparato in precedenza. Si trattava solo di una zattera improvvisata fatta di latte vuote legate assieme, ma fu sufficiente perché l’astronave si girasse, puntando la prua verso la terraferma che si avvicinava.
Lee vide che l’astronave si dirigeva — con lentezza spasmodica — verso una stretta striscia di spiaggia coperta da piccoli massi. In mancanza di sabbia, non ci si poteva lamentare…
La prua sporgeva sopra la spiaggia quando la Galaxy toccò il fondo, e Lee giocò la sua ultima carta. Aveva fatto una prova soltanto, nel timore di rovinare le macchine.
Per l’ultima volta, dalla Galaxy fuoriuscì l’incastellatura di atterraggio. A scosse, stridendo, l’incastellatura fece presa in quella terra aliena. Ora l’astronave era saldamente ancorata contro i venti e le onde di quell’oceano privo di maree.
Non vi era dubbio che la Galaxy avesse trovato il luogo dell’ultimo riposo, e, forse, anche il suo equipaggio.