120384.fb2 2061 Odissea tre - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 45

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38. ICEBERG DELLO SPAZIO

Ora che si trovavano tutti senza più nulla da fare, il capitano Smith acconsenti finalmente a rilasciare a Victor Willis l’intervista cui era tenuto per contratto. D’altra parte anche Willis non aveva fatto che rimandarla, per via di ciò che Mihailovic si ostinava a chiamare la sua mutilazione. E poiché sarebbero dovuti passare molti mesi prima che potesse riacquistare la sua immagine pubblica, Willis aveva finalmente deciso di fare l’intervista senza video; ci avrebbe poi pensato lo studio sulla Terra a fornire qualche suo filmato di repertorio.

Si sedettero nella cabina del capitano ancora solo parzialmente arredata, sorseggiando uno degli eccellenti vini che, a quanto pareva, costituivano il grosso del bagaglio di Victor. Dato che la Universe avrebbe spento i motori nelle prossime ore, questa sarebbe stata l’ultima opportunità per parecchio tempo. Il vino in assenza di peso, sosteneva Victor, era un abominio, e si rifiutava decisamente di bere i suoi vini d’annata in volgari contenitori di plastica.

«Qui è Victor Willis, che vi parla dall’astronave spaziale Universe alle ore diciotto e trenta di venerdì 15 luglio 2061. Anche se non siamo ancora giunti a metà del nostro viaggio, siamo già ben oltre l’orbita di Marte e abbiamo pressoché raggiunto la nostra velocità massima. Vale a dire, capitano?»

«Mille e cinquanta chilometri al secondo.»

«Più di mille chilometri al secondo… Quasi quattro milioni di chilometri all’ora!»

La sorpresa di Victor Willis sembrò perfettamente autentica; nessuno avrebbe potuto immaginare che conosceva i parametri orbitali quanto lo stesso capitano. Ma la sua bravura consisteva proprio nel mettersi nei panni degli spettatori, non solo anticipando le loro domande, ma anche stimolando il loro interesse.

«Proprio così» rispose compiaciuto il capitano. «Stiamo viaggiando al doppio della velocità mai raggiunta dall’uomo dall’inizio dei tempi.»

Questo avrei dovuto dirlo io, pensò Victor; non gli piaceva che gli rubassero le battute. Ma, da quel professionista che era, fece buon viso a cattiva sorte.

Fece una pausa come consultando il suo famoso memotaccuino fornito di un piccolo schermo direzionale che poteva vedere lui solo.

«Ogni dodici secondi copriamo una distanza uguale al diametro della Terra. Eppure ci vorranno ancora dieci giorni di viaggio per raggiungere Giove… pardon, Lucifero. Ciò ci da un’idea delle dimensioni del sistema solare…

«Ora, capitano, questo è un argomento delicato, ma se ne è parlato molto per tutta la settimana scorsa.»

Oh no! gemette Smith dentro di sé. Non di nuovo la faccenda dei gabinetti a zero g!

«In questo momento stiamo attraversando il cuore della fascia degli asteroidi…»

Avrei preferito i gabinetti, pensò Smith.

«… e per quanto mai una nave spaziale sia rimasta seriamente danneggiata, le chiedo se non stiamo correndo dei rischi. Dopo tutto, qui fuori ci sono milioni e milioni di corpi celesti di tutte le dimensioni, e si conosce la posizione solo di poche migliaia di essi.»

«Non poche: più di diecimila.»

«Ma ce ne sono milioni di cui non sappiamo nulla.»

«È vero; ma anche se ne sapessimo di più, non farebbe differenza.»

«In che senso?»

«Nel senso che non potremmo farci nulla lo stesso.»

«E come mai?»

Il capitano Smith non rispose subito per raccogliere le idee. Willis aveva ragione: si trattava di un argomento delicato; ai suoi datori di lavoro non sarebbe piaciuto che lui scoraggiasse eventuali clienti.

«In primo luogo, lo spazio è così enorme che anche qui, nel cuore della fascia degli asteroidi, come lei ha detto, le probabilità di una collisione sono infinitesimali. Avremmo voluto mostrare ai passeggeri un asteroide, ma il meglio che abbiamo trovato è Hanuman, un planetoide di soli trecento metri di diametro, cui ci avvicineremo al massimo a duecentocinquantamila chilometri.»

«Ma Hanuman è un gigante, rispetto agli asteroidi sconosciuti in orbita tutto intorno a noi. Questo non la preoccupa?»

«Mi preoccupa quanto l’eventualità di venir colpito da un fulmine sulla Terra.»

«Veramente, io una volta me la sono vista brutta, sul Pike’s Peak in Colorado… il lampo e il tuono sono stati simultanei. Però, come lei stesso ha ammesso, un minimo di rischio esiste. E non corriamo un rischio maggiore, vista l’enorme velocità alla quale ci muoviamo?»

Willis, naturalmente, conosceva già la risposta; ma ancora una volta si metteva nei panni del suo pubblico sul pianeta dal quale si andavano allontanando di migliaia di chilometri a ogni secondo.

«Non è facile dare una spiegazione senza ricorrere alla matematica,» rispose il capitano (quante volte aveva detto la stessa cosa, anche quando non era affatto vero!) «ma la velocità non è direttamente proporzionale al rischio. Venire a collisione con qualsiasi cosa a velocità interplanetarie avrebbe effetti ugualmente disastrasi; se lei si trova vicino a una bomba atomica al momento dell’esplosione, non fa differenza se è una bomba da un chiloton o da un megaton.»

Non era una risposta particolarmente rassicurante, ma era il meglio che potesse dire. Per evitare che Willis lo facesse notare, si affrettò ad aggiungere:

«E le ricordo che un eventuale… ehm… minimo rischio in più che noi si possa correre è comunque giustificato dal fatto che vi sono delle vite in pericolo. Anche una sola ora può essere essenziale».

«Certo, ce ne rendiamo conto.» Willis esitò; avrebbe voluto aggiungere: sono sulla stessa barca anch’io, ma poi preferì evitare. Sarebbe potuta sembrare mancanza di modestia da parte sua non che la modestia fosse mai stata il suo forte. E, comunque, si era trattato di fare di necessità virtù, non aveva avuto alternative, a meno di non volersene tornare a casa a piedi.

«Ciò» proseguì «mi fa pensare a un’altra cosa. Lei sa che cosa accadde esattamente centocinquant’anni fa nell’Atlantico settentrionale?»

«Cioè nel 1911?»

«Be’, veramente nel 1912…»

Il capitano Smith immaginava dove Willis volesse andare a parare e si rifiutò di collaborare fingendo di non capire.

«Si riferisce al Titanic, immagino» disse.

«Esattamente» fece Willis, nascondendo sportivamente la sua delusione. «Una ventina di persone, ciascuna delle quali era convinta di essere l’unica, mi ha fatto presente l’analogia.»

«Analogia? Quale analogia? Il Titanic correva rischi inaccettabili solo per battere un record.»

Fu sul punto di aggiungere: e poi non avevano scialuppe di salvataggio in numero sufficiente, ma fortunatamente si trattenne in tempo, ricordando che l’astronave disponeva di un’unica navetta in cui avrebbero potuto prendere posto cinque persone. Se Willis avesse affrontato l’argomento, sarebbero state necessarie troppe spiegazioni.

«Bene, riconosco che questa analogia è solo superficiale» disse Willis. «Però ce n’è un’altra che tutti, ma proprio tutti, hanno notato. Lei sa come si chiamava il primo e ultimo capitano del Titanici»

«Non ne ho la minima…» cominciò il capitano Smith. Quindi spalancò la bocca per lo stupore.

«Proprio così» disse Victor Willis con un sorriso che sarebbe stato caritatevole definire di soddisfazione.

Il capitano Smith avrebbe strangolato volentieri tutti quei ricercatori dilettanti. Ma non poteva certo dar la colpa ai suoi genitori di essersi chiamati con il più comune dei nomi inglesi.