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Era un peccato che nessuno sulla Terra (né altrove) potesse ascoltare le conversazioni meno formali che si svolgevano sulla Universe. La vita di bordo scorreva ora monotona, scandita da pochi punti di riferimento regolari — di cui il più importante, e certamente quello di più antica tradizione, era la tavola del capitano.
Alle 18.00 in punto, i sei passeggeri e i cinque ufficiali non in servizio cenavano con il capitano Smith. Non si chiedeva, naturalmente, l’abito da sera che era stato obbligatorio sui palazzi galleggianti che attraversavano l’Atlantico, ma ugualmente tutti cercavano di rinnovare in qualche modo il proprio abbigliamento. Si poteva per esempio essere sicuri che Yva Merlin si sarebbe presentata con una nuova spilla, o anello, o collana, o profumo, di cui sembrava avere una provvista inesauribile.
Se i motori erano in funzione, la cena iniziava con una minestra in brodo; in assenza di peso, la prima portata era costituita dagli antipasti. In un caso o nell’altro, prima che arrivasse il piatto forte, il capitano Smith riferiva ai suoi commensali le ultime notizie — o smentiva le ultime voci, di solito diffuse a seguito delle trasmissioni dalla Terra o da Ganimede.
Accuse e controaccuse volavano in ogni direzione, e le teorie più fantastiche erano state avanzate per spiegare il dirottamento della Galaxy. Si era puntato il dito contro tutte le organizzazioni segrete di cui si conosceva l’esistenza — e anche contro molte altre del tutto immaginarie. Tutte queste teorie avevano un unico punto in comune: nessuna riusciva a fornire un movente plausibile.
Una cosa sola si era saputa per certo, e ciò non aveva fatto altro che rendere ancora più fitto il mistero. Dalle frenetiche indagini dell’ASTROPOL risultava che la sedicente Rosie McMahon non era altri che Ruth Mason, nata a Londra, già facente parte della Polizia Metropolitana, dalla quale era stata allontanata, dopo un inizio promettente, a seguito di «attività razziste». La donna era quindi emigrata in Africa, e di lei non si era saputo più nulla. Evidentemente era entrata a far parte di qualche organizzazione segreta di quello sfortunato continente. Del Chaka, congetturavano gli USSA — per subito smentire ufficialmente l’ipotesi.
Ma che cosa c’entrasse Europa in tutto questo, i convitati alla tavola del capitano proprio non sapevano — tanto più che Maggie M confessò di aver preso in considerazione un tempo un romanzo su Chaka, adottando il punto di vista di una delle sventurate mogli del despota. Ma più si addentrava nelle ricerche, più l’idea le ripugnava. «Quando alla fine lasciai perdere» concluse «mi rendevo perfettamente conto di quali possono essere i sentimenti di un tedesco del giorno d’oggi nei confronti di Hitler.»
Queste confidenze personali si facevano sempre più frequenti man mano che il viaggio procedeva. Terminato di mangiare, uno dei convitati, a turno, prendeva la parola e cominciava a raccontare. Avevano tutti vissuto vite molto piene, e su molti mondi, così che difficilmente si sarebbe potuto trovare una compagnia più adatta a raccontare storie.
Il narratore meno interessante era, stranamente, Victor Willis. Lui lo riconosceva onestamente, e spiegava il fatto dicendo:
«Sono così abituato a parlare di fronte a milioni di ascoltatori che mi riesce difficile abituarmi a un piccolo gruppo di amici come questo».
«Si sentirebbe più a suo agio in un gruppo di nemici?» chiese Mihailovic, sempre desideroso di rendersi utile. «In tal caso potrei accontentarla facilmente.»
Al contrario, Yva Merlin era bravissima, anche se i suoi ricordi riguardavano esclusivamente il mondo dello spettacolo. Era divertente soprattutto quando parlava dei registi, più o meno famosi, con cui aveva lavorato, e soprattutto quando raccontava di David Griffin.
«È vero,» chiese Maggie M, senza dubbio pensando a Chaka «che odiava le donne?»
«Assolutamente no» rispose Yva Merlin. «Lui odiava solo le attrici. Non le considerava esseri umani.»
Anche le reminiscenze di Mihailovic erano molto settoriali, e riguardavano solo le grandi orchestre e le grandi compagnie di ballo, i compositori e i direttori famosi, e i loro innumerevoli satelliti. Ma erano così divertenti i suoi aneddoti e i suoi pettegolezzi, le sue storie di fiaschi e di dispetti tra prime donne, che anche chi non s’intendeva affatto di musica si teneva la pancia dal gran ridere e lo pregava di continuare.
Completamente diversi erano i racconti scarni e pochissimo ornati che il colonnello Greenberg faceva di avvenimenti straordinari. Aveva descritto con tanta precisione il primo atterraggio su Mercurio — al Polo Sud, relativamente temperato — che restava ben poco da aggiungere; ma sorgeva inevitabilmente la domanda: «Quando ci ritorneremo?», seguita altrettanto inevitabilmente dall’altra: «Le piacerebbe ritornarci?».
«Se me lo chiedessero, ci tornerei, naturalmente» rispose Greenberg. «Ma ho l’impressione che con Mercurio sarà un po’’ come con la Luna. Non dimentichiamo che l’uomo mise piede sulla Luna nel 1969, e che non ci ritornò se non dopo trenta o quarant’anni. Comunque, Mercurio non è utile come la Luna… per quanto un giorno non sarà forse così. Non c’è acqua, su Mercurio; naturalmente, nessuno si aspettava di trovare acqua sulla Luna. O, meglio, nella Luna…
«Ho fatto anche un’altra cosa, meno famosa dell’atterraggio su Mercurio, ma forse più importante: la mulattiera di Aristarco.»
«La mulattiera?»
«Già. Quando ancora non c’era l’impianto di lancio del ghiaccio posto sull’equatore lunare, il ghiaccio andava trasportato dalla miniera allo spazioporto del Mare Imbrium. Bisognò costruire una strada che attraversava le pianure laviche e che superava non pochi crepacci. La Strada del Ghiaccio, la chiamavano, e anche se era lunga solo trecento chilometri ci volle più di una vita umana per costruirla…
«I «muli» erano trattori a otto ruote con gomme grandissime e sospensioni indipendenti: trainavano una decina di rimorchi, ciascuno dei quali conteneva cento tonnellate di ghiaccio. Si viaggiava per lo più di notte, perché era necessario proteggere il ghiaccio dal calore del sole…
«Io l’ho percorsa parecchie volte. Ci mettevamo sei ore circa. Molto, è vero, ma non eravamo lì per battere i record di velocità. Quindi il ghiaccio veniva messo in grandi serbatoi stagni e si aspettava il giorno. Quando si era tutto sciolto, l’acqua veniva pompata nelle astronavi.
«La Strada del Ghiaccio c’è ancora, naturalmente, ma oggi ci vanno solo i turisti, per lo più di notte, come facevamo noi. Era bellissimo, con la Terra alta nel cielo che dava tanta luce che i fari erano inutili. E malgrado potessimo parlare per radio con i nostri amici ogni volta che ne avevamo voglia, spesso spegnevamo la radio e la mettevamo sull’automatico perché trasmettesse il segnale di okay. Volevamo star soli, in quel gran deserto risplendente… finché il deserto c’era, voglio dire, perché sapevamo che non sarebbe durato.
«Adesso stanno costruendo il Teravolt, l’acceleratore di quark, tutto intorno all’equatore, e il Mare Imbrium e il Mare Serenitatis si stanno riempiendo di cupole. Ma noi l’abbiamo conosciuta l’autentica desolazione lunare, proprio come la videro Armstrong e Aldrin… quando ancora non si potevano comprare le cartoline all’ufficio postale del Mare Serenitatis.»