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58. FUOCO E GHIACCIO

Prima che, nella seconda metà del XX secolo, si aprisse l’èra dell’esplorazione planetaria, pochi scienziati sarebbero stati disposti a credere che vi sarebbe potuta essere la vita su un mondo così lontano dal Sole. Eppure per mezzo miliardo di anni i mari di Europa erano stati prolifici quanto quelli della Terra.

Prima dell’ignizione di Giove, una crosta di ghiaccio aveva protetto quegli oceani dal vuoto dello spazio. In molti punti quel ghiaccio era spesso molti chilometri, ma era più sottile là dove si era spezzato e ricongiunto di nuovo. Vi era stata una breve battaglia tra due elementi implacabilmente ostili che su nessun altro pianeta del sistema solare venivano direttamente a contatto. La guerra tra il mare e lo spazio finiva sempre con uno stallo: l’acqua esposta al vuoto bolliva e congelava simultaneamente, riparando così l’armatura di ghiaccio.

Senza l’influsso del vicino Giove, i mari di Europa si sarebbero completamente solidificati già da lungo tempo. Ma la gravità di Giove torceva continuamente il nucleo di quel piccolo mondo; le forze che sconvolgevano Io erano presenti anche su Europa, seppure con minore violenza. Questo tiro alla fune tra pianeta e satellite provocava continui terremoti e frane sottomarini che percorrevano a grande velocità le pianure abissali.

Qua e là in queste pianure vi erano innumerevoli oasi, ciascuna delle quali circondava per poche centinaia di metri una cornucopia di sali minerali che fuoriuscivano dal sottosuolo. Attraverso un intrico di condotti e di camini sotterranei, queste sostanze chimiche si depositavano in forme bizzarre — castelli in rovina o cattedrali gotiche da cui liquidi neri e caldi uscivano pulsando a ritmo lento, come spinti dal battito di un cuore gigantesco. E, proprio come sangue, anch’essi erano portatori di vita.

Quei fluidi bollenti ricacciavano il gelo che veniva dall’esterno e formavano isole tiepide sul fondo marino. Inoltre essi portavano dalle viscere di Europa le sostanze chimiche necessarie alla vita. Qui, in un ambiente che altrove era terribilmente ostile, vi erano energia e cibo in abbondanza. L’esistenza di simili punti geotermici era stata scoperta negli oceani terrestri nello stesso decennio in cui l’umanità vide per la prima volta i satelliti galileiani.

Nelle immediate vicinanze di questi sfiatatoi caldi vivevano miriadi di delicati organismi simili a ragni che erano l’equivalente delle piante terrestri, anche se, a differenza di queste, erano in grado di spostarsi. Tra di essi strisciavano molluschi e vermi bizzarri, alcuni che si nutrivano delle «piante», altri che si alimentavano direttamente dei sali minerali disciolti nell’acqua. A maggiore distanza dalla sorgente di calore — il fuoco sottomarino attorno al quale tutti questi esseri si scaldavano — vi erano organismi più grandi e robusti non dissimili da granchi o ragni terrestri.

Un esercito di biologi avrebbe potuto dedicare la vita allo studio di un’unica oasi. A differenza dei mari terrestri del Paleozoico, gli oceani nascosti di Europa non costituivano un ambiente stabile: e così l’evoluzione si era mossa in fretta producendo una moltitudine di forme fantastiche. Inoltre, tutti quegli organismi erano sotto una continua minaccia di morte; presto o tardi, infatti, ogni sorgente di vita si sarebbe inaridita e le forze che le davano vigore si sarebbero spostate altrove. Gli abissi erano tutti cosparsi da innumerevoli testimonianze di queste tragedie — cimiteri che racchiudevano scheletri e incrostazioni di sali minerali, dove interi capitoli erano stati cancellati dal libro della vita.

Vi erano gusci simili a trombe più grandi di un uomo. Vi erano conchiglie di molte forme — bivalvi e anche trivalvi. E vi erano conchiglie dal disegno a spirale del diametro di molti metri che erano molto simili alle belle ammoniti che disparvero misteriosamente dagli oceani della Terra alla fine del Cretaceo.

In molti luoghi i fuochi bruciavano nell’abisso e fiumi di lava incandescente scorrevano per decine di chilometri lungo le valli sottomarine. A quelle profondità la pressione era tale per cui l’acqua a contatto con il magma incandescente non diventava vapore, e i due liquidi coesistevano in una tregua inquieta. Laggiù, su un altro mondo e con attori alieni, si era svolta una storia in qualche modo simile a quella dell’Egitto molto tempo prima dell’arrivo dell’uomo. Come il Nilo aveva portato la vita a una stretta fascia di deserto, allo stesso modo questi fiumi caldi avevano vivificato le profondità di Europa. Lungo le loro rive, in strisce raramente più larghe di un chilometro, una specie dopo l’altra si era evoluta e si era estinta. E certe avevano lasciato testimonianze del loro passaggio: sassi disposti l’uno sull’altro o trincee scavate nel fondo del mare a formare uno strano disegno.

Lungo quelle strisce fertili, circondate dai deserti degli abissi, culture e civiltà erano sorte e decadute. E ciascuna non aveva mai conosciuto altra parte di quel mondo, poiché ogni isola di calore era separata dall’altra come pianeti nello spazio. Gli esseri che si riscaldavano al calore del fiume di lava, e che si nutrivano dei caldi fluidi sotterranei, non erano in grado di attraversare gli ostili deserti che circondavano le loro isole solitarie. E se mai queste culture avevano dato origine a storici e a filosofi, ciascuna di esse era convinta di essere sola in tutto l’universo.

E ciascuna di esse era destinata a morte certa. Non solo le fonti d’energia erano sporadiche e continuamente mutevoli, ma il gioco delle forze che le alimentava si indeboliva in continuazione. Anche se avessero raggiunto l’intelligenza, gli abitanti di Europa erano destinati a perire quando il loro mondo sarebbe stato stretto tutto e per sempre dal gelo.

Erano chiusi in trappola tra fuoco e ghiaccio — finché Lucifero non esplose nel cielo, aprendo loro le porte dell’universo.

E una grande forma rettangolare, nera come la notte, si era materializzata presso la costa del nuovo continente.