120411.fb2 3001 Odissea finale - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 10

3001 Odissea finale - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 10

6. CALOTTA CEREBRALE

«Temo che dovrà prendere una decisione dolorosa», cominciò il professor Anderson sorridendo nel tentativo di attenuare l’esagerata serietà delle sue parole.

«Sono in grado di sopportarlo, dottore. Mi dica pure tutto.»

«Prima di adattarle la sua calotta cerebrale, dovrà essere rasato a zero. E qui lei può scegliere. A giudicare da come le crescono i capelli, dovrebbe essere rasato almeno una volta al mese. Oppure potremmo farlo in modo permanente.»

«E come farebbe?»

«Trattamento della cute con il laser. Elimina i follicoli alla base.»

«Mmm… ed è reversibile?»

«Sì, ma è complicato e doloroso e ci vogliono settimane.»

«Allora sarà meglio vedere come sto senza capelli, prima di impegnarmi. Non riesco a scordare quello che è successo a Sansone.»

«A chi?»

«Un personaggio di un vecchio libro molto noto. La sua ragazza gli tagliò i capelli mentre dormiva. Quando si svegliò, aveva perso tutte le forze.»

«Adesso ricordo… un simbolismo clinico piuttosto ovvio!»

«Tuttavia non mi importerebbe di perdere la barba…sarei molto contento di smettere di radermi una volta per tutte.»

«Vedrò cosa si può fare. E che tipo di parrucca le piacerebbe?»

Poole rise.

«Non sono particolarmente vanitoso… pensarci sarebbe una seccatura e poi non è così importante. È una cosa che posso decidere in seguito.»

Che in quell’epoca tutti fossero artificialmente calvi era un fatto sorprendente che Poole aveva scoperto con molta lentezza; la prima rivelazione era avvenuta quando le sue due infermiere si erano tolte le loro magnifiche trecce senza il minimo segno di imbarazzo, poco prima che diversi specialisti altrettanto calvi arrivassero a eseguire una serie di controlli microbiologici su di lui. Non era mai stato circondato da tante persone completamente prive di capelli e la sua prima congettura fu che si trattasse dell’ultima mossa nell’interminabile guerra condotta dai medici contro i germi.

Come molte delle sue congetture, era completamente sbagliata e, quando ne scoprì il vero motivo, si divertì a constatare quante volte, posto che non lo sapesse in anticipo, avrebbe giurato che i capelli dei suoi visitatori non fossero i loro. La risposta fu: «Raramente negli uomini; mai nelle donne». Questa era davvero un’epoca fantastica per i creatori di parrucche.

Il professor Anderson non perse tempo: quel pomeriggio le infermiere spalmarono una pomata dall’odore terribile sul cranio di Poole e, quando si guardò nello specchio dopo un’ora, faticò a riconoscersi.

Be’, pensò, forse una parrucca potrebbe essere una buona idea, dopotutto…

La sistemazione della calotta cerebrale richiese un po'’ più di tempo. Prima dovettero fare uno stampo, e Poole dovette stare seduto immobile per alcuni minuti prima che la malta prendesse. Era del tutto convinto che gli avrebbero detto che la sua testa aveva una forma sbagliata quando le infermiere, tra risatine molto poco professionali, incontrarono qualche difficoltà a togliergli lo stampo. «Ahi… fa male!» si lamentò.

Poi fu la volta della calotta cranica, un elmetto metallico aderente che scendeva fino alle orecchie e che gli sollecitò un pensiero nostalgico: «Vorrei che i miei amici ebrei mi vedessero in questo momento!» Dopo pochi minuti, si era adattato talmente bene che quasi non si accorgeva della sua presenza.

Ora era pronto all’installazione, una procedura che, si rese conto ora con una specie di riverente timore, era stata il rito d’iniziazione per quasi tutta la razza umana durante più di mezzo millennio.

* * *

«Non c’è bisogno di chiudere gli occhi», disse il tecnico, che si era presentato con il pretenzioso appellativo di «Ingegnere Cerebrale» quasi sempre abbreviato in «Cerebrale» nell’uso popolare. «Quando inizia la predisposizione, tutti i suoi input verranno assorbiti. Anche se tiene gli occhi aperti, non vedrà niente.»

Mi chiedo se tutti si siano sentiti nervosi come me, pensò Poole. Che sia l’ultimo momento in cui avrò il controllo della mia mente? Eppure ho imparato a fidarmi della tecnologia di quest’epoca; finora non mi ha deluso.

Tutti i sensi erano perfettamente normali quando esaminò la stanza familiare, tutto si trovava esattamente al proprio posto.

Il tecnico, con indosso la sua calotta cerebrale, si collegò insieme con Poole a un congegno che avrebbe potuto facilmente essere scambiato per un computer portatile del XX secolo, e gli fece un sorriso d’incoraggiamento.

«Pronto?» domandò.

A volte i vecchi luoghi comuni erano il miglior rifugio.

«Come sempre», rispose Poole.

La luce si smorzò lentamente — o almeno così pareva. Calò un gran silenzio e persino la tenue gravità della Torre abbandonò la presa su di lui. Era un embrione galleggiante in un vuoto assoluto, benché non immerso nella più completa oscurità. Aveva già sperimentato quelle tenebre a malapena visibili, quasi ultraviolette, al limite della notte, solo una volta nella vita; quando era sceso più in basso di quanto consigliasse il buon senso lungo il pendìo di un vero e proprio dirupo, sul bordo esterno della Grande Banchisa. Guardando sotto di sé le centinaia di metri di vuoto cristallino, aveva sperimentato un tale senso di disorientamento da essere assalito dal panico e per poco, prima di riprendere il controllo, non aveva messo in moto l’unità di recupero. Manco a dirlo, non aveva mai parlato dell’incidente ai medici dell’Agenzia spaziale.

Da molto lontano una voce parlò nell’immenso vuoto che ora sembrava circondarlo. Ma non lo raggiunse tramite le orecchie; risuonò dolce nei labirinti riecheggianti del suo cervello.

«Inizio della calibrazione. Di tanto in tanto le verranno fatte delle domande… lei può rispondere mentalmente, ma potrebbe esserle utile parlare. Ha capito bene?»

«Sì», rispose Poole, chiedendosi se le sue labbra si erano mosse. Non c’era modo di saperlo.

Qualcosa stava apparendo nel vuoto: una griglia di linee sottili, come un enorme foglio di carta millimetrata. Si estendeva verso il basso e verso l’alto, a destra e a sinistra, fino ai limiti della visione. Cercò di spostare la testa, ma l’immagine non volle mutare.

Su tutta la griglia cominciarono a guizzare numeri, troppo in fretta per riuscire a leggerli — ma qualche circuito stava presumibilmente registrandoli. Poole non Poté impedirsi di sorridere (si erano mosse, le sue guance?) di fronte alla familiarità di tutto ciò. Era esattamente come l’esame computerizzato a cui qualsiasi oculista della sua epoca avrebbe sottoposto un paziente.

La griglia svanì per essere sostituita da levigate cortine di colore che riempirono tutto il suo campo visivo. In pochi secondi passarono da un’estremità all’altra dello spettro. «Avrei potuto dirvelo», borbottò Poole. «La mia visione dei colori è perfetta. Il prossimo aggiustamento sarà l’udito, immagino.»

Aveva perfettamente ragione. Un debole suono continuo aumentò d’intensità fin quando divenne un do appena percettibile, poi percorse la scala musicale fino a sparire dalla portata dell’udito umano, perdendosi nei tenitori dei pipistrelli e dei delfini.

Era l’ultimo dei semplici test diretti. Venne assalito brevemente da odori e sapori, per la maggior parte piacevoli, ma alcuni del tutto sgradevoli. Poi diventò — o almeno così gli parve — una marionetta appesa a fili invisibili.

Immaginò che gli esaminassero il controllo neuromuscolare e sperò che non ci fossero manifestazioni esterne. Se ci fossero state, probabilmente sarebbe apparso in preda a un terribile ballo di San Vito. E per un momento ebbe anche una violenta erezione, ma non fu in grado di verificarlo perché scivolò in un sonno senza sogni.

O forse aveva solo sognato di dormire? Non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse passato prima di svegliarsi. L’elmetto era già sparito, insieme con il Cerebrale e il suo equipaggiamento.

«È andato tutto bene», disse raggiante la caposala. «Ci vorranno alcune ore per controllare che non ci siano anomalie. Se i suoi dati sono KO… voglio dire OK… domani avrà la sua calotta cerebrale.»

Poole apprezzava lo sforzo di ricordare l’inglese arcaico di chi si stava occupando di lui, ma non poté fare a meno di desiderare che la caposala non avesse fatto quel malaugurante lapsus linguae.

Quando giunse il momento dell’adattamento definitivo, Poole si sentì di nuovo come un ragazzino che si apprestasse a scartare qualche giocattolo nuovo e meraviglioso sotto l’albero di Natale.

«Non dovrà più sottoporsi a tutti quegli aggiustamenti», lo assicurò il Cerebrale. «Il trasferimento inizierà subito. Le farò una dimostrazione di cinque minuti. Adesso si rilassi e se la goda.»

Una musica delicata e carezzevole lo avvolse; benché fosse qualcosa di molto familiare, risalente ai suoi tempi, non riuscì a identificarla. Aveva una nebbia davanti agli occhi, che si aprì mentre l’attraversava…

Già, stava camminando! L’illusione era assolutamente convincente. Poteva udire l’impatto dei piedi sul terreno e, ora che la musica era cessata, sentiva un vento leggero soffiare tra i grandi alberi che sembravano circondarlo. Li riconobbe, erano sequoie, e sperò che esistessero anche nella realtà, da qualche parte sulla Terra.

Si muoveva di buon passo — troppo veloce per star comodo, come se il tempo fosse leggermente accelerato in modo da poter percorrere più strada possibile. Eppure non era consapevole di alcuno sforzo; si sentiva come un ospite nel corpo di qualcun altro. La sensazione era accentuata dal fatto di non avere il controllo dei propri movimenti. Quando cercava di fermarsi o di cambiare direzione, non succedeva nulla. Continuava la sua passeggiata.

Non importava; stava godendosi quella nuova esperienza — ed era in grado di valutare quanto potesse creare assuefazione. Le «macchine del sogno» che molti scienziati del suo secolo avevano previsto — spesso allarmati — ora facevano parte della vita quotidiana. Poole si chiese come il genere umano fosse riuscito a sopravvivere; gli avevano detto che gran parte di esso non c’era riuscita. A milioni si erano bruciati il cervello e molti avevano perso la vita.

Naturalmente lui era immune da tentazioni del genere! Avrebbe usato quel meraviglioso strumento per apprendere di più del mondo del Terzo Millennio e per acquisire in pochi minuti capacità che altrimenti avrebbero richiesto anni prima di essere padroneggiate. Be’, magari, di tanto in tanto, avrebbe potuto usare la calotta cerebrale solo per divertimento…

Era arrivato al limitare della foresta e adesso osservava un largo fiume. Senza esitazione, vi s’immerse e non provò timore quando l’acqua gli arrivò sopra la testa. Sembrava alquanto strano che potesse continuare a respirare con naturalezza, ma pensò che fosse molto più interessante il fatto di poter vedere alla perfezione in un ambiente in cui gli occhi umani non riuscivano a mettersi a fuoco senza qualche ausilio. Era in grado di contare tutte le scaglie della splendida trota che lo aveva appena superato, all’apparenza indifferente alla presenza di quello strano intruso.

Una sirena! Be’, aveva sempre desiderato incontrarne una, ma aveva pensato che fossero creature del mare. Che di tanto in tanto risalissero la corrente, come i salmoni, per mettere al mondo i piccoli. Se n’era andata prima che le potesse fare quella domanda, prima di confermare o negare quella rivoluzionaria teoria.

Il fiume finiva con un muro trasparente; vi passò attraverso e si trovò in un deserto, sotto un sole splendente. Il calore lo fece sentire a disagio — eppure era in grado di fissare l’astro in tutta la sua furia ardente. Poté persino scorgere, con innaturale chiarezza, un arcipelago di macchie solari vicino al margine. E — ma questo era sicuramente impossibile! — c’era il tenue lucore della corona, del tutto invisibile tranne che nelle eclissi totali, che sporgeva come le ali di un cigno da entrambe le parti del sole.

Tutto svanì nel buio: la musica ossessiva ritornò e con essa la deliziosa frescura della sua camera. Aprì gli occhi (erano mai stati chiusi?) e trovò un pubblico impaziente in attesa della sua reazione.

«Magnifico!» ansimò, quasi con reverenza. «Una parte sembrava… be’, più reale del reale!»

Poi la sua onnipresente curiosità di tecnico riprese il sopravvento.

«Anche solo questa piccola dimostrazione deve aver contenuto una quantità enorme di informazioni. Come vengono immagazzinate?»

«In queste tavolette… le stesse utilizzate dal vostro sistema audiovisivo, ma con una capacità molto maggiore.»

Il Cerebrale passò a Poole un quadratino, all’apparenza fatto di vetro argentato da un lato: era più o meno delle stesse dimensioni dei dischetti di computer della sua gioventù, ma due volte più spesso. Quando Poole lo voltò da tutti i lati, cercando di vedere cosa ci fosse all’interno, apparvero lampi dalle sfumature dell’arcobaleno, ma niente di più.

Si rese conto di avere in mano il prodotto finale di più di mille anni di tecnologia elettroottica, come pure di altre tecnologie non ancora nate ai suoi tempi. E non lo sorprendeva il fatto che, almeno in superficie, assomigliasse molto ai congegni che aveva conosciuto. Ci sono forme e dimensioni adatte alla maggior parte degli oggetti comuni della vita quotidiana: forchette e coltelli, libri, strumenti, mobili, e memorie amovibili di computer.

«Qual è la sua capacità?» si informò. «Ai miei tempi, eravamo arrivati a mettere un terabyte in qualcosa di simile a queste dimensioni. Sono certo che avete fatto molto di più.»

«Non quanto potrebbe immaginare… ovviamente c’è un limite stabilito dalla struttura della materia. Ah, e che cos’era un terabyte? Temo di averlo dimenticato.»

«Vergogna! Kilo, mega, giga, tera… vale a dire bytes per dieci alla dodicesima potenza. Poi il petabyte… dieci alla quindicesima… e questo è il limite massimo a cui sono arrivato.»

«Più o meno da dove siamo partiti. È quanto basta a registrare tutto quello che una persona può sperimentare durante una vita.»

Era un pensiero sbalorditivo, eppure non avrebbe dovuto essere così sorprendente. Il chilo di gelatina all’interno del cranio umano non era molto più grande della tavoletta che Poole teneva in mano, e in nessun modo avrebbe potuto essere altrettanto efficiente come congegno di memorizzazione: aveva altri compiti da affrontare.

«E non è tutto», continuò il Cerebrale. «Con qualche compressione di dati, potrebbe immagazzinare non solo i ricordi… ma la persona vera e propria.»

«E riprodurla di nuovo?»

«Certo; un semplice lavoretto di nanoassemblaggio.»

E così glielo avevano detto, riflette Poole, ma non ci avrebbe mai creduto.

Ai suoi tempi, sembrava già abbastanza meraviglioso che l’intera opera di un artista potesse essere memorizzata in un solo dischetto.

E ora, qualcosa di non molto più grande poteva contenere… l’artista stesso.