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8. RITORNO A OLDOVAI

II dottor Stephen Del Marco diceva sovente a se stesso che i Leakey non avrebbero mai riconosciuto quel posto, anche se si trovava a meno di una dozzina di chilometri dal luogo in cui Louis e Mary Leakey, cinque secoli prima, avevano scoperto i nostri primi antenati. Il riscaldamento globale e la piccola èra glaciale (interrotta da miracoli di eroica tecnologia) avevano trasformato il paesaggio e ne avevano completamente alterato la flora e la fauna. Querce e pini stavano ancora combattendo per crescere e per vedere chi sarebbe sopravvissuto ai mutamenti delle vicissitudini climatiche.

Ed era difficile pensare che, in pieno 2513, a Oldovai ci fosse ancora qualcosa che antropologi entusiasti non avessero riportato alla luce. Tuttavia, alluvioni recenti e improvvise — che in teoria non sarebbero più dovute accadere — avevano ridisegnato quella zona e asportato diversi metri di strato superficiale. Del Marco aveva approfittato dell’occasione e ora lì, al limite dell’esplorazione in Profondità, c’era qualcosa a cui non riusciva proprio a credere.

C’era voluto più di un anno di scavi lenti e precisi per raggiungere quella spettrale immagine e apprendere che la realtà era ancora più strana di qualsiasi cosa si potesse immaginare. Escavatrici telecomandate avevano rapidamente tolto i primi metri, poi la solita ciurma di studenti del corso di laurea ne aveva preso il posto.

Erano stati aiutati — o meglio intralciati — da un gruppo di quattro gorilla, che Del Marco considerava più un guaio che un supporto. Tuttavia, gli studenti adoravano i gorilla sottoposti a miglioramento genetico e li trattavano amorevolmente come bambini ritardati. Correva voce che i rapporti non fossero sempre del tutto platonici.

Tuttavia, per gli ultimi metri solo la mano dell’uomo aveva eseguito il lavoro, di solito usando spazzolini da denti dalle setole appositamente ammorbidite. E adesso tutto era completato: nemmeno Howard Carter, osservando il primo bagliore dell’oro nella tomba di Tutankhamon, aveva mai scoperto un tesoro come quello. Da quel momento in poi, comprese Del Marco, le credenze e le filosofie umane sarebbero state irrevocabilmente sconvolte.

Il monolito sembrava essere il gemello esatto di quello scoperto sulla Luna cinque secoli prima: persino la zona di scavo che lo circondava era quasi identica come grandezza. E, alla stregua di TMA-1, era del tutto non riflettente e assorbiva il furibondo bagliore del sole africano e il pallido lucore di Lucifero con la stessa indifferenza.

Mentre guidava i suoi colleghi i direttori di una mezza dozzina dei più famosi musei del mondo, tre eminenti antropologi, i capi di due imperi mediatici — all’interno della fossa, Del Marco si chiese se fosse mai successo che un gruppo così importante di uomini e donne rimanesse completamente muto per così tanto tempo. Ma quello era l’effetto che il rettangolo d’ebano faceva a tutti i visitatori, mentre si accorgevano delle implicazioni che comportavano quelle migliaia di manufatti attorno al monolito.

Perché qui c’era il tesoro che ogni archeologo avrebbe potuto sognare — strumenti di pietra rozzamente sgrezzati, numerevoli ossa, in parte di animali in parte di esseri umani, e quasi tutto sistemato in disegni accurati. Per secoli — no, per millenni — questi miseri doni erano stati portati in quel luogo da creature in possesso solo di un debole barlume di intelligenza, come tributo a una meraviglia che andava al di là della loro comprensione.

E al di là della nostra, aveva pensato spesso Del Marco. Eppure di due cose era sicuro, anche se dubitava che fosse possibile dimostrarle.

Quello era il posto in cui — nel tempo e nello spazio — aveva avuto in realtà inizio la specie umana.

E quel monolito era il primo in assoluto tra tutti i suoi molteplici dèi.