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Frank Poole non aveva l’abitudine di dormire oltre l’orario, ma strani sogni lo avevano tenuto sveglio. Passato e presente si intrecciavano inestricabilmente; a volte era sulla Discovery, a volte sulla Torre Africana — e talvolta era di nuovo un ragazzino in mezzo ad amici che pensava di aver scordato da tempo.
Dove sono? si domandò mentre lottava per riacquistare lucidità, come un nuotatore che cerchi di tornare alla superficie. C’era una finestrella proprio sopra il suo letto, coperta da una tendina non abbastanza spessa da impedire alla luce di entrare dall’esterno. C’era stato un periodo, attorno alla metà del XX secolo, in cui gli aerei erano talmente lenti da dover offrire comodi sedili di prima classe per dormire: Poole non aveva mai provato questo genere di lussi che alcune agenzie turistiche pubblicizzavano ancora ai suoi tempi, ma non gli era difficile immaginare di sperimentare proprio una situazione del genere.
Scostò la tendina e guardò fuori. No, non si era svegliato nei cieli della Terra, anche se il paesaggio che gli scorreva sotto non era diverso da quello dell’Antartide. Ma il Polo Sud non aveva mai esibito due soli che si levavano contemporaneamente proprio mentre il Goliath si dirigeva verso di loro.
L’astronave orbitava a meno di cento chilometri da quello che poteva sembrare un immenso campo arato, coperto da una leggera spolverata di neve. Ma chi aveva arato doveva essere in stato di ebbrezza — oppure il sistema direzionale doveva essere impazzito — perché i solchi serpeggiavano in ogni direzione, a volte intersecandosi gli uni con gli altri o ritornando indietro. Qua e là il terreno era costellato da cerchi appena accennati — crateri fantasmi creati dall’impatto di meteoriti molti coni fa.
E questo sarebbe Ganimede? si chiese Poole assonnato. L’avamposto del genere umano più lontano da casa! Perché una persona sensata avrebbe dovuto vivere lì? Be’, l’ho pensato ogni volta che ho volato sulla Groenlandia o l’Islanda in inverno…
Bussarono alla porta, e poi: «Ti spiace se entro?» e il capitano Chandler irruppe senza attendere la risposta.
«Pensavo di lasciarti dormire fin quando non fossimo atterrati… la festa per la fine del viaggio è durata più a lungo di quanto pensassi, ma non potevo rischiare un ammutinamento interrompendola.»
Poole rise.
«C’è mai stato un ammutinamento nello spazio?»
«Oh sì, alcuni… ma non ai miei tempi. Ora che ne abbiamo parlato, si potrebbe dire che Hal è stato il primo… scusa… forse non dovrei… guarda… ecco Città di Ganimede!»
All’orizzonte sorgeva quello che poteva sembrare un intrico di strade e viali che si intersecavano quasi ad angolo retto, ma con quella lieve irregolarità tipica di ogni insediamento cresciuto a fasi successive, senza una pianificazione centrale. Era attraversato da un ampio fiume — Poole ricordò che le regioni equatoriali di Ganimede erano sufficientemente calde perché esistesse acqua allo stato liquido, e gli venne anche in mente di aver visto una vecchia incisione in legno della Londra medievale.
Poi notò che Chandler lo guardava con un’espressione divertita… e l’illusione svanì quando si rese conto delle dimensioni della «città».
«Gli abitanti di Ganimede», disse brusco, «devono essere piuttosto grossi dal momento che hanno fatto strade larghe da cinque a dieci chilometri.»
«Venti, in alcuni posti. Impressionante, vero? Ed è tutto dovuto al restringersi e al contrarsi del ghiaccio. Madre Natura è ingegnosa… Potrei mostrarti alcuni esempi che sembrano ancor più artificiali, benché non siano vasti come questo.»
«Quand’ero ragazzino, si faceva un gran parlare di un volto che appariva su Marte. Ovviamente risultò essere una collina modellata dalle tempeste di sabbia… ce ne sono di molto simili nei deserti della Terra.»
«Qualcuno non ha detto che la storia si ripete? Lo stesso tipo di abbaglio si è verificato con Città di Ganimede… certi imbecilli sostenevano che era stata costruita da alieni. Ma temo che non durerà molto a lungo,»
«Perché?» chiese Poole sorpreso.
«Ha già cominciato a crollare, da quando Lucifero fonde il permafrost, il ghiaccio perenne. Tra cent’anni Ganimede non lo riconosceresti più… là ci sono le rive del lago Gilgamesh… se guardi attentamente… a destra, in alto…»
«Capisco cosa vuoi dire. Cosa succede?… L’acqua non bolle di certo, nemmeno a una pressione così bassa, no?»
«Impianto di elettrolisi. Non so quanti milioni di miliardi di chilogrammi di ossigeno utilizzi al giorno. Sì, l’idrogeno sale e si disperde… almeno così speriamo.»
La voce di Chandler si spense. Poi riprese, in un tono insolitamente diffidente: «Tutta quella magnifica acqua laggiù… a Ganimede non ne serve nemmeno la metà! Non dirlo a nessuno, ma sto progettando un modo per portarne un po'’ su Venere».
«È più facile che trasportare comete?»
«Sì, per quanto riguarda l’energia… La velocità di fuga da Ganimede è solo di tre chilometri al secondo. Ed è molto ma molto più rapido… anni invece di decenni. Ma ci sono alcune difficoltà pratiche…»
«Credo di capire. Ti faresti sparare da un lanciatore di massa?»
«No. Utilizzerei torri che arrivassero oltre l’atmosfera, come quelle sulla Terra, ma molto più piccole. Si potrebbe pompare l’acqua fino in cima, raffreddarla quasi allo zero assoluto e lasciare che Ganimede la fiondi nella giusta direzione durante la sua rotazione. Ci sarebbero alcune perdite dovute all’evaporazione durante il viaggio, ma la maggior parte giungerebbe a destinazione… perché sorridi?»
«Scusami… non rido dell’idea… mi pare sensata. Ma mi hai fatto venire in mente un ricordo molto vivido. Avevamo uno spruzzatore in giardino che era spinto a ruotare incessantemente dai suoi getti d’acqua. Quello che hai in mente è la stessa cosa… su scala leggermente maggiore… utilizzando un mondo intero…»
All’improvviso un’ennesima immagine del suo passato cancellò tutte le altre. Poole ricordò come, nelle calde giornate dell’Arizona, lui e Rikki si erano divertiti a inseguirsi l’un l’altro attraverso nuvole di bruma in movimento creata dallo spruzzo in lenta rotazione dell’innaffiatoio automatico del giardino.
Il capitano Chandler era un tipo molto più sensibile di quanto desse a vedere: sapeva quando era il momento di andarsene.
«Devo tornare sul ponte», disse burbero. «Ci vediamo ad Anubis, dopo l’atterraggio.»