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18. GRAND HOTEL

II Grand Hotel Ganimede — inevitabilmente noto in tutto il sistema solare come Hotel Grandimede — non aveva nulla di grande e avrebbe potuto dirsi fortunato se avesse ottenuto una stella e mezza sulla Terra. Siccome il concorrente più vicino si trovava a parecchi milioni di chilometri di distanza, la direzione non sentiva alcun bisogno di darsi troppo da fare.

Ma Poole non si lamentò, anche se spesso desiderò che Danil fosse lì a dargli una mano con i meccanismi di ogni giorno e a comunicare con maggiore efficienza con i congegni semiintelligenti da cui era circondato. Aveva avuto un breve momento di panico quando la porta si era chiusa dietro il fattorino (umano), che sembrava troppo intimorito dal suo illustre ospite per spiegargli come funzionavano i diversi servizi della camera. Dopo cinque minuti di inutile discussione con pareti che non rispondevano, Poole era finalmente riuscito a mettersi in contatto con un sistema che capiva il suo accento e i suoi ordini. In caso contrario, che magnifico pezzo da pubblicare nella rubrica «Notizie da tutti i mondi»:

«CELEBRE ASTRONAUTA MUORE DI FAME INTRAPPOLATO IN UNA STANZA DELL’HOTEL GANIMEDE!»

E l’ironia sarebbe stata duplice. Forse il nome dell’unica suite di lusso del Grandimede non poteva essere che quello, ma era stato un vero colpo per Poole imbattersi in un antico ologramma a grandezza naturale del suo vecchio collega in alta uniforme quando lo avevano scortato fin dentro la… Suite Bowman. Poole riconobbe anche la sua immagine; il ritratto ufficiale era stato eseguito nella stessa epoca, pochi giorni prima che la missione iniziasse.

Ben presto scoprì che molti membri dell’equipaggio del Goliath vivevano ad Anubis con le loro famiglie ed erano ansiosi che lui conoscesse i Loro Cari durante i venti giorni di sosta previsti per l’astronave. Quasi subito venne travolto dalla vita mondana e professionale di quell’insediamento di frontiera, e adesso era la Torre Africana ad assomigliare a un sogno lontano.

Come succede a molti americani nel segreto dei loro cuori, Poole aveva un affetto nostalgico per le piccole comunità dove tutti si conoscevano — nel mondo reale e non in quello virtuale del cyberspazio. Anubis, con una popolazione di poco minore di quella di Flagstaff, era una buona approssimazione di quell’ideale.

Le tre principali cupole a pressione, ognuna di due chilometri di diametro, erano collocate su un altopiano al di sopra di un ghiacciaio che si estendeva ininterrotto fino all’orizzonte. Il secondo sole di Ganimede — un tempo noto come Giove — non avrebbe mai fornito calore a sufficienza da fondere le calotte polari. Era quello il principale motivo per cui avevano insediato Anubis in un posto così inospitale: le fondamenta della città non sarebbero crollate almeno per diversi secoli.

E all’interno delle cupole era facile manifestare la più completa indifferenza per il mondo esterno. Dopo aver imparato a usare i meccanismi della Suite Bowman, Poole scoprì di avere una scelta di ambienti limitata ma impressionante. Poteva starsene seduto sotto una palma in una spiaggia del Pacifico, ascoltando il gentile mormorìo delle onde o, se preferiva, il ruggito di un uragano tropicale. Poteva volare piano sulle cime dell’Himalaya o tra gli immensi canyon di Mariner Valley, oppure camminare nei giardini di Versailles o lungo le vie di una mezza dozzina di grandi città, in epoche ben distanziate della loro storia. Anche se l’Hotel Grandimede non era uno dei luoghi di vacanza più apprezzati del sistema solare, vantava possibilità che avrebbero lasciato sbalorditi molti dei suoi più famosi predecessori sulla Terra.

Ma era ridicolo indulgere in nostalgie terrestri, dopo aver percorso mezzo sistema solare per visitare un nuovo mondo del tutto ignoto. Fatti alcuni esperimenti, Poole cercò un compromesso per divertirsi — e ispirarsi — durante i momenti sempre meno lunghi di puro piacere.

Con suo grande rimpianto, non era mai stato in Egitto, per cui trovò delizioso riposare sotto lo sguardo della Sfinge — così com’era dopo il suo discusso «restauro» — e guardare i turisti arrampicarsi sui blocchi imponenti della Grande Piramide. L’illusione era perfetta, a parte la terra di nessuno in cui il deserto incontrava il tappeto (un tantino consunto) della Suite Bowman.

Ma nessun occhio umano aveva visto un cielo simile da quando, cinquemila anni fa, l’ultima pietra era stata collocata al suo posto nella piramide di Gizah. E non era un’illusione; era la realtà complessa e continuamente mutevole di Ganimede.

Siccome questo mondo — come i suoi omologhi — era stato privato della sua rotazione molti coni prima dall’attrazione gravitazionale di Giove, il nuovo sole nato dal pianeta maggiore rimaneva immobile nel cielo. Un lato di Ganimede si trovava sempre sotto la luce di Lucifero e, benché ci si riferisse all’altro emisfero come alla «Terra della Notte», la definizione era fuorviante al pari dell’espressione «il lato oscuro della Luna», nata moltissimo tempo prima. Come il lato opposto della Luna, la «Terra della Notte» di Ganimede godeva della luce brillante del vecchio Sole per metà della sua lunga giornata.

Per una coincidenza più sconcertante che utile, Ganimede impiegava esattamente una settimana — sette giorni e tre ore — a percorrere l’orbita attorno alla primaria. I tentativi di creare un calendario basato sull’assioma «un giorno di Ganimede uguale una settimana terrestre», avevano causato una tale confusione che erano stati abbandonati secoli prima. Come tutti gli altri residenti del sistema solare, i locali impiegavano il Tempo Universale, identificando i loro giorni standard di ventiquattr’ore con numeri invece che con nomi.

Dal momento che la neonata atmosfera di Ganimede era ancora estremamente sottile e pressoché priva di nuvole, la parata di corpi celesti forniva uno spettacolo senza soluzione di continuità. Nel punto più vicino, Io e Callisto erano grandi quanto la metà della Luna vista dalla Terra — ma era l’unica cosa che avevano in comune. Io era talmente vicina a Lucifero che impiegava meno di due giorni a percorrere la propria orbita e il suo movimento era chiaramente visibile persino nello spazio di pochi minuti. Callisto, a più di quattro volte la distanza di Io, impiegava due giorni ganimediani — o sedici giorni terrestri — a completare la sua comoda orbita.

Il contrasto fisico tra i due mondi era ancor più notevole. Callisto, del tutto ghiacciato, era rimasto pressoché inalterato dopo la conversione di Giove in un minisole; era ancora un deserto di crateri ghiacciati poco profondi, talmente ravvicinati che sull’intero satellite non esisteva un solo luogo che non fosse stato sottoposto a molteplici impatti, ai tempi in cui l’enorme campo gravitazionale di Giove gareggiava con quello di Saturno nel raccogliere detriti dall’esterno del sistema solare. Da allora, a parte qualche impatto casuale, per parecchi miliardi di anni non era successo nulla.

Su Io succedeva qualcosa ogni settimana. Come un testimone locale aveva fatto notare, prima della creazione di Lucifero c’era stato l’Inferno ora c’era un Inferno ancor più riscaldato.

Spesso Poole zoomava su quel paesaggio in fiamme e guardava dentro le gole sulfuree dei vulcani che si riformavano in continuazione in una zona più grande dell’Africa. A volte, fontane di lava incandescente si levavano brevemente per centinaia di chilometri nello spazio, come giganteschi alberi di fuoco piantati su un mondo senza vita.

Mentre i getti di zolfo fuso uscivano dai vulcani e dagli sfiatatoi, il versatile elemento passava per uno stretto spettro di rosso, arancione e giallo ogni volta che, come un camaleonte, veniva trasformato nei suoi variopinti allotropi. Prima dell’alba dell’era spaziale, nessuno si sarebbe immaginato che esistesse un mondo simile. Per quanto fosse affascinante osservarlo da un buon punto di vista, Poole trovava difficile credere che gli uomini avrebbero mai arrischiato un atterraggio su quel satellite, dove persino i robot temevano di avventurarsi.

Ma era Europa a interessarlo maggiormente. Nel punto più vicino appariva esattamente delle stesse dimensioni della solitaria Luna della Terra, ma percorreva tutte le sue fasi solo in quattro giorni. Quando Poole aveva scelto il suo paesaggio personale, lo aveva fatto del tutto ignaro del simbolismo che rappresentava, e ora gli sembrava assolutamente appropriato che Europa fosse sospesa nel cielo sopra un altro grande enigma… la Sfinge.

Anche senza ingrandimenti, quando chiedeva di guardare a occhio nudo, Poole era in grado di constatare quanto Europa fosse mutata nei mille anni trascorsi dal viaggio della Discovery verso Giove. La ragnatela di fasce e linee sottili che un tempo avevano completamente avviluppato il più piccolo dei quattro satelliti galileiani era scomparsa, tranne che attorno ai poli. Qui la crosta globale di ghiaccio spesso chilometri non era stata fusa dal calore del nuovo sole di Europa: altrove, oceani vergini bollivano e si agitavano nella sottile atmosfera a quella che sulla Terra sarebbe stata una temperatura gradevole per una stanza.

Era una temperatura gradevole anche per le creature che ne erano emerse, dopo lo scioglimento dello strato intatto di ghiaccio che le aveva intrappolate ma che le aveva anche riparate. Satelliti spia orbitali, mostrando particolari della grandezza di pochi centimetri, avevano osservato i primi momenti dell’evoluzione di una specie europide allo stato anfibio. Benché trascorressero ancora gran parte del tempo sott’acqua, gli europidi avevano persino incominciato la costruzione di semplici edifici.

Che questo potesse accadere in soli mille anni era già stupefacente, ma nessuno dubitava che la spiegazione risiedesse nell’ultimo e nel più grande dei monoliti — la Grande Muraglia lunga diversi chilometri, sulle rive del Mare di Galileo.

E nessuno dubitava che, nel suo modo misterioso, stesse controllando l’esperimento a cui aveva dato inizio su quel mondo come aveva fatto sulla Terra quattro milioni di anni prima.