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A Città delle Stelle, uno dei problemi maggiori potrebbe essere creato semplicemente dalle distanze che si dovrebbero percorrere: se uno volesse far visita a un amico nella Torre contigua (e le comunicazioni non sostituiranno mai il contatto, nonostante tutti i progressi della Realtà Virtuale), sarebbe costretto a compiere l’equivalente di un viaggio sulla Luna. Anche con gli ascensori più veloci lo spostamento comporterebbe giorni al posto di ore o altrimenti un’accelerazione del tutto inaccettabile per persone che si sono adattate a vivere a bassa gravità.
Il concetto di «spinta senza inerzia», cioè un sistema di propulsione che agisca su ogni atomo del corpo in modo che non si producano tensioni quando accelera, è stato probabilmente inventato dal maestro della «Space Opera», E. E. Smith, negli anni Trenta. Non è così improbabile come sembra, perché un campo gravitazionale si comporta proprio in questo modo.
Se si scende in caduta libera nelle vicinanze della Terra (trascurando gli effetti della resistenza all’aria), la velocità aumenterà di solo dieci metri al secondo ogni secondo. Ci si sentirà senza peso, non ci sarà alcuna sensazione di accelerazione, anche se la velocità aumenta di un chilometro al secondo ogni minuto e mezzo!
E questo varrebbe anche se uno cadesse nella gravità di Giove (solo più di due volte e mezzo maggiore di quella della Terra) o persino nei campi gravitazionali enormemente più potenti di una Nana Bianca o di una stella di neutroni (milioni di miliardi di volte maggiori). Non si sentirebbe niente, persino se ci si avvicinasse alla velocità della luce da una stella immobile in una manciata di minuti. Tuttavia, se uno fosse così folle da arrivare a pochi raggi dall’oggetto di attrazione, il suo campo non sarebbe più uniforme per tutta la lunghezza del corpo e le forze di attrazione lo farebbero ben presto a pezzi. Per ulteriori particolari, si veda il mio deplorevole racconto (ma dal titolo scelto con cura) «Neutron Tide» (in The Wind from the Sun).
Una «spinta senza inerzia» che agisca esattamente come un campo di gravità controllabile non è mai stata discussa seriamente — con l’esclusione dei libri di fantascienza — fino a poco tempo fa. Ma nel 1994 tre fisici americani l’hanno esaminata, sviluppando alcune idee del grande fisico russo Andrej Sacharov.
«Inertia as a ZeroPoint Field Lorentz Force», di B. Haisch, A. Rueda e H. E. Puthoff (Phys. Review, febbraio 1994) potrebbe un giorno essere considerato come un saggio fondamentale e io l’ho considerato tale per il mio romanzo. Affronta un problema che di norma è dato per scontato, con una scrollatina di spalle del tipo «Tanto l’universo è fatto così».
La domanda posta dai tre fisici è la seguente: «Che cosa da a un oggetto una massa (o inerzia) in modo che ci voglia uno sforzo per cominciare a muoverlo ed esattamente lo stesso sforzo per riportarlo al suo stato originale?»
La loro risposta provvisoria dipende dal fatto stupefacente e poco noto — al di fuori della torre d’avorio dei fisici — che il cosiddetto spazio «vuoto» è in realtà un calderone di energie ribollenti: il Campo di Punto Zero. I tre fisici suggeriscono che l’inerzia e la gravitazione siano fenomeni elettromagnetici, risultanti da interazione con questo campo.
Ci sono stati innumerevoli tentativi, fino a risalire ai tempi di Faraday, di collegare gravità e magnetismo e, benché molti sperimentatori abbiano rivendicato il successo, nessuno dei loro risultati è stato mai sottoposto a verifica. Tuttavia, se la teoria dei tre americani potesse essere dimostrata, aprirebbe la prospettiva — per quanto lontana — di «spinte spaziali» antigravitazionali e la possibilità ancor più fantastica di controllare l’inerzia. Ciò potrebbe condurre a qualche interessante situazione: dando a qualcuno una leggerissima spintarella, costui sparirebbe rapidamente alla velocità di migliaia di chilometri l’ora, fino a rimbalzare dall’altra parte della stanza una frazione di millisecondo più tardi. La buona notizia è che gli incidenti d’auto sarebbero praticamente impossibili; automobili — e passeggeri — potrebbero collidere senza danno a qualsiasi velocità. (E pensate che il modo di vivere odierno sia già troppo febbrile?)
L’«assenza di peso» che oggi diamo per scontata nelle missioni spaziali — e che milioni di turisti sperimenteranno nel prossimo secolo — sarebbe apparsa come una magia ai nostri nonni. Ma l’abolizione — o semplicemente la riduzione — dell’inerzia è un altro paio di maniche e potrebbe risultare del tutto impossibile. (Nota: Nel settembre 1996 alcuni scienziati finlandesi hanno sostenuto di aver individuato una piccola riduzione (meno dell’uno per cento) di gravità sopra un disco superconduttore ruotante. Se ciò fosse confermato (e sembra che precedenti esperimenti eseguiti all’Istituto Max Planck di Monaco di Baviera abbiano condotto a simili risultati) potrebbe essere la tanto attesa innovazione. Attendo ulteriori notizie con interessato scetticismo. Fine nota) Ma è un pensiero consolante, perché potrebbe fornire l’equivalente del «teletrasporto»: si potrebbe viaggiare dovunque (almeno sulla Terra) quasi istantaneamente. In tutta franchezza, non saprei come potrebbe andare avanti la Città delle Stelle senza di essa…
Uno degli assunti che ho sostenuto in questo libro è che Einstein aveva ragione e che nessun segnale — od oggetto — può superare la velocità della luce. È apparso di recente un gran numero di saggi di alta matematica in cui si suggerisce che, come innumerevoli scrittori di fantascienza hanno già dato per scontato, gli autostoppisti galattici potrebbero non soffrire di questa fastidiosa limitazione.
Tutto sommato, spero che abbiano ragione — ma pare che ci sia un’obiezione fondamentale. Se i viaggi interstellari sono possibili, dove sono tutti quegli autostoppisti o come minimo i turisti ben forniti di quattrini?
Una risposta potrebbe essere che nessun extraterrestre sensato costruirebbe mai veicoli interstellari, esattamente per lo stesso motivo per cui non abbiamo mai sviluppato astronavi alimentate a carbone: ci sono modi molto migliori di fare le cose.
Il numero sorprendentemente esiguo di bytes necessari a definire un essere umano o a immagazzinare le informazioni che uno potrebbe acquisire durante tutta una vita, è discusso in Machine Intelligence, the Cost of Interstellar Travel and Fermi’s Paradox di Louis K Scheffer (Quarterly Journal of the Royal Astronomical Society, 35, n. 2, giugno 1994, pp. 157–175). Questo saggio (sicuramente il più stringato articolo che la rivista abbia pubblicato in tutta la sua storia!) valuta che lo stato mentale globale di un uomo di cent’anni con una memoria perfetta potrebbe essere rappresentato da dieci alla quindicesima bytes (un petabytes). Persino le fibre ottiche di oggi potrebbero trasmettere questa quantità di informazioni in una manciata di minuti.
Il mio accenno al fatto che il «trasportatore» di Star Trek non sarebbe ancora disponibile nel 3001 potrebbe perciò apparire ridicolmente miope fra un solo secolo, e l’attuale mancanza di turisti interstellari potrebbe essere semplicemente dovuta al fatto che non sia stato ancora collocato nessun equipaggiamento di accoglienza sulla Terra. Forse è già in strada a bordo di una scialuppa…