120841.fb2
— Sciocchezze — disse la badessa. — Sono una donna mortale e sana, e ho ancora tutti i miei denti, e ho intenzione di fare collezione di molte altre rughe.
Thorvald tese la mano e lei la prese; poi il norvegese disse, scuotendo meravigliato la testa: — Se ti vendessi a Costantinopoli, in meno di un anno ne diventeresti la regina.
La badessa rise allegramente, e io gridai, spaventato: — Anch’io! Porta anche me — e lei disse: — Oh, sì, non dobbiamo dimenticare il Piccolo Messaggero — e mi prese in braccio.
L’uomo alto e terribile, con la faccia vicina alla mia, disse in quel suo strano tedesco cantilenante:
— Bambino, ti piacerebbe vedere le balene che saltano nel mare aperto e le foche che latrano sugli scogli? E rupi così alte che un gigante non ne toccherebbe la cima neppure tendendo le braccia? E il sole che splende a mezzanotte?
— Sì — dissi io.
— Ma sarai schiavo — disse lui, — e forse sarai maltrattato e dovrai sempre fare quello che ti ordinano. Questo ti piacerebbe?
— No! — gridai con foga, al sicuro tra le braccia della badessa. — Combatterò!
Thorvald rise fragorosamente e mi spettinò i capelli, con troppa forza, pensai, e disse: — Non sarò un cattivo padrone, perché ho il nome di Thor Barbarossa, che è forte e svelto in battaglia, ma anche bonario, e lo sono anch’io. — E la badessa mi mise giù, e così tornammo verso il villaggio, mentre Thorvald e la badessa Radegunde parlavano degli splendori del mondo e suor Hedwic diceva sottovoce: — È una santa, la nostra badessa è una santa, a sacrificarsi così per il bene della sua gente — e sempre, dietro di noi come un ricordo, venivano i singhiozzi soffocati e dementi di suor Sibihd, che era all’Inferno.
Quando ritornammo venimmo a sapere che Thorfinn stava meglio e che i norvegesi sarebbero ripartiti l’indomani mattina. Thorvald fece portare un secondo pagliericcio nello studio della badessa, e quella notte dormì sul pavimento accanto a noi. Forse penserete che i suoi uomini ridessero, perché, la badessa era vecchia; ma io credo che fosse stato con una delle donne giovani prima di venire da noi. Ne aveva l’aria. Non c’erano lenzuola o coperte per la badessa, ma soltanto un vecchio mantello marrone bucato, e io e lei ce l’eravamo avvolto addosso quando Thorvald entrò e si buttò fischiettando sull’altro pagliericcio. Poi disse:
— Domani, prima di partire, mi mostrerai il tesoro della vecchia badessa.
— No — disse lei. — Quel patto non è stato mantenuto.
Thorvald stava giocherellando con il coltello; passò il pollice sul filo. — Posso costringerti.
— No — rispose in tono paziente la badessa. — E ora voglio dormire.
— Dunque non hai paura della morte? — chiese lui. — Bene! È ciò che deve fare una donna coraggiosa, come cantano gli skaldi, e non deve muoversi neppure quando una spada affilata le taglia le ciglia. Ma se puntassi questo coltello non contro la tua gola, ma contro quella del tuo ragazzetto? Allora me lo diresti in fretta!
La badessa si girò, voltandogli le spalle, sbadigliò e disse: — No, Thorvald, perché tu non lo faresti. E se lo facessi, ti disprezzerei perché dimostreresti d’essere un vigliacco mancatore di parola e per questa ragione non te lo direi. Buonanotte.
Il norvegese rise e riprese a fischiettare per un po’. Quindi disse:
— Era tutto vero?
— Tutto che cosa? — chiese la badessa. — Oh, la statua. Sì, ma non ci fu nessun aggressore. Quello l’ho aggiunto alla storia per consolare la povera suor Hedwic.
Thorvald sbuffò, deluso. — La storia! Tu racconti menzogne, badessa.
Radegunde si tirò sulla testa il vecchio mantello marrone e chiuse gli occhi. — L’ha aiutata.
Poi ci fu un silenzio, ma sembrava che il norvegese non riuscisse a stare tranquillo. Si spostò come se la paglia gli desse fastidio, e si girò di nuovo. Finalmente sbottò: — Ma che cosa accadde?
La badessa si sollevò a sedere. Chiuse gli occhi e disse: — Forse nella tua testa di uomo non passa neppure l’idea che una vecchia si stanca, e che trattare con la gente è un lavoro difficile, o forse non pensi neppure che sia un lavoro. Bene!
«Non accadde niente, Thorvald. Deve succedere qualcosa solo se questo sbatte quell’altra, o se uno dà una botta in testa a qualcun altro? Io desideravo la mia statua con tanta follia che decisi di trovarmi un vero amante umano; ma quando alzai gli occhi dalle mie fantasie agli uomini veri di Roma, e mi sturai gli orecchi per ascoltare ciò che dicevano, mi resi conto che era una cosa completamente, eternamente impossibile. Oh, quei figli cadetti con il loro torvo odio invidioso per i ricchi, e i ricchi con il naso all’aria perché si credevano molto importanti grazie al loro stupido denaro, e la timidezza dei preti verso i loro superiori, e l’orgoglio di questi, e l’odio degli artigiani per i contadini, e i contadini costretti a lavorare come bestie da mattino a notte, e metà degli uomini che vedevo picchiavano le loro mogli, e gli altri pensavano solo a derubare qualche povera ragazza del suo denaro o della sua verginità o dell’uno e dell’altra… ce n’era abbastanza per spegnere qualunque fuoco! E le donne facevano meno male solo perché avevano meno potere di farne, o almeno così mi sembrava allora. Perciò accantonai tutto, come si accantona qualunque delusione. Gli uomini non sono tanto cattivi quando si smette di pretendere che siano dei: ma non sono fatti per me. Se questo stato è castità, allora uno stomaco debole è temperanza, credo. Ma qualunque cosa sia, ce l’ho, e questo chiude la faccenda.
— Tutti gli uomini? — chiese Thorvald Einarsson con la testa da una parte, e io pensai che avesse bevuto, anche se sembrava sobrio.
— Thorvald — disse la badessa, — non so immaginare che cosa possa volere da questo relitto d’un corpo anziano: ma se desideri le mie rughe e i miei seni flaccidi e i miei fianchi magri e avvizziti, fai ciò che vuoi in fretta e poi, per amor del cielo, lasciami dormire. Sono stanca morta.
Lui disse, a voce bassa: — Devo aver potere su di te.
La badessa allargò le mani in un gesto rassegnato. — Oh, Thorvald, Thorvald, sono una donna debole e ultraquarantenne! Dov’è il potere? Tutto ciò che posso fare è parlare!
Thorvald disse: — Ecco. Ecco come fai. Parli e parli e parli e tutti fanno ciò che vuoi tu: l’ho visto!
Radegunde lo fissò bruscamente. — Sta bene. Se devi. Ma se fossi in te, norvegese, preferirei andare a letto con mia madre. Ricordalo quando mi alzerai le sottane.
Queste parole lo fermarono. Imprecò sottovoce, si girò sul fianco e ci voltò le spalle. Poi infilò il coltello nel bordo del suo pagliericcio, per un po’. Finalmente lo mise sotto la stoffa arrotolata che usava come cuscino. Noi non avevamo un cuscino, e così cercai di farmene uno con l’orlo del mantello, ma non ci riuscii. Poi pensai che il norvegese aveva paura di Dio che agiva per mezzo di Radegunde, e pensai a suor Hedwic che aveva cambiato colore e mi chiesi perché. Quindi pensai alle balene che saltavano, e alle foche che dovevano essere come grossi cani perché latravano, e poi le foche balzarono sulla terraferma e corsero al mio pagliericcio e mi leccarono con grandi, gelide lingue d’acqua, e io rabbrividii e sussultai, e mi svegliai.
La badessa Radegunde s’era alzata (era il suo calore che mi mancava) e si stava aggirando per la stanza. Muoveva un passo e si fermava, e le sue gonne frusciavano leggermente. Stava attenta a non toccare Thorvald che dormiva. Nella camera c’era una luce fioca che proveniva dalle braci, ancora accese sotto le ceneri nel camino, ma non filtrava un filo di luce dalle imposte della finestra, chiuse per non far entrare il freddo. Vidi la badessa inginocchiarsi sotto la semplice croce di legno appesa nello studio e la sentii pronunciare qualche parola in latino; pensai che pregasse. Ma poi disse a voce bassa:
— Non invoco Apollo e le Muse, perché sono cose sorde e vane. Ma lo sei anche tu, Uomo Trafitto, sordo e vano.
Si alzò e riprese a camminare avanti e indietro. Adesso, ripensandoci, mi spaventa, perché era notte alta e non c’era nessuno che la sentisse, tranne me, ma credeva che fossi addormentato; eppure continuò con quella voce bassa e calma come se fosse pieno giorno e lei stesse spiegando qualcosa a qualcuno, come se affiorassero tante cose che erano nei suoi pensieri da molti anni. Ma in quel momento non ci trovai nulla di allarmante, perché pensavo che forse erano cose che facevano tutte le badesse; e del resto non sembrava arrabbiata o spaventata; era calma come se discutesse il ricavato dell’allevamento d’api dell’abbazia (come l’avevo sentita fare varie volte) o i conti della cantina (e l’avevo sentita fare anche questo) e non era per nulla preoccupante. Perciò ascoltai mentre continuava ad aggirarsi al buio per la stanza. E disse:
— Parlo, parlo, parlo, e sempre a me stessa. Ma nessuno può abbandonare i micetti e i cagnolini: sarebbe una crudeltà. E l’essere la badessa Radegunde mi dà almeno qualcosa da fare. Però sono stanca della buona badessa Radegunde: ho indossato Radegunde ogni mattina della mia vita come se fosse una veste, e ho dovuto sentir lodare tutto il giorno quella stupida creatura! Radegunde è una vera santa, Radegunde non si arrabbia mai, non è mai avida o invidiosa, la buona Radegunde si sacrifica per gli altri, e sempre quel parlare, parlare, parlare che mi ribolle nella testa, senza nessuno che ascolti o capisca, senza nessuno che risponda! No, neppure nel sud, soltanto una riga qua e una là, e tutte scritte dai morti. Sentivano ciò che io sento? Che il mondo è un enorme asilo d’infanzia pieno di litigi per i giocattoli, dove i bambini mi considerano una specie di dea benevola perché non voglio le loro bambole e i loro pezzetti di paglia e i loro cavallucci fatti di legnetti legati insieme?
«Poveretti, se sapessero! È cosi facile essere temperati quando non si apprezza nulla, essere buoni quando non si ama nulla, essere intrepidi quando la vita non è meglio della morte. Ed è così facile far progetti quando il successo non ha importanza.
«Non resterebbero sorpresi, mi domando, se sapessero quali erano i miei veri pensieri quando Thorfinn mi aveva puntato il coltello alla gola? Curiosità! Ma lui non lo avrebbe fatto, naturalmente: fa tutto ciò che fa per mettersi in vista. E loro penserebbero che sono due volte santa, perché non temo la morte.
«E allora perché non ti uccidi, empia suor Radegunde? È la tua religione a impedirtelo? Oh, vuoi dire i sacri pozzi, e gli alberi sacri, e i santi benedetti con le loro reliquie, e la stupidità che ha fatto vergognare suor Hedwic, e le promesse di salvezza che hanno fatto impazzire la povera Sibihd quando il corpo santissimo del suo Signore non l’ha protetta e l’amore benedetto della beata Vergine Maria non ha distolto un solo coltello? Ciarpame! Foglie e stecchi e canne che noi spazziamo via dai nostri pavimenti quando si accumulano troppo. Come se la santità avesse a che fare con tutto questo. Come se ogni luogo non fosse sacro come ogni altro, e ogni cosa non fosse santa come ogni altra, dalla merda nella pancia di Thorfinn ai sassi per terra. Come se tutti i luoghi e le cose non fossero nubi poste davanti ai nostri occhi deboli, per impedire che veniamo accecati dallo splendore eterno, dal fulgore che ci circonda, il torrente di luce che è tutto ed è in tutto! È questo che mi trattiene dal gettarmi nel fiume, ma non mi parla mai e non mi dice cosa fare, e per esso il bene e il male sono la stessa cosa… no, è qualcosa di diverso dal bene e dal male: è semplicemente… quindi non è Dio. Questo lo so.
«Quindi, gente, la vostra Radegunde è una strega o un demone? È piena d’orgoglio oppure è umile? Forse è una strega. Una volta, molto tempo fa, confessai al vecchio Gerbertus che potevo vedere a grande distanza chiudendo gli occhi, e glielo dimostrai, e lui pianse per me e mi diede grandi penitenze esclamando: “Se viene da sé può essere un dono di Dio, figliola, ma molto più probabilmente è opera di un demonio, quindi non farlo!” E allora pregammo e gli dissi che il potere mi aveva abbandonata, per tranquillizzare quel povero vecchio, ma non era vero, naturalmente. Potevo ancora vedere la Turchia con la stessa facilità con cui vedevo lui, e luoghi molto più lontani; gli uomini tozzi e selvaggi delle pianure sui loro cavalli, e gli strani uomini alti, ancora più lontani, con le loro grandi città e gli occhi bizzarri, con le palpebre oblique, e poi i mari con le grandi terre selvagge e le città piene d’oro più di Costantinopoli, e ancora altra acqua fino a quando si ritorna a casa, perché il mondo è un globo come dicevano gli antichi.
«Ma con il passare degli anni ho smesso. Radegunde non ne aveva mai il tempo, credo. E poi, quando aprivo quella porta c’erano soltanto figure, come in un libro, e dopo un po’ le avevo viste tutte e non m’interessavano più. È l’altra porta quella che mi attrae, quando si socchiude e si affacciano cose strane, come Ranulf, il figlio della sorella di Thorvald, e il nome del suo cavallo. È una buona porta, ma è molto pesante; dopo un po’ si richiude sempre. Dovrò essere sul letto di morte perché si apra completamente, credo.
«Il volpone dorme. È il più intelligente, finora; c’è qualcosa in lui, tanto che a volte quasi gli si può parlare. Ma è sempre un volpone, per la maggior parte. Forse col tempo…
«Vediamo: si, dorme. E la cagnolina Sibihd dorme, anche se fra poco farà un brutto sogno, credo, e il gattino Thorfinn dorme, pieno di paura come quando è sveglio, con gli artigli che entrano ed escono dalle zampette, per timore che qualcosa lo strangoli nel sonno.
Poi la badessa tacque e si avvicinò alla finestra chiusa come se guardasse fuori, e io pensai che stava guardando fuori, veramente, ma non con gli occhi, e vedeva tutta quella gente addormentata, ed era ciò che aveva fatto ogni notte della sua vita per accertarsi che tutti fossero sani e al sicuro. Ma non sapeva che io ero sveglio? Non dovevo cercare di riaddormentarmi prima che se ne accorgesse? Poi mi sembrò che sorridesse nel buio, anche se non potevo vederlo. Disse con lo stesso tono sommesso: — Dormi o vegli, Piccolo Messaggero? Per me è la stessa cosa. Non hai udito niente d’importante, soltanto la sciocca badessa che parla da sola, Radegunde che dice addio a Radegunde, Radegunde che se ne va… non piangere, Piccolo Messaggero, sono ancora qui. Ma, ecco, Radegunde se n’è andata. Io e il norvegese siamo simili sotto un certo aspetto: le nostre menti sono come grandi case con molte stanze chiuse a chiave. Ci affolliamo in poche stanze miserabili, come poveracci, quando potremmo muoverci liberamente in tutte, come principi. È il destino che ha rinchiuso sottochiave gran parte del norvegese… vedi, Piccolo Messaggero, non dico il suo nome neppure sottovoce, perché questo sveglia la gente… ma mi chiedo se a rinchiudere me non fu la stessa Radegunde, lei e il vecchio Gerbertus, al quale credevo, in parte… loro, e gli anni, tutti gli anni in cui ho dovuto essere Radegunde, e fare le cose che faceva Radegunde e fingere di avere i pensieri di Radegunde, e ripetere le innumerevoli, infinite menzogne che Radegunde doveva dire a tutti, e l’assoluta, incredibile solitudine di Radegunde.
Tacque di nuovo. Questa volta mi meravigliai dei discorsi della badessa: diceva che non c’era quando c’era, e che viveva rinchiusa in piccole stanze, mentre l’abbazia era sicuramente la casa più splendida di tutto il mondo, e la più grande, e come poteva sentirsi sola quando tutti le volevano bene? Ma poi lei disse, con voce così bassa che la sentii appena:
— Povera Radegunde! Così stanca di mentire e di ingannare gli uomini e le donne con il collare intorno al collo e l’offerta di un bocconcino se si comportano bene, e una tiratina del guinzaglio che loro neppure notano. E con il norvegese sarà lo stesso: menzogne e adulazioni e tutto un lavoro che non finisce mai e che nessuno vede mai, e alla fine Radegunde si sdraierà come una scimmia in gabbia, debole e sofferente per!a fame, e non si rialzerà più.
«Lasciala morire adesso. Ecco: Radegunde è morta. Radegunde non c’è più. Forse la porta era pesante solo perché lei stava dall’altra parte e la spingeva per non farmi passare. Forse adesso si aprirà completamente. Ho guardato in tutte le direzioni: a est, a nord e a sud, e ad ovest, ma c’è un posto dove non ho mai guardato, e ora lo farò: lontano da questa sfera, in alto. Vediamo…
Smise di parlare, di colpo. Mi stavo addormentando, ma mi svegliò il silenzio. Poi sentii la badessa gemere terribilmente, come colpita a morte; quindi disse, con un bisbiglio così acuto e fremente che mi fece rizzare i capelli: Dove sei? E dopo un momento spalancò le imposte e si affacciò e gridò con tutta la forza della sua voce: Aiutami! Cercami! Oh, vieni, vieni, vieni, o morirò!
Questo svegliò Thorvald. Si alzò, imprecando in norvegese, e si allacciò la cintura della spada e si portò la mano al pugnale: avevo notato che quel gesto piaceva molto ai norvegesi. La badessa taceva. Lui esalò un respiro profondo e andò ad accendere la candela di sego alle braci sotto la cenere del camino. E quando la candela si accese fumando, la mise sulla mensola.
Poi disse in tedesco: — Cosa diavolo c’è, donna! Cos’è successo?