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La badessa si voltò. Sembrava che non ci vedesse, come se fosse abbacinata da una gioia troppo grande, come chi ha guardato il sole ed è ancora abbagliato e tutto gli pare cambiato, e il mondo sembrava tutto di Dio e tutto ciò che vi è sembra il Paradiso. Disse sottovoce, cingendosi le spalle con le braccia: — La mia gente. La gente vera.

— Che cosa stai dicendo?

Allora sembrò che la badessa lo vedesse, ma solo come Sibihd aveva visto noi: cioè, non con orrore, come Sibihd, ma come se ci vedesse attraverso qualcosa d’altro, come qualcuno che esce da una visione di beatitudine che ancora gli aleggia intorno. Disse, con la stessa voce sommessa: — Vengono a prendermi, Thorvald. Non è meraviglioso? È da un anno che so che sarebbe accaduto qualcosa, ma non sapevo che sarebbe stata l’unica cosa che desidero al mondo.

Thorvald si cacciò le mani nei capelli. — Chi verrà?

— La mia gente — disse lei, con una risata mormorante. — Non li senti? Io sì. Dobbiamo attendere tre giorni perché vengano da molto lontano. Ma allora… oh, vedrai!

Lui disse: — Hai sognato. Domani partiremo.

— Oh, no — disse semplicemente la badessa. — Non puoi, non sarebbe giusto. Loro mi hanno detto di attendere: hanno detto che se fossi andata via non mi avrebbero trovata.

Thorvald disse: — Sei ammattita. Oppure è un trucco.

— Oh, no, Thorvald — disse lei. — Come potrei ingannarti? Sono tua amica. E tu attenderai questi tre giorni, perché anche tu sei mio amico.

— Sei matta — disse Thorvald, e si avviò verso la porta dello studio, ma la badessa gli si parò davanti e si gettò in ginocchio. Sembrava che l’astuzia l’avesse abbandonata completamente; o forse era stata Radegunde a possedere l’astuzia. Questa era come una bambina. Giunse le mani e le lacrime le traboccarono dagli occhi. Lo supplicò:

— È una cosa da poco, Thorvald, tre giorni appena! E se non verranno, allora andremo dovunque vorrai; ma se verranno non dovrai pentirtene, te lo prometto: non sono come gli abitanti di qui, e quel luogo è molto diverso. È ciò che l’anima desidera, Thorvald!

Il norvegese disse: — Alzati, donna, per amor di Dio!

E lei, con un sorriso spaventato: — Se mi lasci restare, ti mostrerò il tesoro sepolto della vecchia badessa, Thorvald.

Lui indietreggiò, indignato. — Ecco la vecchia strega coraggiosa che non teme la morte! — disse. Si avviò verso la porta, ma la badessa si alzò di nuovo, svelta, come un serpente, e si buttò contro l’uscio.

E gli disse, sempre con quella strana innocenza: — Non picchiarmi. Non spingermi. Sono tua amica!

E lui: — Vuoi dire che hai intenzione di portarmi in giro con un cordone intorno al collo, come se fossi un’oca. Be’, io sono stanco!

— Ma non posso più farlo — disse la badessa, ansimando. — Non posso più farlo, ora che la porta si è aperta. Non posso. — Lui alzò il braccio per picchiarla e la badessa si rannicchiò gemendo: — Non picchiarmi! Non provocarmi! No, Thorvald!

Lui disse: — Allora togliti di mezzo, vecchia strega!

La badessa incominciò a piangere e a singhiozzare. — Una è qui, ma un’altra verrà! Una è sepolta, ma un’altra si leverà! Verrà, Thorvald! — E quindi, con voce bassa, in fretta: — Non spalancare l’ultima porta. Dietro c’è qualcosa che è malvagio, e io ho paura… — Ma si vedeva che il norvegese era furioso e deluso e non voleva ascoltare. La colpì per la seconda volta, e lei cadde di nuovo, ma con un grido disperato, coprendosi la faccia con le mani. Lui tolse il catenaccio alla porta e la scavalcò, e io sentii i suoi passi nel corridoio. Vedevo chiaramente la badessa; allora non mi chiedevo come fosse possibile, con le ombre della candela di sego che quasi nascondevano tutto sulla loro danza ebbra, ma vedevo chiaramente ogni linea della sua faccia come se fosse pieno giorno, e in quella luce vidi Radegunde che ci lasciava.

Siete mai stati alla corte di un grande re o di un conte e avete ascoltato i cantastorie? Certuni sono così esperti nell’arte che non soltanto vi narrano ciò che il personaggio della storia fece o disse, ma esprimono l’azione con la faccia e col corpo, come se fossero davvero quell’uomo o quella donna, e perciò per voi è una grande sorpresa, quando il racconto finisce, perché quasi credete di aver visto la vicenda svolgersi sotto i vostri occhi, ed è come se quell’uomo o quella donna avesse smesso improvvisamente di esistere, perché avete dimenticato che c’erano soltanto un cantastorie e una storia.

Avvenne così con la donna che era stata Radegunde. Non cambiò: aveva ancora i capelli grigi e la faccia grinzosa e il corpo di vecchia nell’abito marrone da contadina, eppure era una sconosciuta, uscita dalla badessa Radegunde come da una veste lasciata cadere sul pavimento. La sconosciuta era insensibile, sebbene le lacrime di Radegunde le scorressero ancora sulle guance, e in lei non c’erano bontà e gioia. Si alzò senza curarsi del suo abito al quale s’erano appiccicate le canne sporche; era come se l’abito fosse un accidente casuale e non la riguardasse. Disse con una voce che non avevo mai sentito, una voce insensibile, come se io non contassi nulla per lei, e neppure Thorvald Einarsson, come se noi due non meritassimo una seconda occhiata:

— Thorvald, voltati.

In fondo al corridoio qualcosa si mosse.

— Ora torna indietro. Qui.

Sentii i passi avvicinarsi. Poi il norvegese grande e grosso entrò goffamente nella stanza, a sussulti, come se ad ogni passo fosse trascinato da una corda. Il sudore gli imperlava la faccia. Disse: — Tu… come?

— Perché è la mia natura — disse lei. — Alza il braccio destro, volpone. Ora il sinistro. Ora abbassali tutti e due. Bene.

— Troll! — disse lui.

— È così — disse lei. — Ora ascoltami, tu. C’è un uomo dentro di te, ma non val la pena di cercarlo; ho provato qualche minuto fa quando ero appena uscita dall’uovo, ed è sepolto troppo profondamente, ma adesso mi sono cresciuti rostro e artigli e non m’importa nulla di lui. È quasi l’alba e i tuoi ragazzi si stanno svegliando; andrai a dir loro che dobbiamo restar qui ancora per tre giorni. Tu conosci i cambiamenti del tempo: inventa qualcosa in modo che ti credano. E non provarti a raccontare a qualcuno ciò che è successo qui stanotte: ti accorgerai che non puoi farlo.

— Uomini… a me — disse Thorvald, e cercò di girare la testa, ma lo sforzo riuscì soltanto a farlo sudare.

Lei inarcò le sopracciglia. — Perché dovrebbero venire? Nessuno ha sentito nulla. Non è successo nulla. Tu uscirai e sarai come al solito e io reciterò la parte di Radegunde. Per tre giorni appena. Poi sarai libero.

Thorvald non si mosse. Si vedeva che restare immobile era un tormento: il sudore grondava e lui si tendeva, e tutti i muscoli si gonfiavano. Lei disse:

— Volpone, fai del male a te stesso. E non provocarmi; non ho nessuna simpatia per te. Uso la mano leggera solo perché mi sembri ancora un po’ meno inumano degli altri; non costringermi a usare una mano più pesante. Per dirla chiaramente: ho appena spezzato il collo di Thorfinn, perché trovo che il cambiamento lo migliori. Non costringermi a fare altrettanto a te.

— Non puoi fare… niente di peggio della morte… — disse Thorvald a stento.

— Ah, no? — disse lei, e dopo un momento lui urlò e si portò le mani agli occhi. Lei disse: — Aprili, aprili; hai di nuovo la vista. — E poi — Non voglio prendermi il disturbo di pensare qualcosa di peggio, come i vermi nelle tue budella. Oppure preferisci che muoiano i tuoi figli e tua moglie? Ora va’.

«E comportati come sempre — soggiunse bruscamente, e il colosso si voltò e uscì. A guardarlo, sarebbe stato impossibile capire che aveva qualcosa di anormale.

Non mi era dispiaciuto veder punito un uomo tanto malvagio, i cui amici avevano ucciso i nostri e avrebbero voluto prenderci come schiavi… però in un certo senso mi dispiaceva per via delle foche che latravano e delle balene… eppure dimenticai davvero tutto nel momento in cui usci, perché avevo terrore di quella persona sconosciuta, o di quel demonio o quello che era, perché sapevo che chiunque ci fosse, in quella stanza con me, non era la badessa Radegunde. E sapevo che era in grado di dire dov’ero e che cosa facevo, anche se non facevo rumore, e non capii che cosa avrei dovuto fare quando le dita mi toccarono la faccia. Era il demonio, che tendeva le mani in fretta e in silenzio.

E sapete, all’improvviso tutto ritornò normale! Non voglio dire che era di nuovo la badessa (avevo ancora molti dubbi al riguardo) ma all’improvviso mi sentivo leggero come l’aria e non c’era niente che avesse molta importanza perché avevo lo stomaco pieno di bollicine di felicità; come se fossi ubriaco, ma era molto più bello. Se la badessa Radegunde era davvero un demonio, che scherzo per la sua gente! E adesso che ci pensavo, non sembrava un demonio cattivo, era il tipo che spaventa più che quello che uccide, a parte Thorfinn, naturalmente, ma del resto Thorfinn era stato molto malvagio. E non era vero che gli angeli del Signore colpivano i malvagi? Quindi forse la badessa era un angelo del Signore e non un demonio; ma se era davvero un angelo, perché non aveva colpito i norvegesi appena arrivati, perché non aveva salvato tutti i nostri? E poi pensai che, angelo o demonio, non era più la badessa, e non mi avrebbe più voluto bene, e se non fossi stato così pieno della sciocca felicità che mi faceva il solletico dentro, quel pensiero mi avrebbe fatto piangere.

Le chiesi: — Il cattivo Thorvald si libererà, demonio?

— No — disse lei. — Neppure se io dormirò.

Io pensai: ma non mi vuole più bene.

— Ti voglio bene — disse la voce strana, ma non era quella della badessa Radegunde, e quindi non aveva significato: ma le dita morbide mi toccarono di nuovo, ed erano gentili, anche se era la gentilezza di un’estranea.

Dormi, dicevano quelle dita.

E così dormii.

Nei tre giorni che seguirono mi divertii molto, segretamente, nel vedere la gente che s’inchinava al demonio e gli baciava le mani e piangeva perché si era venduto per riscattare gli altri. Così aveva raccontato suor Hedwic. Il giovane Thorfinn era uscito di notte per pisciare, e al buio era inciampato in un sasso e si era rotto l’osso del collo, e i nostri erano contenti, ma anche ai suoi compagni sembrava non importasse molto, a parte un giovane che era stato suo amico, credo, e che andava in giro con la faccia lunga. Thorvald mi chiudeva con il demonio nello studio della badessa tutte le notti e se ne andava, così diceva la gente, a trovare una delle donne giovani; ma quelle notti il demonio taceva, e io stavo sdraiato con il formicolio segreto dell’allegria nello stomaco, e non mi preoccupavo di niente.

La terza mattina mi svegliai sobrio. Il demonio, o la badessa (perché di giorno era così simile alla badessa Radegunde che non sapevo più cosa pensare) mi prese per mano e mi condusse da Thorvald, che stava scegliendo gli schiavi da caricare sulle barche dei norvegesi. La gente stava lì, e piangeva e si torceva le mani: e mi sembrava strano perché la badessa aveva promesso di scegliere quelli la cui partenza avrebbe causato minori sofferenze; ma oggi so che una minore sofferenza non significa non soffrire affatto. Il tempo era pessimo, nebbia e pioggia fredda, e alcuni dei compagni di Thorvald gli parlavano con aria acida in norvegese, ma lui rispondeva con allegra sicurezza, prendendo alla leggera il tempo. Il demonio gli andò vicino e gli disse in tedesco, a voce bassa perché nessun altro sentisse: — Ora di’ che andiamo in cerca del tesoro della badessa, e poi vieni con noi nel bosco.

Thorvald parlò ai suoi compagni in norvegese e quelli si accigliarono; ma alla fine venne deciso che altri due venissero con noi, perché il demonio diceva che occorrevano tre uomini per portare il tesoro. Il demonio aveva l’aspetto e la voce della badessa Radegunde, tutta sorrisi, e quelli si lasciarono ingannare. Così ci addentrammo fra gli alberi dietro il villaggio, mentre la pioggia diventava più forte e il terreno incominciava ad ammollarsi sotto i piedi. Non appena il villaggio fu fuori di vista, i due norvegesi rimasero distanziati, ma Thorvald non sembrò notarlo; mi voltai indietro e vidi il primo uomo fermo nel fango, con un piede alzato come un’oca, e il secondo con la testa sollevata e la bocca aperta e la pioggia che vi cadeva dentro. Continuammo a camminare, con la terra che si attaccava alle scarpe, e l’acquazzone che ci infradiciava: Thorvald aveva i capelli incollati alla faccia, e il vecchio mantello marrone s’era appiccicato addosso al corpo del demonio. Poi all’improvviso, il demonio incominciò ad ansimare e si portò la mano al fianco con un grido. Il mantello cadde, e il demonio avanzò barcollando tra gli alberi: non piangeva, ma respirava a fatica. Allora vidi davanti a noi, sotto gli scrosci di pioggia, una specie di splendore fra i tronchi nudi, e quando ci avvicinammo lo splendore divenne più nitido, fino a quando potei vederlo bene: non era come un fuoco nella notte, ma una luce mite e serena, come il sole quando passa attraverso le nubi, dolcemente ma senza forza, come accade spesso all’inizio dell’anno.

E in quello splendore c’era gente, uomini e donne tutti vestiti di bianco, e ci tendevano le braccia, e il demonio corse verso di loro, gridando a gran voce e piangendo, senza badare ai rami degli alberi che gli urtavano il viso e il corpo. A volte cadeva, ma si rialzava in fretta. Quando raggiunse quegli strani esseri loro l’abbracciarono, e io pensai che il sudiciume e il fango cadeva e si staccava senza sporcare gli indumenti candidi. Nessuno di quegli esseri strani disse una parola, e neppure la badessa (allora capii che non era un demonio) ma li sentii parlarsi, li sentii con la mente, anche se non so come fosse possibile e non capivo il senso di ciò che dicevano. Una cosa strana fu che quando mi avvicinai vidi che non stavano sul terreno, come avviene in natura, ma più in alto, all’interno dello splendore, e che le loro vesti bianche erano completamente diverse dalle nostre perché aderivano al corpo, e si vedevano le gambe fino al punto dove si uniscono, persino le gambe delle donne. E alcuni erano come noi, ma moltissimi avevano un colorito più scuro, e sembrava che certuni si fossero spalmati di fuliggine (ne esistono nelle parti lontane del mondo, come scoprii più tardi, e quello è il loro colore naturale) e certuni avevano gli strani occhi obliqui di cui aveva parlato la badessa… ma la cosa più strana non ve la dirò subito. Quando la badessa li ebbe abbracciati e baciati tutti, e tutti ebbero pianto, si voltò a guardarci: Thorvald immobile come se fosse trattenuto da una corda, e io, che non avevo più paura e mi ero avvicinato furtivamente con reverenza, perché c’era una grande gioia che circondava quella gente, come la loro luce, mite come la luce di primavera, ma forte come in una primavera dove l’inverno se n’è andato per sempre.

— Vieni qui, Thorvald — disse la badessa, e dalla sua espressione non si capiva se l’amava o l’odiava. Lui si avvicinò, a scatti, e lei si chinò a toccargli la fronte con le dita; e Thorvald aggricciò le labbra come un cane quando ringhia.

— Come sai — disse la badessa senza alzare la voce, — io ti odio e voglio vendicarmi di te. L’ho giurato a me stessa tre giorni fa, e sono promesse che non s’infrangono facilmente.

Lo vidi ringhiare di nuovo e distogliere gli occhi da lei.