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«Ecco la mia vendetta — disse la badessa, e Thorvald si torse sotto il tocco delle sue dita, sebbene fossero così lievi. — D’ora in poi non sarai Thorvald il contadino o Thorvald il navigatore, ma Thorvald il Pacificatore, Thorvald l’Odiatore della Guerra, che soffre per lo spargimento del sangue e si angoscia per la crudeltà. Non posso darti una lunga vita, perché questo dono non sono in grado di farlo, ma ti dò questo: fino alla fine dei tuoi giorni, lunghi o brevi, sentirai sempre intorno a te la presenza, come la sento io, e tu saprai che non è né buona né cattiva, come lo so io, e questo ti turberà e ti spaventerà sempre, come spaventa e turba me, e per questo, come per tante altre cose, Thorvald il Pacificatore non avrà mai pace.
«Ora, Thorvald, torna al villaggio e annuncia ai tuoi compagni che sono stata assunta fra i santi, in Cielo. Puoi crederlo, se vuoi. Questa è la mia vendetta.
Poi ritrasse la mano, e Thorvald si voltò e si allontanò da noi come in sogno, tendendo la mano come per sentire la pioggia e incespicando ogni tanto, come chi si ridesta da una visione.
Allora incominciai ad addolorarmi, perché sapevo che lei se ne sarebbe andata con quella gente strana, e mi sembrava che tutto l’amore e la tenerezza e la luce del mondo stessero per lasciarmi. Mi avvicinai a lei, con l’intenzione di saltare segretamente sul luogo splendente e andar via con loro, ma lei mi vide e disse: — Tu non puoi, sciocco Radulphus — e quel tu mi fece soffrire più di ogni altra cosa, e incominciai a piangere.
— Figliolo — disse la badessa, — vieni qui — e piangendo a gran voce mi appoggiai alle sue ginocchia. Sentivo lo splendore intorno a me, luminoso e piacevole e caldo che cancellava ogni affanno, e poi la mano della badessa sui miei capelli.
Lei disse: — Ricordami. E sii… felice.
Annuii. Avrei voluto trovare il coraggio di guardarla in faccia, ma quando alzai gli occhi se ne era già andata con i suoi amici. Non su nel cielo, capite, ma come se si fossero mossi rapidamente a ritroso fra gli alberi, anche se chissà come gli alberi erano ancora dietro di loro, e mentre si muovevano lo splendore e le persone svanirono nella pioggia fino a quando non rimase più nulla.
Poi non piovve più. Non voglio dire che le nubi si aprirono o che si affacciò il sole: voglio dire che un momento prima pioveva e faceva freddo, e un momento dopo il cielo era azzurro e sereno dappertutto, ed era un tempo splendido, assolato, con una brezza adatta per navigare. Avevo la sensazione stranissima che quella gente non fosse tutta d’accordo per compiere quel grande miracolo (era difficile anche per loro) ma che poi avesse deciso che nessuno l’avrebbe creduto più di tutti gli altri miracoli di cui si parla, credo. E sicuramente avrebbe reso più facile il compito di Thorvald quando fosse tornato a fare quegli strani discorsi sui santi e il Paradiso, e infatti fu così.
Ecco, la storia è tutta qui. Lei mi disse: — Sii felice — e io lo sono: ora mi chiamano Radulf il Felice. Ho avuto la mia parte di guai e di malattie, ma c’è sempre dentro di me un piccolo nucleo di calore e di gioia che mi rende tutto più facile, come il fuoco d’un viandante che arde in una notte fredda nella foresta. Quando sono molto addolorato, rammento le sue dita che mi toccavano i capelli, e questo basta per attutire la sofferenza. Quindi forse ho avuto il dono migliore, dopotutto. E lei mi disse anche — Ricordami — e perciò ho ricordato, ogni piccolo particolare, anche se avvenne quando avevo l’età che oggi ha mio nipote, ed è per questo che oggi posso raccontarvi questa storia.
E gli altri? Tre giorni dopo la partenza dei norvegesi, Sibihd ricuperò il senno, e nessuno sapeva come fosse accaduto, anche se io credo di saperlo! In quanto a Thorvald Einarsson, ho saputo che dopo che sua moglie morì in Norvegia andò in Inghilterra e là finì i suoi giorni come frate in un convento, ma non so se questo sia vero o no.
So questo, invece: anche se mi chiamano Radulf il Felice, ci sono ancora tante cose che mi turbano. La badessa Radegunde era un demonio, come dice il prete nuovo? Non posso crederlo, anche se quando gliel’ho chiesto lui ha risposto che metà delle parole di Radegunde erano assurdità, e l’altra metà erano bestemmie. Padre Cairbre, prima che i norvegesi lo uccidessero, ci aveva raccontato molte storie dei Sidhe, cioè del popolo fatato irlandese: quelli lasciano creature scambiate nelle culle degli umani. E per un po’ pensai che Radegunde dovesse essere una donna dei Sidhe, perché sapeva leggere il latino a due anni, ed era un prodigio di sapienza quando era ancora tanto giovane, dato che quelli che i Sidhe lasciano nelle culle degli umani non sono i loro bambini, capite, ma adulti, che hanno centinaia e centinaia d’anni, e alla fine gli altri del popolo fatalo tornano sempre a riprenderseli. Eppure questo non è possibile, perché padre Cairbre diceva anche che i Sidhe sono capricciosi e crudeli e non hanno anima; e la badessa Radegunde e coloro che vennero a prenderla non erano affatto così, anche se lei ruppe il collo a Thorfinn… però può darsi benissimo che Thorfinn se lo rompesse da solo per caso, come pensammo tutti allora, e che lei dicesse a Thorvald che era stata opera sua soltanto per spaventarlo. La badessa Radegunde aveva un’anima, con le gioie e le sofferenze di un’anima, più di tanti di noi, qualunque cosa dica il prete nuovo. Lui non l’ha mai vista, e non ha mai sentito la sua angoscia e la sua solitudine, e non l’ha sentita parlare della luce sfolgorante che ci circonda… e quella luce che cosa può essere se non Dio stesso? Anche se diceva che il crocifisso era una cosa sorda e vana, sicuramente non intendeva Cristo ma soltanto quel pezzo di legno, perché ripeteva sempre alle suore che Cristo era in cielo e non sul muro. E se diceva che la luce non era buona né cattiva, ebbene, un dotto irlandese itinerante mi ha parlato di un santo monaco cristiano, Agostino, il quale ci insegna che tutto ciò che esiste è bene, e che il male è soltanto la mancanza del bene, come un posto vuoto. E se la badessa disse davvero che non c’era un Dio, io affermo che quello era il peccato della disperazione, e anche i santi possono peccare, purché si pentano, e io credo che lei si pentisse, alla fine.
Io mi dico tutto questo, eppure so che la badessa non era una santa: perché i santi sono forse pochi e deboli, come disse lei? No, sicuramente! E poi c’è una cosa che non ho ancora raccontato, un piccolo particolare che forse vi farà ridere e forse non significa nulla, ma comunque ecco qui:
I santi sono calvi?
Quegli esseri biancovestiti avevano le facce giovani, ma erano calvi come uova: non avevano un solo capello sulla testa! Bene, Dio può radere i suoi santi se così Gli piace, immagino.
Ma io so che non era una santa. E poi credo che uccise Thorfinn e che la luce non fosse Dio, e che lei non fosse cristiana e forse neppure umana; e ricordo che per lei Radegunde era soltanto una veste che poteva togliersi a volontà, e che odiava e disprezzava Thorvald, fino a quando fu felice e al sicuro tra la sua gente. O forse era come quel discorso sulla vita in una casa con le stanze chiuse; quando smise d’essere Radegunde, prima tornò una parte di lei, e poi l’altra, la parte gioiosa che non sapeva mentire e tramare, e poi la parte incollerita; e le due parti si riunirono quando fu di nuovo tra i suoi. E poi rinuncio a cercare di ponderare e torno a riscaldarmi l’anima al fuocherello che accese dentro di me, quel luogo caldo e luminoso nel buio pieno di vento.
Ma c’è qualcosa che mi turba anche là, e che non si acquieta con il ricordo del tocco della badessa sui miei capelli. E mi turba sempre di più, via via che invecchio. Fu l’ultima cosa che mi disse, e che non vi ho ancora raccontato, ma lo riferirò adesso. Quando mi ebbe fatto il dono della contentezza, mi sentii così felice che dissi: — Badessa, hai annunciato che volevi vendicarti di Thorvald, ma non hai fatto altro che trasformarlo in un uomo buono. Questa non è una vendetta!
Mi sbalordii della reazione alle mie parole, perché all’improvviso tutto il colore defluì dal suo volto e lo lasciò cinereo. Mi sembrò invecchiata di colpo, come un teschio, sebbene stesse lì tra i suoi nell’amore e nella gioia che si irradiavano da loro con tanta forza che persino io potevo sentirli. Mi rispose: — Non l’ho cambiato. Gli ho prestato i miei occhi, ecco tutto. — Poi guardò alle mie spalle, in direzione del nostro villaggio, dove i norvegesi caricavano sulle barche gli schiavi piangenti, e di tutti i villaggi della Germania e dell’Inghilterra e della Francia dove i poveri sudano dall’alba all’imbrunire perché i grandi signori possano combattersi tra loro, e i castelli assediati dove gli affamati mangiano topi e ratti e a volte si mangiano tra loro, e le donne rapite o violentate e picchiate, le madri che gemono per i loro piccini, e oltre tutto questo il grande, immenso mondo con le sue battaglie che credevo così grandi, e l’infelicità e l’avidità e la paura e l’invidia e l’odio di tutti, eccettuati forse pochi selvaggi, così lontani da noi che è difficile vederli. La badessa mi chiese: — Non è una vendetta? La pensi così, figliolo? — E poi disse, con il tono di chi crede assolutamente, e ha veduto tutta la gente vivere e morire, non per un anno ma per molti anni, non in un luogo ma in tutti i luoghi, e conosce tutto il mondo:
— Pensaci meglio…