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Trigger aveva già visto lo spettacolo, ma io no e nemmeno Denver. Le dissi che ci sarei andato, poi andai a dirlo a Darcy ma la trovai ancora addormentata. Spesso lei dorme per due giorni dopo un Giorno Lunare di lavoro. Le lasciai un biglietto e mi affrettai a prendere il treno.
È chiamato il. Museo dell’Eredità Culturale e benché i Lunariani lo paghino con le loro tasse, sono in pochi a frequentarlo. Sono turbati dalle mostre. Ma ho sentito che ultimamente, con la nascita del Partito della Terra Libera, è diventato più popolare tra coloro che sono alla ricerca delle proprie radici.
Una volta presentarono la Città di Londra nel 1903, e io ci andai per farmi un’idea dei musei terrestri visitando il British Museum. Il MEC non gli assomiglia per niente. Solo pochissimi tesori d’arte, manufatti e curiosità storiche vennero trasferite su Luna nei giorni precedenti l’Invasione. Il risultato fu che tutti i resti tangibili del passato della Terra vennero distrutti.
D’altra parte, il sistema di computer lunare aveva già allora una capacità virtualmente illimitata. Tutto venne registrato ed immagazzinato. Ogni libro, dipinto, ricevuta delle tasse, statistica, fotografia, rapporto governativo, film, nastro, e registrazione si trovano nei banchi di memoria. Proprio come i parchi dei divertimenti sono popolati da animali clonati da cellule immagazzinate nella Biblioteca genetica, allo stesso modo il MEC è pieno di copie perfette ricavate dalle registrazioni di come erano le cose un tempo.
Incontrai gli altri alla Capanna di Zucchero, dove Denver stava cercando di convincere Trigger a portare con noi Tuesday. Tuesday è l’ippopotamo che vive al bayou, sfidando allegramente ogni senso di autenticità. Denver la teneva al guinzaglio e lei se ne stava placida a guardarci, ammiccando con i suoi occhietti porcini.
Denver trovava stuzzicante l’idea di portare al Mardi Gras un ippopotamo chiamato Tuesday, ma Trigger le fece notare che i funzionari del museo non ci avrebbero mai lasciati entrare a New Orleans con l’animale. Denver finalmente si arrese e la rimandò nella palude. Scendemmo tutti e quattro lungo la strada e uscimmo dal bayou; salimmo sul nastro mobile centrale e presto arrivammo nel centro della città.
Ci sono venticinque teatri nel MEC. Normalmente, la metà sono in funzione mentre gli altri vengono preparati per una rappresentazione. Mardi Gras ’56 è uno spettacolo ormai vecchio di dieci anni, e generalmente viene dato due volte all’anno per un periodo di due settimane. È una delle ricreazioni più famose.
Andammo nella stanza di orientamento, ascoltammo le istruzioni su come comportarci, e poi ci vennero dati i nostri costumi. Questa è la parte che mi piace di meno. Fino all’inizio del ventunesimo secolo, gli abiti erano disegnati con due scopi principali: la semplicità e la tortura. Se non causavano dolore, bisognava rifarli. Non c’è da meravigliarsi che abbiano passato il loro tempo ad uccidersi. L’avrebbe fatto chiunque, con una gravità maggiore e scarpe dure che mutilavano i piedi.
— Noi saremo dei beatnik — disse Trigger, osservando la fila di abiti di quel periodo. — Erano più informali, e potevano essere adatti. C’erano beatnik nel quartiere francese.
La mancanza di formalità ci andava bene. Le ragazze non avevano bisogno di mettersi il reggiseno e potevamo scegliere tra sandali di pelle e scarpe da tennis di tela. Non posso dire che mi attirassero quei capi di vestiario chiamati Levis. Erano ruvidi e mi pizzicavano i genitali. Ma dopo aver visitato l’Inghilterra Vittoriana (quella volta ero una femmina e gli indumenti che le ragazze erano obbligate ad indossare avrebbero reso pazzo qualunque lunariano), qualsiasi cosa era di sicuro un miglioramento.
L’ingresso dell’olotorium era attraverso i gabinetti sul retro dei night club che si affacciavano sulla Bourbon Street. Ragazzi a sinistra, ragazze a destra. Penso che lo facessero per farti capire subito che stavi tornando nel passato, quando la gente aveva strane abitudini. C’era un terzo gabinetto, in realtà, ma era solo una falsa porta, con la scritta «di colore». Non era più possibile fare quel genere di distinzioni.
Mi piace la musica della New Orleans del 1956. Ce ne sono molte varietà, che suonano tutte simili all’orecchio degli uomini d’oggi con quei ritmi semplici e quella miscela di strumenti a fiato, percussione e a corde. Il termine generico è jazz, e quel particolare tipo di jazz suonato quel pomeriggio, nel piccolo scantinato pieno di fumo, era chiamato dixieland. È dominato da due strumenti chiamati clarinetto e tromba, ciascuno dei quali improvvisa una semplice melodia, mentre il resto del complesso fa un gran chiasso.
Ci fu una breve divergenza di opinioni. Cathay e Trigger volevano che io e Denver rimanessimo con loro, presumibilmente per avere l’occasione di mostrare le loro superiori conoscenze (traduzione: per educarci). Dopotutto, loro erano insegnanti. Sembrava che a Denver non importasse, ma io volevo restare solo.
Risolsi il problema uscendo in strada, pensando che se volevano potevano seguirmi. Non lo fecero, ed io fui libero di andarmene in giro per conto mio.
Andare ad uno spettacolo di olografie non è come andare ad una rappresentazione sensoriale, dove te ne stai seduto e l’azione viene verso di te. E non è nemmeno come andare al parco dei divertimenti, dove tutto è reale e si può ficcare il naso dappertutto. Qui devi fare attenzione a non rovinare l’illusione.
Gran parte degli scenari, dei sostegni e tutti gli attori, sono ologrammi. Le persone reali che ti capita di incontrare, sono visitatori in costume come te. Nel caso di New Orleans era stata stesa una rete di strade, pavimentate come lo erano in origine. Poi erano stati costruiti muri alti due metri dove avrebbero dovuto esserci gli edifici, a cui erano stati sovrapposti ologrammi di vecchi palazzi. Alcune delle porte di queste case erano reali, e chi ci entrava poteva trovare degli interni autentici fino all’ultimo particolare. Tutte le altre nascondevano solo muri.
Non si devono assolutamente fare scherzi infantili con gli ologrammi, è contrario allo spirito del luogo. È necessario fare attenzione a non distruggere l’illusione. Non si parla con la gente a meno che non si sia sicuri che si tratti di persone reali, e non si tocca nulla senza prima averla studiata attentamente. Nessun ologramma regge ad un esame ravvicinato, così è possibile distinguere l’illusione dalla realtà.
L’ambiente era enorme. Avevano riprodotto il quartiere francese, o Vieux Carre, dal Mississipi a Rampant Street e da Canal Sfreet fino a sei isolati ad est. Vista da Canal, la città sembrava pullulare di vita per molti chilometri tutt’intorno, anche se sapevo che c’era un muro proprio sulla linea gialla nel mezzo.
New Orleans ’56 comincia a mezzogiorno del Martedì Grasso e prosegue per tutta la notte. Noi eravamo arrivati nel pomeriggio tardi, con il sole che cominciava a disegnare lunghe ombre sull’interminabile parata. Volevo vedere il posto prima che facesse buio.
Camminai lungo Canal per alcuni isolati, guardando le vetrine. C’era un vecchio cinema per film a schermo piatto, con un cartellone che annunciava Da qui all’eternità, vincitore di qualcosa chiamato Oscar. Vidi che era un luogo reale e pensai di entrarci, ma ho sempre paura che questi vecchi film in 2-D mi lascino depresso, anche se Trigger dice che sono molto belli.
Così continuai a camminare per le strade, osservando, pensando di scrivere una storia ambientata nella vecchia New Orleans.
Per questa ragione non ho voluto restare con gli altri ad ascoltare la musica. La musica non è qualcosa che si possa davvero inserire in una storia, a parte una nuda descrizione di come suona, chi la suona e dove viene ascoltata. E anche andare al film 2-D non sarebbe stato di grande utilità, per la stessa ragione.
Ma le strade, le strade! Lì c’era qualcosa da studiare!
Lo schema era lo stesso della Vecchia Londra, ma i dettagli erano cambiati. Le strade erano piene di carrozze senza cavalli, grandi scatole quadrate di metallo che dovevano essere il più inefficiente mezzo di trasporto mai ideato. Niente era perfettamente diritto o molto pulito; camminare per le strade significava rischiare di rompersi un dito o di pungersi la pianta dei piedi. Non c’è da meravigliarsi che portassero scarpe pesanti.
Sapevo a che cosa servivano le luci rosse e verdi, e le strisce dipinte sulla strada. Ma le file di aggeggi misura-tempo allineati lungo ciascun lato della strada? Che cos’era quell’oggetto di metallo rosso su cui un cane stava orinando? Che cosa significava il suono del clacson? Perché c’erano dei fili sospesi in alto su pali di legno? Ignorai la festa del Martedì Grasso e trascorsi piacevolmente più di un’ora cercando risposte a queste e a molte altre domande.
Che impresa scrivere di questo periodo, costruire una storia su di un frammento di vita, nel quale questi dettagli esotici sembravano normali e ragionevoli. Mi raffigurai un abitante di New Orleans trapiantato ad Archimede e cercai di immaginarmi la sua confusione.
Poi vidi Trilby e mi dimenticai di New Orleans.
Era seduta al volante di una Ford familiare del 1955. Lo so perché quando mi fece cenno di raggiungerla e cambiò sedile per lasciarmi guidare, vidi una placca dorata sulla fiancata proprio sotto il finestrino anteriore.
— Come si guida questa cosa? — chiesi confuso, ma cercando di non mostrarlo. C’era qualcosa che non andava. Forse lo avevo sempre saputo, ma lo ammettevo solo ora.
— Per partire devi premere quel pedale, e quell’altro invece per fermarti. Ma si controlla in gran parte da sola. — La macchina le diede ragione scivolando nella corrente di traffico olografico. Strinsi le mani sul volante e scoprii che entro certi limiti potevo guidare io la vettura. Finché non andavo a sbattere contro qualcosa, lasciava che fossi io a comandare.
— Che cosa fai qui? — le chiesi, cercando di assumere un tono noncurante.
— Sono passata da casa tua — disse lei. — Tua madre mi ha detto che eri qui.
— Non mi ricordo di averti detto dove abito.
Lei alzò le spalle, senza un grande entusiasmo. — Non è difficile scoprirlo.
— Io… voglio dire, tu non… — non ero sicuro di quello che volevo dire, ma decisi che era meglio continuare. — Non ci siamo incontrati per caso, vero?
— No.
— E tu sei la mia nuova insegnante.
Lei sospirò: — Questa è una semplificazione eccessiva. Io voglio essere una delle tue nuove insegnanti. Cathay mi ha raccomandato a tua madre, e quando le ho parlato mi è sembrata interessata. Volevo solo darti un’occhiata sul treno, ma quando ho visto che mi guardavi… be’, ho pensato di darti qualcosa che ti facesse ricordare di me.
— Grazie.
Lei distolse lo sguardo. — Darcy mi ha detto oggi che potrebbe essere stato un errore.
— È bello sapere che anche tu puoi fare errori.
— Credo di non capire.
— Non mi piace essere prevedibile. Non mi piace che si giochi con me. Forse urta la mia dignità. Forse ne ho abbastanza di quello che fanno Trigger e Cathay. Tutte le lezioni.
— Capisco, adesso — sospirò lei. — È una reazione abbastanza comune, nei ragazzi svegli, loro…
— Non dirlo.
— Mi dispiace, ma devo. Non ha senso nasconderti che il mio lavoro è conoscere la gente, e soprattutto i bambini. Questo significa conoscere le fasi che essi attraversano, compresa la fase in cui a loro piace immaginare di non attraversare alcuna fase. Non avevo riconosciuto i sintomi in te, per cui ho commesso un errore.
— Che importanza ha, comunque? A Darcy piaci. Questo significa che diventerai la mia insegnante, vero?
— No, non significa questo. Non con me, almeno. Io rappresento una delle prime grandi opportunità che hai di farcela senza interferenze degli adulti.
— Non ci arrivo.