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A quell’epoca Stavia aveva dieci anni. Ricordava di essersi inginocchiata in cucina, per stirare i lacci degli stivali in modo da renderli completamente lisci. Era un patto che aveva stretto con la Signora. Se avesse imparato l’intera commedia di Ifigenia, parola per parola, se avesse riordinato da sola la sua camera, pulito i piatti e poi si fosse vestita perfettamente, senza lasciar nessun bottone pendente e nessuna stringa arricciata, non avrebbero dovuto mandar via Jerby. Mai. Mai, anche se sua sorella maggiore, Myra, era già sulla soglia, intenta a spazzolare con impazienza i capelli del fratellino di cinque anni in modo che fosse pronto.
— Stavia, se non ti sbrighi ad allacciare quegli stivali, Myra e io ti lasceremo a casa — Morgot si era aggiustata il velo blu sul capo per la decima volta e stava di fronte allo specchio, passandosi le dita sulla guancia alla ricerca di qualche ruga. Non ne aveva mai trovate sul suo bellissimo volto, ma aveva l’abitudine di controllare tutti i giorni, per sicurezza. Poi si alzò e cominciò ad abbottonare la sua tunica cerimoniale imbottita. Era venuto il momento di andare.
— Arrivo — aveva detto Stavia.
— Sta’ tranquillo — aveva raccomandato Myra al ragazzino che stava pettinando. — Smettila di agitarti. — Dal tono della sua voce sembrava che stesse per piangere e ciò distolse l’attenzione di Stavia dai suoi stivali.
— Myra? — aveva detto. — Myra?
— Nostra madre ha detto di sbrigarci — aveva ordinato Myra con una fastidiosa intonazione puntando il suo sguardo freddo sul piede sinistro di Stavia. — Stiamo tutti aspettando te.
Stavia si era alzata. Il patto che aveva fatto non avrebbe funzionato. Ora poteva dirlo con certezza. Non se Myra era sul punto di piangere, perché Myra non piangeva mai se non per far scena. Se qualcosa andava così male da costringere Myra a piangere senza poterne ricavare un vantaggio, allora Stavia non poteva far nulla per impedirlo, a dispetto di tutto quello che aveva fatto. Se fosse stata più grande, avrebbe provato a formulare una promessa più impegnativa e forse la Grande Madre le avrebbe prestato attenzione. A dieci anni non si ha molto potere contrattuale. Naturalmente, Morgot e Myra le avrebbero detto che non c’era ragione di fare promesse o cercare di concludere uno scambio perché la Grande Madre non trattava mai. La dea non poteva cambiare idea per compiacere le donne. La sua decisione era immutabile. Come dicevano le sacerdotesse del tempio: “Nessun sentimentalismo, nessun romanticismo, nessuna falsa speranza, nessuna bugia autoconsolatoria, esiste solo ciò che esiste”. E questo, pensava Stavia, lasciava poco spazio per l’iniziativa femminile.
Tale fatalistica depressione si trasformò in una sensazione di generale tristezza mentre scendevano la scale e si avviavano per la strada. L’amica di sua madre, Sylvia, era là ad aspettarli con la figlia Beneda, entrambe con lo sguardo contrito e le guance rosse per il freddo. Il servitore di Sylvia, Minsining, stava in un canto, tormentandosi la treccia con le mani. Minsining aveva l’abitudine di strofinarsi continuamente le mani e, a volte, piangeva così forte che il suo naso a bulbo diventava rosso come una mela. C’erano anche altri vicini, raccolti fuori dalle loro abitazioni; tra di loro c’erano numerosi servitori. Joshua, il servitore di Morgot, era via per lavoro, così non era presente per salutare Jerby. E anche questo era triste perché Joshua e Jerby erano stati ottimi amici, quasi quanto lo erano Stavia e Beneda.
— Ti presentiamo le nostre condoglianze — disse una vicina, asciugandosi gli angoli degli occhi con un fazzoletto.
Morgot s’inchinò, rispondendo a quelle parole con contegno dignitoso.
Sylvia disse: — Morgot, va tutto bene?
La madre di Stavia assentì poi sussurrò. — Sì, finché non cerco di parlare.
— Allora non farlo. Limitati a inchinarti e tieni il velo davanti al viso. Qui, lascia che sia io a portare Jerby.
— No — Morgot si allontanò di un passo stringendo il figlioletto al suo abito trapuntato. — Mi spiace, Syl… Io… voglio tenerlo vicino a me il più possibile.
— Che stupida sono — mormorò Sylvia arrossendo — naturalmente…
Tutti e sei si avviarono su per la collina in una silenziosa processione: Morgot con Jerby, Sylvia al suo fianco, poi Myra che avanzava da sola e infine Beneda e Stavia, che cercava di non piangere e di sembrare dignitosa, senza riuscire in nessuna delle due cose. Beneda fece una risatina sciocca che provocò un’occhiataccia di Myra verso di loro.
— Voi due mocciose, fate le brave.
— Io sto facendo la brava — disse Stavia aggiungendo poi a mezza voce: — Beneda, piantala di farmi fare brutta figura. — Beneda faceva o diceva delle cose che spesso mettevano entrambe nei guai anche se non era sua intenzione. Stavia era più responsabile. Quando Stavia diceva qualcosa di sconveniente si trattava sempre di un discorso che aveva meditato a lungo.
— Non stavo facendoti fare brutta figura. Stavo soltanto ridendo.
— Be’, non c’è niente di divertente.
— Tu sei divertente; hai tutta la faccia storta — Beneda si esibì in una maldestra esibizione di Stavia, sbarrando occhi e bocca.
— Anche la tua faccia sarebbe tutta storta se stessi portando via tuo fratellino.
— Non ho un fratellino. Del resto tutti devono farlo. Non solo tu.
— Jerby non è una persona qualunque. Joshua sentirà veramente la sua mancanza.
— Joshua è carino. — Beneda ci ripensò su per circa mezzo isolato. — Joshua è migliore di Minsining. Vorrei che la nostra famiglia avesse un servitore come Joshua. Riesce a trovare le cose quando le perdi. Ha trovato il braccialetto regalatomi da mia madre. Ha anche ritrovato Jerby quella volta che si è perso.
Stavia ricordava l’isteria e i pianti che avevano accompagnato l’episodio. Joshua, invece, era rimasto tranquillo, quasi concentrato. Poi era andato alla cisterna vuota dove aveva trovato Jerby che vi si era addormentato dentro. — Forse dovremmo fare qualcosa per adularlo e convincerlo a tornare.
— Forse nostra madre avrà un altro bambino — disse Myra senza voltarsi.
— Ne ha già avuti tre — disse Stavia. — Dice che è abbastanza.
— Questo non lo so — disse Beneda, osservando le donne con curiosità. — Mia madre ne ha avuto solo uno. E poi ha avuto me, Susan e Liza.
— Nostra madre ha avuto Myra per prima, poi Habby, poi Byram, poi me e Jerby — le confidò Stavia — Myra ha diciassette anni e questo significa che Habby e Byram hanno dodici e tredici anni, visto che hanno quattro e cinque anni meno di Myra. Quanti anni ha tuo fratello? Come si chiama?
Beneda scosse il capo. — Ha circa la stessa età dei tuoi fratelli, penso. Si chiama Chernon. È il più anziano di tutti. Fu portato dai guerrieri quando era veramente piccolo, ma non credo che abbia ancora quindici anni. È successo qualcosa per cui non è più venuto a farci visita. Adesso va a casa di zia Erica. La mamma non parla mai di lui.
— Molte famiglie non lo fanno — suggerì Myra. — Molte famiglie cercano solo di dimenticare i propri figli a meno che non tornino a casa.
— Non voglio dimenticare Jerby — disse Stavia. — Non voglio — malgrado le sue buone intenzioni sentiva le lacrime nella voce e sapeva che gli occhi erano già umidi.
Myra si volse verso di loro improvvisamente. — Non ho detto che lo dimenticherai — disse con rabbia. — Jerby tornerà a casa due volte all’anno, per le visite, durante il carnevale. Nessuno lo dimenticherà. Ho solo detto che alcune famiglie dimenticano, questo è tutto. Non volevo dire che noi dimenticheremo. — Si volse e riprese a camminare davanti a loro.
— Forse, quando avrà quindici anni, sceglierà di tornare — la confortò Beneda. — Allora potrai andare a fargli visita, dovunque sia la casa che gli assegneranno. Potrai perfino viaggiare per andarlo a trovare se vivrà in un’altra città. Molti ragazzi tornano.
— Alcuni — rammentò Myra, volgendosi per guardarle con una smorfia delle labbra. — Alcuni lo fanno.
Avevano attraversato il distretto dei Mercati sino alla Fontana della Dolce Fine. Sylvia e Morgot presero ciascuna una coppa da un servitore spruzzandone un poco del contenuto verso la cappella della Signora in offerta alla Signora stessa, bevendone poi il rimanente, lasciando che il tempo trascorresse. Myra prese le offerte portandole al piccolo contenitore che si trovava fuori dalla soglia della cappella, poi si sedette sul rivestimento della fontana con aria accigliata. Stavia sapeva che Myra desiderava solo che tutto finisse in fretta. Non c’era necessità di fermarsi alla fontana. L’acqua aveva un valore puramente simbolico — almeno quando veniva bevuta direttamente da un pozzo come quello — e non offriva nessuna reale consolazione salvo ricordare che la fine sarebbe venuta se non la si combatteva. “Accettate il dolore” diceva la sacerdotessa alle funzioni per i defunti. “Accettate il dolore ma non coltivatelo. Con il tempo sparirà.” In quel momento era difficile ricordare quell’insegnamento, molto meno che comprenderlo.
“Tutti noi dobbiamo fare delle cose che non vogliamo fare” aveva detto Morgot. “Tutte noi che viviamo qui, nel Paese delle Donne. A volte dobbiamo fare delle cose che ci feriscono. Accettiamo il dolore perché l’alternativa sarebbe un male peggiore. Abbiamo molte cose che ci ricordano che dobbiamo fare attenzione a questo. Le cerimonie del Concilio. La recita prima del carnevale estivo. La desolazione è qui per ricordarci del dolore, e la fonte è qui per ricordarci che il dolore passerà…”
Stavia non era certa che avrebbe potuto trovare mai un vero conforto in quel pensiero, sebbene Morgot le avesse detto che ci sarebbe riuscita se solo avesse provato. Si limitò a togliere i guanti di moffola e a immergere le dita nell’acqua, facendo finta che ci fossero dei pesci nella fontana. L’acqua veniva dalla cima delle montagne dove giacevano profondi strati di neve quasi per tutto l’anno e, secondo i racconti della gente, nei fiumi c’erano perfino dei pesci. Gli allevatori ne contavano ogni anno sempre di più. Trote. E altre qualità che Stavia non ricordava.
— Dovrebbero esserci dei pesci — disse a Beneda.
— Ci sono pesci anche nella palude — disse Beneda — la mia insegnante Linda me lo ha detto.
— Una vana speranza — sibilò Sylvia che l’aveva sentita. — Sono vent’anni che ci dicono che ci sono pesci nella palude ma nessuno ne ha mai catturato uno. È ancora tutto troppo contaminato.
— Ci vorranno ancora molte decadi prima che riescano a moltiplicarsi così da poter essere pescati — disse Morgot — ma ci sono diversi nuovi esseri che vivono da quelle parti. L’ultima volta che ci sono stata ho visto un’aragosta.
— Un’aragosta!
— Sono quasi sicura che si trattasse di un’aragosta. Ne avevo viste alcune nelle altre paludi. Hanno un’armatura all’esterno. Con molte zampe e due tenaglie.
— Un’aragosta — disse Sylvia meravigliata. — Mia nonna mi raccontava una storia buffa su una delle sue nonne che mangiava le aragoste.
— La cosa che ho visto io non aveva l’aspetto di qualcosa di buono da mangiare — osservò Morgot, con una smorfia. — Era molto dura all’esterno.
— Penso che la parte commestibile sia dentro.
Deliberatamente, Morgot sollevò la tazza dall’acqua e la posò. Il servitore addetto alla fontana si fece gentilmente avanti per prenderla, rimpiazzandola con una pulita. — Condoglianze, mia signora.
— Grazie, Servitore della Fontana. Possiamo sempre sperare, nevvero?
— Certamente, mia signora; pregherò la Signora per vostro figlio. — L’uomo si volse e si occupò delle coppe. Era molto anziano, forse aveva settanta anni o più, un vecchio con i capelli bianchi e un piccolo ciuffo di barba. Strizzò l’occhio a Stavia e la bimba gli sorrise. Stavia amava gli anziani. Avevano sempre storie interessanti da raccontare sul paese controllato dalla guarnigione e sulle saghe dei guerrieri e sul loro modo di vita.
— Meglio andare — disse Morgot, guardando il sole. Il quadrante sopra la fontana diceva che era quasi mezzogiorno. Prese ancora una volta in braccio Jerby.
— Voglio camminare — annunciò il piccolo, lottando per divincolarsi. — Non sono un bambino.
— Naturalmente non lo sei — rispose lei goffamente, posandolo a terra nuovamente. — Sei un ragazzo che va a raggiungere suo padre guerriero.
La sua sagoma rotondetta le guidò lungo la collina sino alla piazza delle cerimonie. Una volta là, Morgot si inginocchiò per asciugare il volto di Jerby con un fazzoletto e tirò giù i paraorecchie del suo cappello. Lanciò a Myra uno sguardo poi si rivolse a Stavia. — Stavia, non farmi fare una brutta figura — disse.
Stavia rabbrividì. Si sentì come se Morgot l’avesse schiaffeggiata anche se sapeva che sua madre non aveva voluto redarguirla. Farle fare brutta figura? In un’occasione come quella? Naturalmente no. Mai! Non avrebbe potuto sopportare la vergogna di fare una cosa del genere. Cercò l’energia dentro di sé per darsi una scossa, risvegliando l’altra parte di se stessa, facendola uscire per prendere il controllo… si trattava di quell’altra Stavia, quella che poteva ricordare le battute della commedia rimanendo sul palcoscenico senza morire d’imbarazzo. La vera Stavia, l’osservatrice, si imbarazzava facilmente e si preoccupava troppo di apparire stupida o debole, osservava tutto in stato di shock, sentendo ogni parola ma incapace di compiere un singolo movimento. Era la prima volta che riusciva a ricordare di aver deliberatamente accantonato la parte di sé abituata alla vita quotidiana, sebbene ciò fosse avvenuto già in precedenza nei momenti di emergenza, fuori dalla sua volontà.
— Morgot! Che discorso antipatico da fare a una bambina — obiettò Sylvia. — Anche in questo momento.
— Stavia sa cosa voglio dire — replicò Morgot — sa che non voglio lamenti.
Stavia, l’osservatrice, rifletté cupamente che non si era mai lamentata da un anno a quella parte; be’, comunque non lo aveva fatto per una buona parte dell’anno. Si era sentita così colpevolmente miserabile dopo l’ultima volta che non avrebbe potuto più fare una cosa simile, persino quando a volte si sentiva così disperata che aveva voglia di piangere e gridare. No, non avrebbe pianto anche se loro si aspettavano che lo facesse. Tuttavia non era stata una cosa gentile da parte di sua madre sollevare quell’argomento e aveva voglia di dirglielo.
L’attrice Stavia, tuttavia, tenne a mente il suo ruolo e si limitò a mantenere il volto impassibile mentre si avvicinava al fianco di Morgot. Myra stava all’altro lato, tenendo una delle manine di Jerby mentre il piccolo si faceva avanti claudicante, compiendo due passi a ogni passo di sua sorella. Si fermarono di fronte alla Porta dei Figli dei Guerrieri, e Morgot si fece avanti per bussare con il dorso della mano sulla sua superficie istoriata ricavandone un suono sordo e tambureggiante.
Una fanfara suonò da qualche parte, oltre la soglia. Morgot sollevò tra le braccia Jerby e si ritrasse al centro della piazza mentre il cancello si apriva; Myra e Stavia corsero al suo fianco. Poi risuonarono i tamburi e fecero la loro comparsa gli stendardi, accompagnati da centinaia di piedi che calpestavano le pietre a un ritmo. Stavia batté le palpebre ma mantenne il suo posto. I guerrieri. File di guerrieri. Lunghe piume sui loro elmi e tuniche scintillanti, lunghe sino alle ginocchia. Portavano pettorali di bronzo e gambali di metallo luccicante a protezione delle gambe. A ciascun lato della truppa si trovavano gruppi di ragazzi con tuniche e calzoni bianchi e cappe con stretti cappucci. Un uomo molto alto stava di fronte a tutti. Era veramente alto. Ed era anche imponente, aveva spalle e braccia che lo rendevano simile a un albero maestoso.
Ogni cosa sembrò fermarsi. Solo le piume si agitavano al vento producendo un sibilo. La madre si fece avanti tenendo Jerby per le manine.
— Guerriero — disse, così piano che Stavia riuscì appena a udirla.
— Signora — rispose cupo l’uomo.
Il suo nome era Michael ed era uno dei vice comandanti della guarnigione di Marthatown. Prima veniva il comandante Sandom, e sotto di lui c’erano Jander e Thales, poi veniva Michael… Michael, Stephon e Patroclo che comandavano le centurie. Stavia aveva incontrato Michael una o due volte durante i carnevali. Era uno degli uomini più belli che avesse mai visto, proprio come Morgot era una delle donne più belle che avesse mai incontrato. Quando i fratelli più vecchi di Stavia, Habby e Byram, avevano raggiunto i cinque anni entrambi erano stati portati da Michael. Beneda aveva detto che probabilmente anche Stavia era figlia di Michael, ma la bambina non lo aveva mai chiesto alla madre; non era una cosa da chiedere. Non era una cosa che si potesse neppure pensare.
— Guerriero, io ti consegno tuo figlio — disse Morgot, spingendo Jerby un passo avanti a lei. Jerby rimase là con le gambe leggermente divaricate e il labbro inferiore proteso, come faceva quando voleva piangere ma non poteva farlo. La sua piccola veste scintillava a causa delle placche che vi erano cucite sul petto. Gli stivali erano lavorati con pietre preziose e turchesi. Morgot aveva lavorato per cucire quegli stivali sera dopo sera, cucendo alla luce della candela, mentre Joshua passava l’ago dentro le pietre per lei, sussurrandole dolci parole di conforto.
Il guerriero abbassò lo sguardo su Jerby e questi gli rimandò l’occhiata a bocca aperta. Il guerriero si inginocchiò, mise il dito sulla fiaschetta del miele al suo fianco e poi lo passò sulle labbra di Jerby. — Io ti offro la dolcezza dell’onore — sussurrò, e il suo sussurro penetrò il silenzio della piazza come una spada, così acuto da non ferire anche se quelle parole facevano a brandelli l’animo delle astanti.
Jerby si leccò le labbra, poi sorrise e Michael posò la mano sulla spalla del bambino.
— Lo consegno nelle tue mani sino a quando avrà quindici anni — continuò Morgot. — Potrà tornare nel Paese delle Donne in occasione dei carnevali, due volte ogni anno fino a quell’epoca.
— Un guerriero sceglie il suo destino a quindici anni — tuonò ancora una volta Michael. Aveva una voce che si sarebbe potuta udire anche in un campo di battaglia.
— In quell’anno sceglierà — disse Morgot, facendosi indietro e lasciando solo Jerby.
Volgendosi il piccolo fece per dire: — Mamma — ma Michael lo aveva già sollevato sopra la sua testa, molto sopra i suoi occhi scuri e la bocca sorridente, sopra la sua dentatura bianca e le labbra che solevano inarcarsi crudelmente mentre urlava: — Guerrieri! Tenete mio figlio!
Dai guerrieri venne un grido selvaggio, una mescolanza di urla e richiami che si trasformò in un’esclamazione forte e ferma: — Telemaco, Telemaco, Telemaco — era un grido così forte da far rabbrividire. Telemaco era uno degli antichi, il figlio ideale, che aveva difeso l’onore di suo padre, almeno così aveva sempre detto Joshua. I guerrieri invocavano sempre Telemaco in occasioni come quella.
Stavia si accorse a malapena di quelle grida; uno dei giovani con la tunica stava guardando verso di lei, un ragazzo di tredici anni. Era uno sguardo ansioso, impaziente e accigliato; aveva qualcosa che la scosse, facendola sentire incerta e a disagio. In qualche modo il ragazzo le sembrava familiare come se lo avesse già visto, ma non ricordava dove ciò fosse avvenuto. Modestamente, come si addiceva a chiunque non avesse ancora quindici anni, abbassò lo sguardo. Quando tornò a spiarlo di sfuggita, tuttavia, il ragazzo stava ancora fissandola. Ci fu un altro rullar di tamburi e una salva di comandi. I guerrieri si mossero. Improvvisamente il ragazzo con la tunica bianca fu al suo fianco osservandola intensamente mentre la piazza si riempiva di guerrieri con le loro piume, gli stendardi che sventolavano alla brezza e i piedi che picchiavano sulle pietre.
— Come ti chiami? — domandò il giovane.
— Stavia — mormorò lei.
— Morgot è tua madre?
Lei assentì chiedendosi il motivo di quella domanda.
— Sono il figlio della sua amica Sylvia — disse lui. — Chernon.
Poi qualcuno lo prese per un braccio e il giovane fu trascinato nella confusione generale. Gli uomini si fecero strada marciando fino al cancello, coprendo il pianto di Jerby. Stavia poteva vedere la faccia rigata di lacrime del fratellino che spuntava da sopra la spalla del padre. I ragazzi con le tuniche bianche sciamarono attraverso il cancello come una marea e la Porta dei Figli dei Guerrieri si chiuse dietro di loro con un clangore che pose fine a ogni strepito.
Chernon aveva gli occhi del colore del miele, pensò Stavia. E i capelli che si abbinavano a quel colore anche se erano un poco più scuri. Le era sembrato familiare perché assomigliava a Beneda salvo che per la bocca. La bocca sembrava tumefatta. Gonfia. Come se qualcuno lo avesse colpito. Gli occhi e i capelli erano identici a quelli di Beneda, però. E pure la linea della mascella. Era lui il fratello che Beneda aveva menzionato! Perché non era mai venuto in visita alla sua famiglia, durante il carnevale? Perché Stavia non lo aveva mai visto?
Morgot e Sylvia si erano allontanate dalla piazza dirigendosi verso le scale che conducevano in cima al muro di cinta. Stavia salì dietro di loro per trovare un punto di osservazione dal quale guardare oltre il parapetto nel campo riservato alle parate fuori dalla città. La cerimonia del Figlio del Guerriero stava continuando oltre le mura.
La centuria di Michael arrivò marciando attraverso i cancelli, Jerby era sulle spalle di Michael e gli uomini lo salutavano. Mentre passavano le fanfare cominciarono a intonare una lunga serie di inni, i tamburi rullarono e le grandi campane vicino alla testa della parata presero a suonare. Ai piedi del monumento c’era la statua di due guerrieri in armatura, uno grande e l’altro piccolo: padre e figlio. Davanti a questo monumento Michael si inginocchiò posando a terra Jerby perché anche lui si inginocchiasse. Ci fu un momento di silenzio mentre tutti i guerrieri si levavano gli elmi e chinavano il capo, in seguito tamburi e corni e campane cominciarono nuovamente a suonare mentre la processione si avviava dirigendosi verso le baracche.
In coda alla processione un ragazzo con la tunica bianca si volse a guardare, alzando un braccio verso Stavia.
— Chi sono quelle statue? — chiese Beneda.
— Ulisse e Telemaco — le disse Sylvia con tono assente.
— E chi è Ulisse?
— Odisseo — mormorò Morgot — è solo uno dei nomi che vengono dati a Odisseo. Telemaco era suo figlio.
— Oh — disse Beneda — lo stesso Odisseo di cui parla Ifigenia nella nostra commedia? Quello di Troia?
— Proprio lui.
Le donne scesero per le scale, attraversarono la piazza dirigendosi verso la strada dalla quale erano venute. Myra camminava vicino a loro adesso, con il braccio intorno ai fianchi della madre. Sia Morgot che Sylvia stavano piangendo. Beneda corse per raggiungerle ma Stavia esitò guardandosi indietro. Chernon. Avrebbe ricordato quel nome.