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Stavia era la Principessa d’Inverno. Aveva una spiga di grano in una mano e un coltello nell’altra. Il Concilio l’aveva mandata a cercare una Renna. — Mucche — avevano detto, indicando una figura su un libro. — Questa è una mucca-cervo, una renna. Aveva corna che si curvavano come la luna nuova, una puntava in avanti oltre le sopracciglia dell’animale e l’altra si estendeva indietro in un’enorme pesante curva ramificata. — Grande così — avevano detto indicando qualcosa che aveva la stazza di un mulo. Le renne avevano pelo bianco sul petto, musi sprizzanti di schiuma e lunghe lingue ansanti. Forse glielo avevano detto o forse lo aveva letto da qualche parte.
Non sapeva perché l’avessero mandata. Sicuramente una delle altre sarebbe stata migliore per quel compito. Già sapevano dove erano le renne e come potevano essere trattate; perché scegliere lei, una straniera? Glielo chiese.
— La tua dote — dissero — le renne saranno la tua dote. — Non riusciva a ricordare perché dovesse avere, o perfino cosa fosse, una dote. C’era un senso di urgenza in tutto ciò, tuttavia, qualcosa che non si poteva limitare a ignorare. Urgenza e inevitabilità. Doveva essere fatto.
In qualche modo, aveva perso i suoi vestiti; le prestarono stivali, una veste pesante di trapunta e un cappello con i paraorecchie che si annodavano sotto il mento. Sotto la veste era nuda. Poteva sentire freddo all’inguine, il vento che sibilava tra le sue gambe. Non avrebbe avuto così freddo se fosse riuscita a tenere unite le gambe, ma non poteva farlo. Qualcosa glielo impediva.
Era meglio ignorare semplicemente il freddo che provava all’inguine e uscire nella neve. Qualcuno le aveva indicato la strada che doveva compiere, là fuori, dove la valle tra le colline si apriva e gli alberi si stagliavano scuri contro il manto di neve. Qualcun altro le aveva mostrato le tracce lasciate dalle renne, peste vagamente triangolari…
— Potrebbe morire — disse una donna.
Chiunque stesse parlando le legò la benda più strettamente intorno al capo e le asciugò il sangue dal viso. Stavia la ignorò.
— Non avresti dovuto colpirla — disse la stessa voce.
— Stava cercando di scappare — la voce di un ragazzo questa volta, giovane; incerta ma piena di sfida.
— Di che utilità potebbe essere con la testa spaccata? — chiese la donna. — Cosa pensavi di fare? Ucciderla e poi fare il tuo dovere sul suo corpo senza testa?
Il suono di uno schiaffo e un urlo.
— Bada a come parli, donna, hai offeso tuo figlio — la voce di un uomo, grave, pesante con una venatura lubrica e inflessibile.
Stavia decise di aver ascoltato a sufficienza. Era tempo di andare a cercare le renne. La pista conduceva tra gli alberi, nella foresta, dove il vento sibilava tra i rami e tutte le voci erano svanite. Persino nel buio riusciva a vedere le tracce. Risaltavano come piccoli cuori tra le ombre. Le seguì.
— La guarirai, Susannah — disse la voce dell’uomo.
— Farò quello che potrò — c’era una sorta di dignità testarda.
— La guarirai.
— Marito, farò quello che potrò; non ho qualità magiche per curare ferite come quella. Forse le avrei se le avessi lasciato il tempo di insegnami alcune delle cose che sa. Ci sono degli oggetti nella sua borsa della medicina ma io non so cosa siano. Capacità è abile a tagliare la legna. E anche le teste; devi rendertene conto, Risoluzione Brome. Avrebbe potuto ucciderla.
— Quel demonio.
— Non mi sembra un demonio — gli rispose con la stessa perversa integrità, con le lacrime agli occhi. Stavia voleva ridere ma non poteva. — Sembra come qualsiasi donna che ha subito un forte maltrattamento. Come ogni altra moglie. Picchiata, rasata e affamata.
Un nuovo schiaffo. Un nuovo pianto; non era un suono che la sorprendesse, sembrava più un rito. Schiaffo, lamento, schiaffo, lamento. L’uno seguiva l’altro come un’ammissione.
— La curerai — era un comando. C’era una promessa di dolore dentro di esso.
Silenzio. Poi: — Farò ciò che potrò con quello che ho qui. Devo prendere alcune cose dalla mia Casa delle Mogli. — Alcune nuove emozioni vibravano in quella affermazione; più di quanto le parole lasciassero intuire; una tristezza definitiva; un senso di finalità. Chiunque fosse la donna, se ne andò a una distanza maggiore di quella che permettesse di seguirla.
Non erano problemi di Stavia. Stavia continuò a seguire le tracce. Conducevano a un sentiero lungo e ventoso tra gli alberi; davanti a lei c’era la luce della luna che veniva da qualche parte. Non c’era cielo. La terra forse. Luce che veniva dalla neve stessa. E c’erano le renne, con le corna contorte come rami di un albero, immobili come statue grigie, o come se fossero state intagliate nella pietra. Solo il loro respiro testimoniava che erano vive, piccoli sbuffi di vapore che uscivano dai loro musi neri, all’infinito. Tutto quello che doveva fare era offrire loro del grano che portava nella mano sinistra e portarle via.
Il muggito venne dalle sue spalle. Si volse accorgendosi di colpo di quale fosse l’origine della luce e del motivo per cui le renne stavano là. Non erano scappate. Erano state rubate e portate là da Lui. Le sue corna puntavano avanti e indietro come il bordo di un’onda frastagliata, dividendosi in dozzine di piccole punte di osso bianco. Sulla sua fronte si protendevano altre punte, brillanti dita d’avorio. Il suo muso puntava in avanti quasi per chiamarla, dicendole perché era là. Le renne gli appartenevano. Ora che era arrivata, anche lei era una sua proprietà. Non avrebbe potuto tornare indietro. La pelliccia bianca intorno alle sue spalle e intorno al petto era un abito reale, per rendere evidente la sua regale presenza.
— Va’ a cercare quella pazza — disse la voce pesante dell’ uomo. — È stata fuori abbastanza da cuocere un pasto. Castità, va’ a cercarla.
— Sì, papà — una ragazzina. C’era una ragazza, là, da qualche parte.
Non era importante.
Il grande animale muggì nuovamente: — Mia — disse — mia.
— Ho bisogno di loro — disse lei in tono ragionevole; — non vedi che ne ho bisogno?
— Mie — abbassò le corna, puntavano verso il petto e la testa di lei. Raschiò con uno zoccolo, cercando un appoggio solido dal quale lanciarsi all’attacco. — Sono mie.
— Non ti servono neppure a nulla — disse lei. — Ti limiti a possederle; se hanno dei cuccioli maschi li combatti e li uccidi. Dici che sono tue ma non ti sono di alcuna utilità.
— Mie — ripeté ancora.
Tornò a farsi udire la voce della ragazzina, spaventanta. — Papà, papà, è morta. La mamma è morta.
— Cosa vuol dire morta?
— È appesa alla trave, papà. A una corda. Non posso tirarla giù…
Confusione. Stavia la ignorò. Aveva il coltello nella mano destra. Sulla spalla teneva una corda. — Non me le lascerai prendere? — chiese al maschio del branco — ne ho bisogno. E, cosa ancora più importante, loro stesse ne hanno bisogno; hanno dei nomi sai. Nomi propri.
— Mie — tuonò lui. — Mio il potere. Mia la gloria. Mie le femmine? Miei i giovani.
Lei lanciò la corda. Essa si mosse come se potesse decidere il suo tragitto nel vuoto, un serpente che sapeva dove andare, agganciandosi intorno alle possenti corna e intorno a un albero, come se avesse avuto uno scopo. La ragazza agì velocemente mentre l’animale urlava e si agitava. Poi, come per miracolo, comparve un’altra corda nella sua mano per tenere legate assieme le altre due gambe dell’animale assicurandolo a un altro albero. Aveva un pugnale; era pronto nella sua mano e lei si mosse verso quella belva che sapeva di muschio con i muscoli guizzanti, lanciandosi contro di lui, tagliando con il coltello, lasciando che brandelli del mostro cadessero sul terreno mentre il grande maschio urlava, e lei diceva… qualcosa. Cosa aveva detto? Una battuta di una commedia. Qualcosa che riguardava il pianto…
Quando ebbe terminato, portò le renne per la strada da cui era venuta? Dietro di lei, la corda magica si allentò e l’animale fuggì via. Non poté più sentirlo. Non ci furono muggiti ma solo il sottile respiro delle renne dietro di lei, la luce che si rifletteva dai loro occhi mentre la guardavano, il vapore che saliva dai loro musi. — L’ho fatto anche per voi — disse.
— Le ho portate — disse quando tornò nel punto dove c’erano le persone. — Guardatele, eccole qui. Ci sono tutte.
— Ne avrai bisogno — le dissero — se vivrai, saranno la tua dote.
Udì la voce di un uomo piena di furia repressa. — Rimettetela nella piccola stanza sul retro e chiudetela dentro.
Chernon obiettò a quella decisone. — Sta morendo. Non può muoversi. Deve esserci qualcun’altra che sappia guarire…
— Susannah era l’unica. Non perderemo altro tempo andando in giro per le montagne a cercare qualcun altro; lascia che muoia se deve morire. Dipende tutto dalla volontà del Padre di Tutti, comunque.
La voce di Chernon ancora, e il rumore di un colpo e poi nulla, salvo il silenzio e una fitta oscurità con tutte le renne intorno a lei, con il loro odore acido, animalesco che le riempiva le narici.
— Se vivrai — le dissero le renne — avrai bisogno di noi. — Rimasero con lei, guidandola attraverso la profonda oscurità fino a quando lei credette di essere svanita per sempre.
Diligenza, il figlio di ventotto anni di Riscelta Brome, aveva riportato indietro una pecora recalcitrante che sembrava posseduta da un demone. Era uno dei piccoli arieti catturati alle donne-demonio, il che spiegava la cocciutaggine dell’animale, ma che lo rendeva anche di valore. Questo significava che Diligenza non poteva limitarsi a ucciderlo e lasciarlo in pasto ai coyote, sebbene sperasse ardentemente che questo avvenisse uno di quei giorni, quando lui non sarebbe stato considerato responsabile. Non osava sfidare il padre per il momento; nessun osava farlo per il momento, neanche nelle piccole cose. Era stato solo il giorno prima che Susannah si era impiccata con quella vecchia corda, solo ieri che la donna-demone era stata rinchiusa nella stanza in fondo alla casa di papà per vedere se fosse vissuta o sarebbe morta. Non era trascorso neppure un giorno che quel giovanotto proveniente dal mondo esterno aveva sfidato papà ed era stato messo fuori combattimento. Non aveva avuto neppure il tempo di creare fastidi, da come la vedeva Diligenza, così era andato dietro all’agnello finché non lo aveva trovato, cosa che gli aveva portato via tutto il giorno.
Aveva appena chiuso l’animale nel recinto al calar delle tenebre, ed era sul punto di avviarsi sul sentiero che portava alla Casa degli Scapoli quando qualcosa uscì dagli alberi gettandosi su di lui.
Aveva zanne e le zanne scintillavano. Vide solo quello. Aveva un muso troppo grande per qualsiasi animale di sua conoscenza; la mente gli si ottenebrò per il panico e cercò di evitarlo saltando tra gli alberi lungo il sentiero ma qualcosa di invisibile lo teneva legato a lui e la cosa successiva di cui si rese conto fu che giaceva sulla pancia con la testa tenuta per i capelli e quell’invisibile cosa era seduta su di lui, mentre le zanne luccicanti e gli occhi scintillanti si muovevano come se ci fossero tre o quattro altre cose che venivano verso di lui nella notte.
— Chernon? — chiese una voce orribile e riecheggiante. — Dov’è il nostro amico Chernon?
Diligenza non riusciva a pensare. Non sapeva chi fosse Chernon. Gemette, schizzando qualcosa dalla bocca mentre una delle orribili cose gli provocava un forte dolore alla mano. — Aaaggh — gemette quasi urlando. — Non lo so. Cosa è? — La cosa lo lasciò per un attimo — La tua gente ha preso un uomo e una donna. Il nome dell’uomo è Chernon. Non è veramente un uomo. È un demone; è un nostro amico e noi vogliamo sapere dove si trova.
— Nella casa di papà — gemette Diligenza. — È nella casa di papà con la donna. Cappy l’ha colpita con una pala e lei non riesce più a parlare da quel momento…
— Ahh — disse la voce profonda che già sapeva che Stavia era stata ferita malamente. — C’è un angelo che verrà a prendere la donna. Non avreste dovuto ferirla. Era una cosa che non dovevate fare. — Più tardi, ricordando, Diligenza ebbe la strana idea che nella voce ci fosse una sfumatura di dolore, ma al momento non riuscì a pensare a nulla del genere perché qualcosa lo colpì dietro l’orecchio con una specie di lampo fiammeggiante e non capì più niente.
— Cappy — disse una delle invisibili creature. — Deve essere uno dei giovani che vivono nelle baracche; mi occuperò io di lui.
— Terremo le maschere in modo da creare ancora l’idea che si tratti di demoni — disse la voce profonda — la Casa del Padre dovrebbe essere in cima a quella collina.
— Ci vorrà un’ora.
— Circa.
— Chi ha le penne?
— Io. Le ho portate io.
Quasi per un colpo di fortuna, Cappy Brome stava lasciando la Casa degli Scapoli per andare al bagno quando la cosa invisibile lo prese e lo gettò a terra con il viso nella polvere, schiacciandolo.
— Cappy? — gli sussurrò un voce. — Tu sei Cappy?
Sebbene quasi paralizzato dalla paura Cappy riuscì a fare un cenno di assenso. La cosa seduta su di lui sembrò soddisfatta. — Quella donna che hai colpito con la pala, era una santa donna — disse la voce — È una guaritrice.
Cappy si contrasse cercando di liberarsi del suo avversario. — È una puttana — urlò. — Se ne va in giro mostrando i capelli e il corpo. Avrebbe dovuto essere una puttana di Babilonia. Stava cercando di fuggire…
— Umm — disse la voce. — È ovvio che questa discussione non ti farà cambiare idea; lo farò io, del resto, semplicemente segnando il mio marchio col sangue. — In quel momento Cappy sentì che un pugnale gli lacerava la camicia. — Un angelo è venuto a salvarla — disse la voce sottolineando l’osservazione con punture e tagli del pugnale. — Ricordalo! — Poi qualcosa colpì Cappy sulla testa e la creatura scomparve.
Dalla valle vennero grida confuse; il fuoco stava bruciando nel fienile del vecchio Brome.
— Buona idea — disse la cosa invisibile, muovendosi verso la Casa degli Scapoli. Dopo un poco il fuoco raggiunse anche quest’ultima e fu nutrito da manciate di paglia.
All’interno della piccola e disordinata stanza della casa del vecchio Brome, Stavia giaceva stupefatta nelle tenebre. Di tanto in tanto, l’oscurità ondeggiava aprendo uno spiraglio, lasciando scorgere al centro uno spazio grigio dal quale, a volte, proveniva un suono. Quella volta si trattava di uno colpo battuto alla finestra, dolcemente, come se un ramoscello spinto dal vento avesse colpito il vetro. Persino nel suo dolore, nella nebbia grigiastra che l’avviluppava, stordendola, si disse che non era vento, che non c’erano alberi quindi non poteva essere un ramo ad aver colpito la finestra. Nella sua mente il ramoscello ondeggiò, diventando un albero, una foresta e ancora una volta si fece tenebra, piena di enormi belve cornute che muggivano al cielo. — Vieni, Stavia — gridavano.
— Stavia — sussurrò qualcuno evocando nuovamente la zona grigia.
Lei poteva solamente gemere. Era quello che ci voleva, un gemito imperativo, forte a sufficienza in modo che il ramo, la foresta e le tenebre potessero sapere dove si trovava. Eppure gemette piano. Poi fece nuovamente sentire la sua voce; il rischio di provare altro dolore valeva la pena se serviva per esprimere la sua sofferenza. Qualcosa le faceva male. Da qualche parte aveva male. Stava nel mezzo di un gorgo di dolore.
Forse era un sussurro quello che aveva udito fuori dalla finestra. Non poteva esserne sicura. Non importava. Il gemito le aveva preso sin troppa energia. Non se ne stupì. Di nuovo calarono le tenebre ululanti.
Lontano, fuori, forse sopra la collina oppure oltre qualche crepaccio nella notte tenebrosa, si udiva un grande rumore cui era difficile dare una definizione. Uno scoppio, che si propagava in tutte le direzioni, accompagnato da un clangore di voci e grida di agonia.
Sopra di lei in casa qualcuno urlava, si muoveva, imprecava; passi pesanti risuonarono lungo la scala che portava al piano di sotto. Voci che urlavano tutte assieme. Porte sbattute. Una confusione di rumori là, un’altra là e poi le due voci che si muovevano verso una terza, con cui si mescolavano come brutti colori nell’acqua.
Vicino al capo del suo letto qualcosa colpì l’anta.
Sentiva aria fredda sul viso. Aria che le faceva male.
— Aaaah — esclamò senza sapere cosa diceva.
— Qui — disse qualcuno. — È legata. Per tutto ciò che è sacro per questi bastardi… — Accesero un luce contro il suo volto, una luce molto tenue, come proveniente da una lanterna. Anche la luce le faceva male. Quando la pressione sulle sue spalle cessò e le braccia di qualcuno la sollevarono, provò ancora più male e cominciò a gridare… o almeno ci provò. C’erano delle cose soffici sulla sua bocca che le impedivano di urlare. Dita. Morse quelle dita e qualcuno imprecò.
— Stavia — disse una voce al suo orecchio. — Sono Joshua. Sta calma, piccola. Ti portiamo a casa — sentì una puntura sul suo braccio, qualcosa di affilato che l’avrebbe aiutata a lottare contro l’agonia che le provocava ogni movimento — Per il dolore — disse la voce di Joshua. — Stai calma.
— Via — disse la sua mente. — Stai calma o non riusciranno a portarti via. — Smise di lottare contro il dolore e si lasciò andare. Le tenebre tornarono ad avvolgerla mentre pensava: “Va bene così. Non devo preoccuparmi”.
— Prendete tutte le corde che trovate — disse la voce di Joshua. Rifate il letto ordinatamente. Mettete le piume attorno al letto. Ricordate di lasciare quelle impronte ai piedi del muro sotto la finestra… — La portarono fuori dalla porta, attraverso la casa, fuori dalla soglia e poi tra gli alberi. Se ne stava rannicchiata nelle braccia di Joshua. C’era qualcun altro che sussurrava. Ne conosceva la voce.
— Sono Corrig, Stavia — sussurrò qualcuno. — Va tutto bene. Sta’ calma.
Poi tutto scomparve, persino il dolore se ne andò lasciandola avviluppata in un’oscurità confortevole e piena d’amore.
Il fienile del Vecchio Jepson bruciò sino alle fondamenta; la Casa degli Scapoli del Vecchio Brome bruciò solo in parte, sebbene tutta la facciata frontale avrebbe dovuto essere ricostruita prima che qualcuno potesse tornare ad abitarci. Non poterono vedere di più alla luce della lanterna. Alla stessa luce riuscirono a leggere le parole che qualcuno aveva inciso col coltello sulla schiena di Capacità. “È una santa donna.” Non fu che quando Cappy si volse che poterono chiedergli chi era “quella” donna di cui parlava la scritta e fu solo allora che cominciarono a cercare Stavia.
La stanza era intatta come se non vi fosse stato nessuno. Non c’erano segni della presenza della donna o delle corde che l’avevano tenuta legata al letto. C’erano delle impronte che conducevano verticalmente fino al muro dalla finestra; c’erano anche alcune grandi penne bianche sul letto, penne più larghe di quanto non avessero mai visto.
— Quella cosa ha detto che un angelo era venuto a salvarla — disse Diligenza. — Lo ha detto. E Susannah ha detto che non avremmo dovuto farle del male. Susannah ha detto che era un errore.
Il Vecchio Brome colpì suo figlio sulla bocca senza cambiare espressione. Non gli piaceva che gli si ricordasse Susannah. E anche il fatto che qualche donna avrebbe potuto essere stata così sensibile da dire qualcosa in proposito sembrava un’eresia. Tuttavia, le penne e le impronte e quello che il ragazzo aveva detto gli fecero salire la bile in bocca costringendolo a sputare più volte. Era spaventato. Qualcosa era andato storto. Qualcosa su cui doveva meditare.
Il Vecchio Jepson portò diversi dei suoi figli più grandi per parlare e Diligenza ripeté anche a loro cosa aveva visto e sentito. — Il diavolo ha detto che Chernon era il loro amico — proclamò più volte, e questa informazione fu sostenuta da altri fatti. Diversi tra i giovani avevano visto e sentito il demone o meglio i demoni. Avevano dato la caccia a Chernon durante la notte, ma lo avevano perduto. Erano stati inviati per trovarne le tracce se riuscivano trovarle e riportarlo indietro.
— Ho sentito che Susannah si è uccisa — osservò il Vecchio Jepson — perché l’ha fatto?
Il Vecchio Brome finse di non aver udito; senza pensarci Vendetta disse: — Ha lasciato un biglietto; era stanca di essere picchiata.
— Castigata — lo corresse il Vecchio Jepson.
— Lei ha detto picchiata — insisté Vendetta — ha detto che preferiva morire così lui non avrebbe potuto fare più nulla alla sua testa. Ha detto che preferiva morire piuttosto che permettere a papà di fare ancora il suo dovere con lei.
Questa volta Risoluzione Brome colpì suo figlio sbattendolo a terra.
Cappy, nel frattempo, stava covando il profondo e terribile sospetto che quando aveva colpito la donna-demonio… la santa, con la pala avesse fatto qualcosa di molto, molto brutto, qualcosa di peggio di quanto papà non avrebbe mai ammesso. Alzò lo sguardo e vide l’occhio gonfio del fratellastro, Vendetta Brome, trovando in quello sguardo un luccichio duro e implacabile. Vendetta, comprese Cappy, odiava papà.
Era una rivelazione sulla quale Cappy avrebbe riflettuto a lungo, una rivelazione che alla fine avrebbe diviso con altri e si sarebbe diffusa come un cancro in tutta Terrasanta. Diede a tutti loro qualcuno al quale attribuire il definitivo Armageddon.
La volta successiva in cui Stavia si svegliò il vago grigiore nel quale era sommersa comprendeva anche un movimento. Qualcuno stava facendole qualcosa alla testa.
— Va tutto bene — disse Joshua. — Sto pulendoti quel taglio sulla testa, piccina. Mi spiace se ti faccio male.
— Non fa male — cercò di dire attraverso le labbra gonfie.
— Per fortuna — continuò lui con voce dolce — che la tua testa è quasi rasata. Vuol dire che non dovrò farlo io. Hai un brutto taglio.
— Mi ha colpito — spiegò lei. — Quando ho cercato di fuggire qualcuno di loro mi ha colpito con qualcosa — pronunciava male le consonanti. Evidentemente non riusciva quasi a muovere le labbra.
— Ah — disse lui. — Questo spiega tutto.
— Dov’è Chernon? — gli chiese. Sembrava importante sapere che non era là.
— Cosa ha detto? — chiese qualcuno.
— Vuole sapere dov’è Chernon.
— L’ultima volta che l’ho visto stava correndo per salvarsi da sei uomini della Terrasanta che lo inseguivano per ucciderlo — una voce sconosciuta. — …un angelo è venuto a salvarla.
— Un angelo? — chiese lei cadendo nelle tenebre ancora una volta.
— Un angelo — affermò Joshua. — Abbiamo lasciato delle penne d’angelo nella camera dove ti tenevano, per provarlo.
Non ci fu più nulla dopo queste parole per parecchio tempo, poi cessò il movimento. Vide la luce del fuoco e qualcuno che le faceva ingerire una minestra calda. Quattro o cinque ombre, gente che si muoveva.
— Ci troveranno — disse lei, con voce chiara questa volta.
Corrig si chinò su di lei asciugandole la fronte. — Non è possibile, piccola. Non stanno neanche cercandoci. Sono tutti rinchiusi nelle loro case nella speranza che i demoni non tornino a finire il lavoro.
— I demoni?
Lui cominciò a spiegarle ma la ragazza svenne di nuovo.
Quando tornò la luce chiese: — Angelo… penne?
— Septemius ci ha dato tutto il materiale di scena…
— Perché lo avete fatto? — chiese.
Diverse voci, tra le quali riconobbe quella di Septemius, le fornirono una spiegazione: — …sono creduloni e superstiziosi… sono così imparentati tra di loro che dureranno ancora per poche generazioni… volevamo diffondere confusione e terrore tra tutti.
Non riuscì a sentire il resto.
Continuò a svenire. Fu solo lentamente, solo dopo un lungo periodo di tempo, che cominciò a comprendere e a ricordare ogni cosa che le avevano detto. C’era qualcosa che riguardava i suoi occhi che preoccupava Joshua. Si trovava nel carro di Septemius. Erano quasi tornati a Marthatown. Lei era nel carro, viva, perché Joshua e Corrig avevano sentito la sua cattura, l’avevano sentita quando Chernon l’aveva colpita. A quella distanza lo avevano semplicemente saputo. Avevano sentito quando Cappy l’aveva ferita, cosa che li aveva indotti a sbrigarsi; nel suo delirio tutto ciò non le sembrava possibile. Non le sembrava neppure probabile. Avevano saputo e questo era tutto. Da buoni servitori quali erano, erano venuti a prenderla.
Septemius era là, e nessuno cercava di nascondere i segreti a Septemius perché lui già sapeva tutto. Quello che potevano fare Joshua e Corrig potevano farlo anche Kostia e Tonia. Era un segreto, ma qualcuno ne era a conoscenza.
Questo è ciò che Stavia aveva compreso. Sapendo alcune cose di Joshua non ci mise molto a comprendere. L’unico fatto che la sorprese fu che anche Corrig faceva parte di tutto ciò.
Dal momento in cui Chernon l’aveva ferita, c’erano voluti quaranta giorni per rintracciarla; secondo Corrig era stata una cosa facile anche se aveva richiesto parecchio tempo. Potevano stabilire dov’era ma non quanto lontano si trovasse. E, sulle prime, lei non era rimasta in un solo luogo. In alcune direzioni non riuscivano a sentire nulla. I nuovi uomini sembravano impagabili perché avevano un senso unico della distanza che agli altri mancava. Avevano impiegato più tempo di quello che avrebbero voluto ma alla fine l’avevano localizzata, fortunatamente un solo giorno dopo che era stata colpita da Cappy.
Sulla strada, nel carro di Septemius avevano discusso cosa avrebbero dovuto fare e come, tradendosi così davanti al vecchio e mandando in fumo tutte le illusioni che potevano aver creato sulla loro natura di servitori. Alla fine era stato Septemius che aveva suggerito che compissero un’incursione nella Terrasanta mascherati da demoni, lasciando ambigue prove di natura soprannaturale ogni volta che fosse stato possibile dietro di loro.
— Sono superstiziosi — aveva detto. — Lo ricordo. Sono inflessibili, superstiziosi, paurosi e vendicativi. Se andaste semplicemente da loro a prenderla potrebbero reagire solo in termini di vendetta e questo metterebbe il campo fortificato in pericolo. Se angeli e demoni arriveranno a salvarla gli abitanti di Terrasanta non sapranno cosa pensare o contro chi vendicarsi. Un bel raid demoniaco dovrebbe confonderli per parecchie generazioni.
Joshua si era dichiarato d’accordo. Pensava che fosse una cosa decisamente saggia dopo quello che Septemius gli aveva detto riguardo a Chernon.
— Il ragazzo non ha architettato tutto da solo — disse Joshua.
— È quello che abbiamo pensato io e le mie nipoti. — Convenne Septemius — penso che lo abbiano spinto a farlo e che gli ufficiali siano d’accordo. Non che quello che ha fatto fosse contro i suoi desideri. È un vanaglorioso. Entrambe le ragazze lo hanno detto.
— In caso si sia lasciato andare a parlare con quei barbari faremmo meglio a screditarlo. — Dire che Chernon era amico dei demoni, decisero, sarebbe stato sufficiente a distruggere ogni credibilità egli avesse potuto procurarsi tra i barbari. Joshua non voleva riferire a Morgot che Chernon era stato lasciato vivo tra gli abitanti di Terrasanta e provocare così altri problemi.
Una volta che l’avevano localizzata avevano aspettato sino a notte per preparare il loro tentativo di salvataggio.
— Avete aspettato quasi troppo — momorò a Corrig a Joshua. Gli altri tre servitori li avevano lasciati per andare verso nord a maggior velocità e arrivare a casa molto prima di Stavia, Joshua e Corrig. Per quello che riguardava Marthatown, Stavia aveva avuto un incidente durante il viaggio di esplorazione e i servitori di famiglia erano andati a recuperarla. Il fatto che altri servitori fossero contemporaneamente assenti era una coincidenza casuale; i servitori andavano e venivano continuamente occupati in compiti diversi.
— Non ce l’avrei fatta ancora per molto — momorò Stavia.
— Mi spiace, piccola — disse Joshua appoggiandole la testa sulla sua spalla per darle ancora un poco di zuppa. — Non sapevamo che avessi cercato di fuggire.
— Non potevo sopportarlo — mormorò lei tra una cucchiaiata e l’altra di verdura. — Non potevo sopportarlo.
— Sì — disse Corrig. — È comprensibile.
A volte era Septemius a sorreggerle il capo per nutrirla. Fu a lui che sussurrò il suo terribile segreto, quello che aveva dimenticato sino a quel momento e che scordò il momento successivo.
Entrarono a Marthatown di notte, conducendo il carro scricchiolante per le strade sino al piccolo ospedale dove Morgot e una piccola stanza tranquilla l’aspettavano. Morgot riservò una veloce occhiata a Stavia poi se ne andò mentre la sua voce le arrivava strana, come lontana: — Jeanine, Winny, volete occuparvi di lei, per favore? — Poi se ne andò e per un poco non fece ritorno. Jeanine e Winny lavarono Stavia asciugandola e distendendola nel letto pulito, appoggiandole la testa su un cuscino pulito.
Morgot tornò con gli occhi rossi e la voce perfettamente calma. — Ci vorrà un poco perché tu guarisca, piccola. Suggerisco un bel po’ di sonno, tanto per cominciare.