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«Glielo dici tu,» aveva replicato Tib, mollandole il telefono, e lei aveva preso la cornetta e aveva detto: «Non voglio parlarti, ma Tib è qui. Di sicuro lei vorrà farlo,» e aveva restituito il telefono a Tib, lasciando poi la stanza. Aveva percorso metà del campus quando Tib la raggiunse.
Si era fatto freddo la sera, e c’era un vento pungente che trasportava le foglie morte in mezzo all’erba. Tib aveva portato la giacca a Elizabeth.
«Grazie,» disse Elizabeth, e se la infilò.
«Almeno non sei del tutto stupida,» disse Tib. «Quasi, però.»
Elizabeth affondò le mani nelle tasche della giacca. «Che doveva dirti Tupper? Ti ha chiesto di uscire un’altra volta? Per andare a una delle sue riunioni Tupperware?»
«Non mi ha chiesto di uscire. Gli ho chiesto io di portarmi al Ballo del Raccolto perché mi serviva un appuntamento. Ti mettono in servizio al fine settimana se non ne hai uno, dunque l’ho chiesto a lui. E dopo averlo fatto, avevo paura che non avresti capito.»
«Capire cosa?» disse Elizabeth. «Puoi uscire con chi ti pare.»
«Non voglio uscire con Tupper, e lo sai. Se non la smetti, dovrò trovarmi un’altra compagna di stanza.»
E aveva risposto, senza avere idea di quanto importanti siano le piccole cose come quella, di quanto riattaccare il telefono o avere una gomma bucata o dire una frase possa far volare spruzzi in tutte le direzioni e trascinarti al di là del bordo, aveva risposto: «Forse ti converrebbe farlo.»
Avevano vissuto per due settimane senza parlarsi. La compagna di stanza di Sharon Oberhausen non era tornata dopo il Giorno del Ringraziamento, e Tib si trasferì nella sua stanza fino alla fine del trimestre. Poco dopo Elizabeth aderì agli Alpha Phi e si trasferì nella palazzo dell’associazione femminile.
Tornò il dottore e finì di fasciarle la caviglia. «Lo rimedia un passaggio per casa? Le do un paio di stampelle. In queste condizioni vorrei che non camminasse più del minimo indispensabile.»
«No, chiamo mio marito.» Il dottore l’aiutò a scendere dal lettino e ad appoggiarsi alle stampelle. Uscì nella sala d’attesa e spinse dei bottoni sul telefono per permetterle di telefonare all’esterno.
Compose il numero di casa e disse alla suoneria del telefono di venire a prenderla. «Arriva fra pochissimo,» informò poi la segretaria. «Lo aspetto fuori.»
La segretaria l’aiutò a scendere le scale. Poi tornò dentro, ed Elizabeth uscì sul marciapiede e rimase lì in piedi, guardando la finestra centrale.
Dopo che Tupper ebbe portato Tib al ballo degli Angel Flight, era venuto a tirare oggetti alla sua finestra. Li vedeva tutte le mattine quando andava a lezione, apribarattoli di plastica, tagliaananas e reggispazzoloni da cucina sparsi sul prato e sul marciapiede. Non aveva mai aperto la finestra, e dopo un po’ lui aveva smesso di venire.
Elizabeth guardò l’erba. Inizialmente non riusciva a trovare il verme. Frugò nell’erba con la punta della stampella, appoggiandosi solo sul piede buono. Stava lì, dove l’aveva messo, ormai rinsecchito e di un rosso più scuro, quasi nero. Era ricoperto di cristalli di ghiaccio.
Elizabeth osservò la segretaria attraverso la finestra. Quando quella si alzò per archiviare la sua scheda, Elizabeth attraversò la strada e si incamminò verso casa.
Tornando a casa a piedi, la caviglia di Elizabeth si era orribilmente gonfiata, tanto che quando Paul rientrò, lei quasi non riusciva più a muoverla.
«Che ti è successo?» le disse furioso. «Perché non mi hai chiamato?» Guardò l’orologio. «Ora è troppo tardi per avvertire Brubaker. Andava fuori a cena con la moglie. Suppongo che non ti senta di andare al concerto.»
«No,» disse Elizabeth. «Ci vengo.»
Abbassò il termostato senza nemmeno guardarlo. «E in ogni caso che diavolo hai combinato?»
«Pensavo di aver visto un ragazzo che conoscevo. Ho provato a raggiungerlo di corsa.»
«Un ragazzo che conoscevi?» chiese Paul incredulo. «Al college? Che ci fa qui? Aspetta ancora di laurearsi?»
«Non so,» disse Elizabeth. Si chiedeva se Sandy si fosse mai vista sul campus, vestita col maglione bianco neve e le perle addosso, in piedi davanti al palazzo dell’associazione studentesca mentre parlava con Chuck Pagano. Lei non è là, pensò Elizabeth. Sandy non aveva detto: “Digli che non ci sono.” Non aveva detto: “Forse ti converrebbe farlo,” e grazie a quello e a una gomma a terra, Sondra Dickeson non è intrappolata nel campus, in attesa che qualcuno la venga a salvare. Come invece sono loro.
«Non ti rendi nemmeno conto di quanto ci verrà a costare questa sciocchezza, vero?» disse Paul. «Brubaker mi ha detto oggi pomeriggio che ti avrebbe fatto avere il lavoro nell’ufficio di presidenza.»
Tolse la fasciatura e le guardò la caviglia. Il bendaggio si era tutto bagnato sulla via del ritorno. Lui gliene cercò un altro. Tornò indietro con il modulo raggrinzito per la richiesta di lavoro. «L’ho trovato nel cassetto della scrivania. Mi hai detto che avevi consegnato la richiesta.»
«È caduta nella fogna,» disse lei.
«Perché non l’hai buttata via?»
«Pensavo che sarebbe potuta servire,» rispose, poi gli si avvicinò zoppicando sulle stampelle e gliela tolse di mano.
Arrivarono in ritardo al concerto a causa della sua caviglia, per cui non riuscirono a sedere vicino ai Brubaker, che incontrarono alla fine dello spettacolo. Il dottor Brubaker presentò la moglie.
«Mi dispiace tanto,» disse Geraldine Brubaker. «Sono anni che Ron dice di far sistemare il viale centrale. Una volta era riscaldato.» Era la donna che Sandy aveva indicato alla riunione Tupperware e che aveva descritto come Geraldine che ama Gesù. Indossava una giacca rosso scuro e aveva una messa in piega rigonfia come quelle delle ragazze ai tempi in cui Elizabeth andava al college. «Siete stati tanto gentili a invitarci, ma ovviamente comprendiamo che con questa caviglia…»
«No,» la interruppe Elizabeth. «Avremmo piacere che veniste. Sto benone, davvero. È solo una piccola slogatura.»
I Brubaker dovevano parlare con qualcuno dietro le quinte. Paul spiegò loro come arrivare a casa sua e portò fuori Elizabeth. Dato che erano arrivati tardi, non avevano trovato posto per la macchina. Paul aveva dovuto posteggiare vicino all’infermeria. Elizabeth disse che ce la faceva a camminare fino all’auto, ma ci misero quindici minuti per percorrere tre quarti del viale.
«È ridicolo,» disse Paul rabbioso, e accelerò il passo per andare a prendere l’automobile.
Lei arrancò lentamente fino alla fine della strada e si sedette su una delle panchine di cemento che erano state le aperture dell’impianto di riscaldamento. Si era messa un vestito di lana e la giacca più pesante che aveva, ma sentiva ancora freddo. Appoggiò le stampelle contro la panchina e guardò il suo vecchio dormitorio.
C’era qualcuno in piedi lì davanti, che osservava la finestra centrale. Sembrava che avesse freddo. Aveva infilato le mani nelle tasche della giacca jeans, e dopo qualche minuto tirò fuori qualcosa e la lanciò verso la finestra.
È inutile, pensò Elizabeth, lei non verrà.
Aveva fatto un ultimo tentativo per parlarle. Era il trimestre di primavera. Aveva piovuto di nuovo. Il viale era coperto di vermi. Tib indossava l’uniforme degli Angel Flight, e sembrava che avesse freddo.
Tib aveva fermato Elizabeth appena fuori dal dormitorio e le aveva detto: «Ho visto Tupper l’altro giorno. Mi ha chiesto di te, e gli ho detto che stavi alla casa degli Alpha Phi.»
«Oh,» aveva fatto Elizabeth, e aveva provato ad andarsene, ma Tib l’aveva trattenuta, continuando a parlarle come se niente fosse successo, come se fossero ancora compagne di stanza. «Esco con questo tipo del CAUR. Jim Scates. È fantastico!» aveva detto, come se fossero ancora amiche.
«Sono in ritardo per la lezione,» disse. Tib lanciò nervosa uno sguardo giù per il viale, e anche Elizabeth lo fece, e vide Tupper che si stava avvicinando sulla bicicletta. «Grazie tante,» disse con rabbia.
«Vuole solo parlarti.»
«Di cosa? Di come ti porterà al ballo serale degli Alpha Sig?» aveva detto, voltando poi le spalle ed entrando nel dormitorio prima che lui potesse raggiungerla. Le aveva telefonato per quasi un’ora, ma lei non aveva risposto, e dopo un po’ aveva lasciato perdere.
Tuttavia non si era dato per vinto. Era ancora là, sotto la sua finestra, che le tirava tagliaananas e separauova, e lei, dopo tutti questi anni, ancora non si affacciava. Lui sarebbe rimasto là per sempre, e lei non sarebbe mai, mai venuta.
Si alzò in piedi. La punta di gomma di una delle stampelle scivolò sul ghiaccio sotto la panchina, e per poco non cadde. Ritrovò l’equilibrio appoggiandosi sul duro cemento.
Paul strombazzò col clacson e accostò al marciapiede, con i lampeggianti accesi. Uscì dall’auto. «Per l’amor di Dio, i Brubaker saranno già arrivati,» disse. Le prese le stampelle e la trascinò in tutta fretta verso la macchina, sostenendola sotto un’ascella con la mano.
Quando ripartirono, il ragazzo stava ancora là, con lo sguardo alla finestra, in attesa.
I Brubaker erano già arrivati, e aspettavano nel vialetto. Paul la lasciò in auto per andare ad aprire la porta di casa. Il dottor Brubaker le aprì lo sportello e provò ad aiutarla a mettersi sulle stampelle. Geraldine continuava a dire: «Oh, veramente, avremmo capito.» Rimasero entrambi da una parte con l’aria disorientata, mentre Elizabeth entrava in casa zoppicando.
Geraldine si offrì di preparare il caffè, ed Elizabeth la lasciò fare, seduta al tavolo della cucina con ancora la giacca addosso. Paul aveva preparato tazzine, piatti e il vassoio di biscotti prima di uscire di casa.