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«Alla riunione ha detto che le piace Gesù.» disse Elizabeth. «È cristiana?»
Geraldine aveva cominciato ad aprire un filtro del caffè. Si interruppe e fissò Elizabeth negli occhi. «Certo,» rispose. «Lo sono. Vede, Sandy Konkel mi ha detto che una riunione Tuppervvare non era luogo per la religione, e io le ho ribattuto che qualunque posto può essere l’occasione per una testimonianza cristiana. E avevo ragione, perché quella testimonianza le ha parlato, no, Elizabeth?»
«Che succede se si è fatto qualcosa, tanto tempo fa, e si scopre poi che si è rovinato tutto?»
«“Perché riconoscendo il tuo peccato ti sarà possibile liberartene,”» declamò Geraldine, con la caffettiera sotto il rubinetto.
«Non parlo di peccato,» disse Elizabeth. «Parlo delle piccole cose che si pensa non siano troppo importanti, come mettere un piede in una pozzanghera o litigare con qualcuno. Che succede se si parte e si lascia qualcuno in piedi sulla strada perché ci aveva fatto arrabbiare e questo gli cambia per sempre la vita, lo trasforma in un’altra persona? O se si volta le spalle a qualcuno e ci si allontana da lui perché si è feriti nell’animo oppure non si vuole aprire la finestra, e grazie a quest’unica piccola cosa tutte le loro vite sono cambiate e ora lei beve troppo, lui si è suicidato e non ci si rende nemmeno conto di averlo fatto.»
Geraldine aveva aperto la borsetta e ne stava tirando fuori una Bibbia. Si fermò con la Bibbia ancora dentro per metà, con lo sguardo fisso su Elizabeth. «Ha fatto suicidare qualcuno?»
«No,» disse Elizabeth. «Non l’ho fatto suicidare e non l’ho fatta divorziare, ma se quel giorno non mi fossi voltata e allontanata da loro, tutto sarebbe stato diverso.»
«Divorziare?» chiese Geraldine.
«Sandy aveva ragione. Quando si è giovani si pensa solo a se stessi. Io riuscivo solo a pensare a quanto lei fosse più carina di me e quanto fosse il tipo di ragazza che aveva decine di appuntamenti, e quando lui la invitò a uscire, pensavo che in realtà gli fosse sempre piaciuta, e ci soffrivo moltissimo. Buttai via il separauova, e stavo tanto male, ed ecco perché non gli ho voluto parlare quel giorno, ma non sapevo quanto fosse importante! Non sapevo che c’era una pozzanghera là che mi avrebbe trascinato giù nella fogna.»
Geraldine appoggiò la Bibbia sul tavolo. «Non so cosa lei abbia fatto, Elizabeth, ma qualunque cosa sia, Nostro Signore la perdonerà. Vorrei leggerle qualcosa.» Aprì la Bibbia al punto in cui c’era un segnalibro a forma di croce. «“Perché Dio amava così tanto il mondo che rinunciò al suo unico Figlio cosicché chiunque creda in Lui non perirà, ma avrà la vita eterna”. Gesù, l’unico figlio di Dio, è morto sulla croce e resuscitato perché ci fossero perdonati i nostri peccati.»
«E se non fosse resuscitato?» disse Elizabeth spazientita. «E se fosse rimasto lì nella tomba sempre più fredda, fino a ricoprirsi di cristalli di ghiaccio, senza mai sapere se li aveva salvati oppure no?»
«È pronto il caffè?» chiese Paul, entrando in cucina col dottor Brubaker. «O voi donne vi siete messe a chiacchierare e ve ne siete scordate del tutto?»
«E se avessero aspettato che Gesù li salvasse, e avessero aspettato per tutti quegli anni senza che lui lo sapesse? Avrebbe dovuto tentare di salvarli, no? O poteva semplicemente lasciarli là, in piedi e al freddo con lo sguardo verso la sua finestra? E forse non ce l’avrebbe fatta. Forse avrebbero divorziato e si sarebbero suicidati in ogni caso.» Cominciò a battere i denti. «E anche se li avesse salvati, non sarebbe riuscito a salvare se stesso. Perché era troppo tardi. Era già morto.»
Paul girò intorno al tavolo verso di lei. Geraldine stava sfogliando la Bibbia, alla frenetica ricerca del versetto adatto alla situazione. Paul prese il braccio di Elizabeth, ma lei si divincolò, insofferente. «In Matteo vediamo che fu resuscitato dai morti e oggi è vivo. Proprio adesso,» disse Geraldine, con la voce spaventata. «E qualunque sia il peccato che lei serba nel cuore, Lui la perdonerà se lo accetta come suo personale Salvatore.»
Elizabeth sbatté un pugno sul tavolo con tanta forza che il vassoio dei biscotti tremò. «Non parlo di peccato. Parlo di aprire una finestra. Lei ha messo un piede nella pozzanghera e il verme è stato trascinato giù nella fogna ed è affogato. Non avrei dovuto lasciarlo sul marciapiede.» Diede un altro pugno al tavolo. Il dottor Brubaker prese la pila di tazzine da caffè e le poggiò sul ripiano, come se temesse che lei avrebbe potuto cominciare a scagliarle contro il muro. «Avrei dovuto metterlo nell’erba.»
Paul se ne andò al lavoro senza nemmeno fare colazione. La caviglia di Elizabeth si era gonfiata così tanto che quasi non riusciva a infilarsi le pantofole, ma si alzò lo stesso e preparò il caffè. I filtri erano ancora sul ripiano dove li aveva lasciati Geraldine Brubaker.
«Non ti bastava aver perso l’occasione di trovare lavoro, dovevi mettere nei guai anche me?»
«Mi dispiace per ieri sera,» disse. «Riempio oggi il modulo di richiesta per il lavoro e lo porto al campus. Quando la caviglia guarirà…»
«Dovrebbe essere caldo oggi,» disse Paul. «Ho spento la caldaia.»
Quando se ne fu andato, compilò la richiesta. Tentò di cancellare la macchia scura lasciata dal verme, ma non veniva via, e c’era un quesito che non riusciva a leggere. Le dita le si erano irrigidite per il freddo, e dovette fermarsi parecchie volte per alitarci sopra, riempiendo comunque tutte le domande che poté, poi piegò il foglio e lo portò al campus.
La ragazza con l’impermeabile giallo se ne stava alla fine del viale, e parlava con una ragazza che indossava l’uniforme degli Angel Flight. Zoppicò nella loro direzione a testa bassa, affrettando il passo, con il suono della bicicletta di Tupper nelle orecchie.
«Mi ha chiesto di te,» disse Tib, ed Elizabeth alzò gli occhi.
Non era affatto simile a come se la ricordava. Era leggermente sovrappeso e non tanto carina, il tipo di ragazza che non sarebbe riuscita a farsi invitare al ballo. I capelli corti facevano sembrare ancora più cicciottella la faccia rotonda. Sembrava speranzosa e un po’ preoccupata.
Non ti preoccupare, pensò Elizabeth. Sono qui. Non guardò se stessa. Si concentrò nel tentativo di raggiungerli al momento giusto.
«Gli ho detto che stavi alla casa degli Alpha Phi.» disse Tib.
«Oh,» sentì la sua stessa voce, e sotto di essa il ronzio di una bicicletta.
«Esco con questo tipo del CAUR. È assolutamente fantastico!»
Ci fu una pausa, poi la voce di Elizabeth disse: «Grazie tante,» ed Elizabeth si appoggiò con la punta di gomma della stampella contro una lastra di ghiaccio e cadde in terra.
Per un minuto fu accecata dal dolore. Si è rotta, pensò, e strinse i pugni per trattenere le urla.
«Tutto bene?» chiese Tib, inginocchiandosi davanti a lei e coprendole del tutto la vista. No, non tu! Non tu! Per un minuto ebbe paura che non avesse funzionato, che la ragazza si fosse voltata e se ne fosse andata. Ma d’altra parte, quella non era una sconosciuta ma solo se stessa, troppo buona per lasciare affogare un verme. Aveva solo girato dietro ad Elizabeth, da dove non la poteva vedere. «Se l’è rotta?» disse. «Non so, devo chiamare un ambulanza?»
No. «No,» disse Elizabeth. «Va tutto bene. Dovreste solo aiutarmi a rimettermi in piedi.»
La ragazza che era stata Elizabeth Wilson poggiò i libri sulla panchina di cemento, si avvicinò e si inginocchiò vicino ad Elizabeth. «Spero che non crolliamo l’una sull’altra,» disse, e le sorrise. Era carina. Non lo sapevo nemmeno io, pensò Elizabeth, nemmeno quando me lo disse Tupper. Le afferrò un braccio mentre Tib la sostenne dall’altra parte.
«Vedo che avete fatto inciampare di nuovo dei passanti innocenti. Quante volte vi ho detto di non farlo?» Finalmente ecco Tupper. Aveva appoggiato la bici nell’erba e aveva lasciato la busta di Tupperware lì vicino.
Tib e la ragazza che era stata lei stessa la lasciarono e si fecero da parte, e lui le si inginocchiò vicino. «Non sono cattive, davvero. Sono solo un po’ mattacchione. Ma con le bucce di banana siete andate troppo in là, ragazze,» disse, tanto vicino a lei che poteva sentirne l’alito sulla guancia. Si girò per guardarlo, temendo all’improvviso che anche lui potesse essere diverso, ma era solo Tupper, che aveva amato per tutti quegli anni. La cinse con un braccio. «Adesso deve solo mettermi il braccio intorno al collo, tesoro. Ecco, così. Elizabeth, vieni qui e fai ammenda dei tuoi peccati aiutando questa bella signora ad alzarsi.»
Lei aveva già raccolto i libri e se li teneva stretti al petto, con l’aria di chi è arrabbiato e non vede l’ora di andarsene. Guardò Tib, ma Tib stava raccogliendo le stampelle, con la schiena curva sui tacchi alti perché la gonna stretta degli Angel Flight le impediva di piegarsi.
Rimise di nuovo i libri in terra e si spostò dall’altro lato di Elizabeth per sostenerle il braccio, e invece Elizabeth le afferrò la mano e la strinse forte in modo che non se ne andasse. «L’ho portata al ballo perché mi aveva aiutato con la riunione Tupperware. Le ho detto che le dovevo un favore,» spiegò lui, ed Elizabeth si voltò a guardarlo.
Ma lui in effetti non la stava guardando. Guardava oltre, in direzione dell’altra Elizabeth, quella che non rispondeva al telefono, non andava alla finestra, ma sembrava che guardasse proprio lei, e su quel viso giovane ancora vivo nel suo ricordo c’era l’espressione di un amore così nudo e vulnerabile che la colpì con la violenza di un pugno.
«Te l’avevo detto,» disse Tib. Appoggiò le stampelle contro la panchina.
«Sono sicura che alla signora non interessano certe faccende,» disse Elizabeth.
«Te l’avrei spiegato alla festa, ma quell’idiota di Sharon Oberhausen…»
Tib le portò le stampelle. «Dopo averglielo chiesto, mi sono domandata: “E se pensasse che sto provando a portarle via il ragazzo?” e mi sono preoccupata così tanto che avevo paura di dirtelo. Davvero, gli ho chiesto di portarmici solo per non essere di servizio durante il fine settimana. Cioè, non è che lui mi piaccia o cose del genere.»
Tupper fece un sorrisetto a Elizabeth. «Provo a pagare i miei debiti, e questo è il modo in cui vengo ringraziato. Lei non si arrabbierebbe con me se portassi la sua compagna di stanza a un ballo, no?»
«Forse sì,» rispose Elizabeth. Sentiva freddo, seduta lì sul cemento. Stava cominciando a tremare. «Ma ti perdonerei.»
«Vedi?» disse.
«Capisco,» disse Elizabeth disgustata, ma gli stava sorridendo. «Non credi che dovremmo togliere questa passante innocente dal marciapiede prima che muoia assiderata?»
«Op-là, tesoro,» fece Tupper, e con un agile movimento la alzò e la mise a sedere sulla panchina di pietra.
«Grazie,» disse lei. Batteva i denti dal freddo.
Tupper le si inginocchiò davanti ed esaminò la caviglia.
«Mi sembra bella gonfia,» disse. «Vuole che chiamiamo qualcuno?»