123096.fb2 Gli ondifagi - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 4

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La voce si sparse talmente bene che quando il professore cominciò a parlare Carnegie Hall era piena da scoppiare. Quasi subito fu piazzato un sistema di altoparlanti cosicché anche la gente fuori potesse sentire. All’una del mattino le strade per molli isolati intorno erano stracolme.

Non c’era un solo sponsor sulla faccia della Terza con un milione di dollari da spendere che non avrebbe versato con gioia sull’unghia quel milione di dollari per il privilegio di sponsorizzare quella conferenza alla radio o alla televisione; ma la conferenza non venne né tele, né radiotrasmessa. Entrambi i canali erano occupati.

— Qualche domanda? — chiese il professor Helmetz.

Un cronista in prima fila precedette i colleghi. — Professore, — domandò, — tutte le stazioni di rilevamento direzionale sulla Terra hanno confermato ciò che lei ci ha detto, del cambiamento di questo pomeriggio?

— Sì, in modo assoluto. A mezzogiorno, circa, tutte le indicazioni direzionali hanno incominciato a indebolirsi. Alle 14 e 45, ora locale orientale, sono cessate del tutto. Fino a quel momento le onde radio provenienti dal cielo, che cambiavano direzione con andamento costante in dipendenza della rotazione della Terra, mostravano sempre d’irradiarsi tutte da un punto nella costellazione del Leone.

— Quale stella del Leone?

— Nessuna stella che sia visibile nelle nostre mappe. O giungevano da un punto nello spazio, o da una stella troppo debole per i nostri telescopi.

— Ma dalle 14 e 45 di oggi, o meglio di ieri poiché mezzanotte è già passata, tutti i rilevatori di direzione hanno taciuto. Ma i segnali sono rimasti, provenendo adesso da tutte le direzioni con uguale intensità. Gli invasori erano arrivati tutti.

— Non si possono trarre conclusioni diverse. Ora la Terra è circondata, completamente avvolta e oscurata da onde di tipo radio che non hanno nessun preciso punto di origine, ma viaggiano incessanti attorno alla Terra in tutte le direzioni, cambiando forma a volontà… una forma che per il momento è ancora un’imitazione dei segnali di origine terrestre che hanno attratto la loro attenzione, conducendoli qui.

— Lei pensa che siano venuti da una stella che noi non possiamo vedere, oppure la loro origine può essere davvero stata un punto nello spazio?

— Probabilmente un punto nello spazio. E perché no? Non sono creature fatte di materia. Se fossero giunti fin qui da una stella, dovrebbe trattarsi di una stella assai fioca per essere invisibile a noi, dal momento che dovrebbe trovarsi piuttosto vicina alla Terra, a soli ventotto anni-luce di distanza, il che non è molto in termini di distanze stellari.

— Come fa a conoscere la distanza?

— Partendo dalla premessa — ed è una premessa ragionevole — che si siano messi in viaggio quando hanno captato per la prima volta i nostri segnali radio: le S trasmesse da Marconi cinquantasei anni fa. Dal momento che è stata quella la forma assunta dai primi arrivati, abbiamo supposto che si siano messi in viaggio verso di noi non appena hanno intercettato quei segnali. Poiché i segnali di Marconi hanno viaggiato alla velocità della luce, devono aver raggiunto un punto distante da noi ventotto anni-luce, ventotto anni fa. Gli invasori, viaggiando anch’essi alla velocità della luce, dovrebbero aver impiegato un ugual tempo a raggiungerci.

— Come ci si poteva aspettare, i primi arrivati hanno preso soltanto la forma del codice Morse. I successivi hanno preso la forma di altre onde incontrate, superate — o forse assorbite — durante il percorso verso la Terra. Ora stanno vagando intorno alla Terra, frammenti di programmi trasmessi fino a pochissimi giorni fa. Non c’è dubbio, infatti, che debbano esserci frammenti anche degli ultimissimi programmi trasmessi, anche se non sono stati ancora identificati.

— Professore, ci saprebbe descrivere uno di questi invasori?

— Quanto potrei descrivere un’onda radio, non più. In effetti, sono radioonde, anche se non s’irraggiano da nessuna stazione trasmittente. Sono una forma di vita che è legata al movimento delle onde, come la nostra forma di vita è legata alle vibrazioni della materia.

— Sono di differenti dimensioni?

— Sì, nei due significati della parola dimensione. Le onde radio vengono misurate da cresta a cresta, misura nota come lunghezza d’onda. Dal momento che gli invasori coprono l’intera banda dei nostri apparecchi radiofonici e televisivi, è ovvio che entrambe le cose sono vere: o esistono in tutte le dimensioni possibili, misurate dalla distanza da cresta a cresta, oppure ognuno di essi può variare la propria dimensione da cresta a cresta per adattarsi alla sintonizzazione di qualunque ricevitore.

— Ma questa è soltanto la distanza da cresta a cresta. In un certo senso si può dire che un’onda radio ha anche una lunghezza complessiva determinata dalla sua durata. Se una stazione trasmette un programma della durata, diciamo, d’un secondo, un’onda che porti quel programma sarà lunga un secondo-luce, press’a poco trecentomila chilometri. Un programma della durata ininterrotta di mezz’ora costituirà un’onda continua di mezz’ora-luce. E così via.

— In base dunque alla lunghezza complessiva, i singoli invasori variano da poche migliaia di chilometri — della durata d’una piccola frazione di secondo — a quasi un milione di chilometri — della durata di parecchi secondi. Il più lungo frammento di programma finora captato è stato di sette secondi.

— Ma, professor Helmetz, come mai suppone che queste onde siano creature viventi, una forma di vita? Perché non potrebbero essere soltanto onde?

— Perché, le “soltanto onde”, come lei le chiama, seguirebbero certe leggi, proprio come la materia inanimata segue certe leggi. Ad esempio, un animale può arrampicarsi in salita; una pietra non può farlo, a meno che non vi sia costretta da qualche forza esterna. Questi invasori sono forme di vita poiché mostrano una propria volontà, poiché possono cambiare direzione, e in modo ancora più specifico perché conservano la propria identità; due di quei segnali non sono mai entrati in conflitto nello stesso ricevitore radio. Sì succedono l’uno all’altro ma non arrivano mai simultaneamente. Non si mescolano mai, come fanno di solito i segnali sulla stessa lunghezza d’onda. Non sono “soltanto onde”.

— Direbbe che sono intelligenti?

Il professor Helmetz si tolse gli occhiali e pulì le lenti soprappensiero. Disse: — Non lo sapremo mai. L’intelligenza di simili esseri, sempre che esista, si troverebbe su un piano così diverso dal nostro da escludere un qualunque punto in comune dal quale iniziare un contatto. Noi siamo materiali; essi sono immateriali. Non c’è alcun terreno comune fra noi.

— Ma se fossero intelligenti anche soltanto un po’…

— Le formiche sono intelligenti, in un certo qual modo. Lo chiami istinto, se vuole, ma l’istinto è una forma d’intelligenza; almeno, consente alle formiche di compiere alcune fra le cose che l’intelligenza consentirebbe. Eppure, non possiamo comunicare con le formiche ed è assai meno probabile che riusciamo a comunicare con questi invasori. La differenza che esiste fra l’intelligenza delle formiche e la nostra non è niente al confronto di quella tra noi e gli invasori, sempre che questi abbiano una qualche forma d’intelligenza. No, dubito molto che si riesca mai a comunicare.

Il professore aveva visto giusto. La comunicazione coi vasori — una forma abbreviata per invasori, ovviamente — non fu mai stabilita.

In quella stessa giornata le azioni delle compagnie radiofoniche si stabilizzarono in borsa. Il giorno successivo, però, qualcuno ebbe la bella idea di porre al professor Helmetz la domanda da un milione di dollari (e i giornali si affrettarono a pubblicarla, insieme alla risposta):

— Riprendere le trasmissioni? Non so se lo faremo mai più. Certo non sarà possibile finché gli invasori non se ne saranno andati, e perché mai dovrebbero farlo? A meno che gli abitanti di qualche altro lontano pianeta, non comincino anche loro le trasmissioni radio, e gli invasori non ne vengano attratti.

— Ma anche così, qualcuno di loro tornerebbe subito qui da noi nel momento stesso in cui ricominciassimo a trasmettere.

Nel giro di un’ora le azioni radio e televisive precipitarono a zero a tutti gli effetti pratici. Tuttavia non ci furono scene frenetiche in borsa; non ci furono vendite frenetiche poiché nessuno comperava, né con frenesia né senza. Nessuna azione di queste compagnie cambiò di mano.

Impiegati e intrattenitori della radio e della televisione cominciarono a cercarsi altri lavori. Gli intrattenitori non ebbero nessun problema: qualunque altra forma d’intrattenimento conobbe un’esplosione folle.

— Due a zero, — disse George Bailey. Il barista gli chiese cosa intendesse dire.

— Non lo so, Hank. È soltanto un’intuizione che mi è venuta.

— Che genere d’intuizione?

— Non so neppure questo. Su preparamene un altro, e poi me ne andrò a casa.

Lo shaker elettrico non voleva funzionare e Hank dovette preparare il cocktail a mano.

— Buon esercizio. È proprio quello che ti ci vuole, — commentò George. — Ti farà perdere un po’ di grasso.

Hank grugnì e il ghiaccio tintinnò allegro quando inclinò lo shaker per versare la bevanda.

George Bailey lo trangugiò lentamente, poi usci fuori nel bel mezzo di un rovescio d’aprile. Si fermò sotto il tendone del bar e cercò un tassì con lo sguardo. Accanto a lui c’era un vecchio.

— Che tempaccio, — disse George.

Il vecchio lo fissò sogghignando. — Se n’é accorto, vero?

— Uh? Accorto di che?

— Osservi, osservi, signor mio. Osservi un po’.

Il vecchio proseguì per la sua strada. Poiché nessun tassì vuoto si decideva a comparire, George rimase lì per un bel po’ prima di rendersene conto. Aprì a metà la bocca per la sorpresa, la chiuse e rientrò nel bar. S’infilò nella cabina telefonica e chiamò Pete Mulvaney.

Prima di riuscire a collegarsi con quello di Pete, gli risposero tre numeri sbagliati.

La voce di Pete fece: — Sì?

— George Bailey, Pete. Senti, hai osservato il tempo?

— Dannazione, sì, certo. Niente lampi. E dovrebbero essercene, con un temporale come questo.

— Cosa significa questo, Pete? I vasori?