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— Flauto? Siamo a corto di flauti. Portalo con te, e Sid Perkins, il nostro direttore, finirà per sequestrarti perché tu rimanga fino al concerto di domenica… e mancano soltanto tre giorni, così, perché no? Dai, tiralo fuori adesso: suoneremo qualche vecchio motivo per scaldarci. Ehi, Maisie, lascia perdere quei piatti e mettiti al piano!
Mentre Pete Mulvaney andava nella stanza degli ospiti a tirar fuori il flauto dalla valigetta, George Bailey prese la cornetta che era appoggiata sul pianoforte e provò un paio di frasi svolazzanti in tono minore. Limpido come una campana: stasera aveva il labbro in piena forma.
E stringendo in mano lo squillante strumento si avvicinò alla finestra, sostando lì accanto a rimirare la notte. Ormai le ultime luci del crepuscolo sfumavano nel buio profondo e la pioggia era cessata.
Udì il clop clop scandito da un cavallo che passava là sotto, poi il campanello d’una bicicletta. Qualcuno sul lato opposto della strada stava strimpellando con una chitarra e cantava. George inspirò a fondo, poi esalò un lungo sospiro.
Il profumo della primavera era dolce e delicato nell’aria umida.
La profonda pace della sera.
Il borbottio lontano di un tuono.
Dannazione, pensò George, se soltanto lampeggiasse un po’.
Sentiva la mancanza dei lampi.