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Lei era d’accordo. Aveva provato la sua stessa certezza. Ma non riusciva a condividere il suo compiacimento. Dopo una vita spesa nella speranza perché nient’altro era concesso, si perdeva il gusto della vittoria. Un vero senso di trionfo dev’essere preceduto da vera disperazione. E lei aveva disimparato a disperare tanto tempo prima. Il trionfo non era più possibile. Si tirava avanti.
— Oggi facciamo quelle lettere?
— Va bene. Quali lettere?
— Per quelli del nord — disse con pazienza Noi.
— Quelli del nord?
— Parheo, Oaidun.
Lei era nata a Parheo, città sporca su quel suo fiume sporco. Non era venuta alla capitale che a ventidue anni, quando si era sentita pronta per portare la rivoluzione, sebbene allora, prima che lei e gli altri la rimeditassero, la loro rivoluzione fosse molto acerba e puerile. Scioperi per migliorare i salari, per far entrare in parlamento una rappresentanza femminile. Voti e salari: potere e denaro, per amor di Dio! Be’, dopotutto, in cinquant’anni qualcosa si impara!
E poi si ridimentica tutto.
— Incomincia con Oaidun — disse, sedendosi nella poltrona. Noi era alla scrivania, pronto per il lavoro. Lesse brani dalle lettere che aspettavano la risposta di Laia. Lei cercò di essere attenta, e ci riuscì abbastanza bene da dettare una lettera intera e iniziarne un’altra. — Ricorda che a questo stadio il tuo sentimento di fratellanza può essere messo in forse da… no, in pericolo… da… — Annaspò con le parole fino a quando Noi le suggerì: — Il pericolo del culto della personalità?
— Bene. E che niente si lascia corrompere dalla brama del potere quanto l’altruismo… No. E che niente corrompe l’altruismo… No. Oh, per amor di Dio, tu sai quello che intendo dire: scrivilo tu. Anche loro, lo sanno. Sono sempre le stesse cose. Ma perché non se le leggono nei miei libri!
— Restare in contatto — disse Noi con gentilezza, citando uno dei temi centrali della filosofia odoniana.
— D’accordo, ma io sono stanca di essere in contatto. Se tu scrivi la lettera io la firmo, ma questa mattina non ho voglia di occuparmene. — Noi la guardava con un’espressione leggermente interrogativa o preoccupata. Laia disse, con irritazione: — Ho altro da fare!
Quando Noi se ne fu andato Laia si sedette alla scrivania e mosse le carte come per lavorare, perché si era sorpresa — spaventata — per le parole che aveva pronunciato. Non sapeva fare altro. Non aveva mai fatto altro. Era quello il suo lavoro: il lavoro della sua vita. I viaggi di propaganda e le riunioni e la piazza erano ormai fuori dalla sua portata; ma poteva sempre scrivere, e questo era il suo lavoro. E comunque, se lei avesse avuto altro da fare Noi l’avrebbe saputo: teneva in ordine l’agenda e le ricordava con tatto certe cose, come ad esempio la visita degli studenti stranieri proprio quel pomeriggio.
Oh, accidenti! I giovani le piacevano, e da uno straniero s’imparava sempre qualche cosa, ma adesso era stanca di facce nuove e di stare in mostra. Lei imparava dagli stranieri, ma gli stranieri non imparavano da lei: tutto quello che aveva da insegnare l’avevano imparato tanto tempo prima, dai suoi libri e dal Movimento. Venivano soltanto a guardare, come se lei fosse stata la grande torre di Rodarred o il canyon di Tulaevea. Un fenomeno, un monumento. Osservavano con timore mistico, adorante. Parlava loro con violenza: «Siate voi a pensare senza farvi dare l’imbeccata!». «Questo non è anarchismo, ma puro e semplice oscurantismo». «Non penserete mica che libertà e disciplina siano incompatibili, vero?». E quelli accoglievano le staffilate docili come agnellini, riconoscenti, come se lei fosse stata una dea-madre, l’idolo del grembo universale. Proprio lei! Lei che aveva minato i cantieri navali di Seissero e che aveva insultato il presidente del consiglio Inoilte di fronte a settemila persone, quando gli aveva detto che se mai avesse pensato di trarne un utile si sarebbe tagliato da sé i testicoli, li avrebbe fatti laminare in bronzo e poi li avrebbe venduti come ricordini; lei che aveva urlato, imprecato, preso a calci poliziotti e sputato contro preti, e che aveva orinato in pubblico in piazza del Campidoglio sulla grande targa di ottone che diceva QUI FU FONDATO LO STATO SOVRANO DELLA NAZIONE DI A-IO (ecc. ecc.)! Pppuuuhhh a tutto questo! E adesso era la nonnina di tutti, la cara vecchietta, il buon vecchio monumento, venite ad adorarne il grembo. Il fuoco s’è spento, ragazzi: fatevi appresso, non c’è più pericolo.
— No — disse ad alta voce. — Non ci sarò -. Non si spaventava di parlare da sola, perché l’aveva sempre fatto. «Il pubblico invisibile di Laia», lo chiamava Taviri, mentre lei andava in giro per la stanza borbottando. — Non c’è bisogno che veniate, io non ci sarò — disse al suo pubblico invisibile. Aveva appena deciso cosa fare. Se ne sarebbe uscita. Per le strade.
Era irriguardoso deludere studenti stranieri. Era una stramberia tipica della senilità. Era molto poco odoniano. Pppuuuhhh a tutto questo! Che senso c’era a lottare tutta la vita per la libertà e poi finire col non averne neanche un briciolo? Se ne sarebbe uscita a fare una passeggiata.
«Che cos’è un anarchico? Colui che per scelta accetta la responsabilità della scelta».
Stava scendendo le scale quando decise, riluttante, di restare e ricevere gli studenti stranieri. Sarebbe uscita dopo.
Erano giovanissimi, serissimi, con occhi di cerbiatto, irsuti, affascinanti: venivano dall’emisfero occidentale, dal Benbili e dal regno di Mand. Le ragazze indossavano pantaloni bianchi, i ragazzi gonnellini lunghi, marziali e arcaici. Parlavano delle loro attese. — In Mand siamo così lontani dalla rivoluzione che forse ci siamo vicini — disse una delle ragazze con assorta malinconìa, sorridendo: — Il cerchio dell’esistenza! — E mostrò l’incontrarsi degli estremi nel cerchio delle dita esili e brune. Amai e Aevi servirono loro vino bianco e pane nero, l’ospitalità della casa. Ma i visitatori con molta modestia si alzarono tutti per prendere congedo dopo non più di mezz’ora. — No, no, no — disse Laia, — restate, parlate con Aevi e Amai. È solo che se sto seduta m’indolenzisco tutta, capite, e devo muovermi un po’. Mi ha fatto molto bene incontrarvi. Fratellini e sorelline, tornerete presto a trovarmi? — Il suo cuore era con loro, e il loro con lei; e prima di ritirarsi li salutò tutti con un bacio, ridendo, piena di gioia per quelle giovani guance brune, quegli occhi affettuosi, quei capelli profumati. Era davvero un po’ stanca, ma andarsene di sopra a fare un sonnellino sarebbe stato un riconoscersi sconfitta. Prima aveva avuto l’intenzione di uscire. E sarebbe uscita. Non usciva da sola da… da quando? Dalla fine dell’inverno, prima del colpo. Non c’era da stupirsi che fosse un po’ strana. Proprio come essere stata in prigione. Fuori, in strada: il suo mondo era quello.
Uscì tranquilla dalla porta laterale, superò l’aiuola verde, e giunse in strada. Quella sottile striscia di acre terra cittadina era stata coltivata magnificamente e mostrava una buona messe di fagioli e ceëa, ma Laia non s’interessava alle coltivazioni. Certo, era apparso chiaro che le comunità anarchiche, anche durante i periodi di transizione, avrebbero dovuto operare in direzione di un’autosufficienza ideale, ma in che modo questa si dovesse ottenere in termini reali di terreno e di piante non era affar suo. C’erano contadini e agronomi, per questo. Affar suo erano invece le strade, le strade rumorose e puzzolenti, i selciati dove lei era cresciuta e dove aveva vissuto l’intera vita con l’eccezione di quei quindici anni di carcere.
Guardò con affetto la facciata della casa. Il fatto che fosse stata costruita per essere una banca dava agli abitanti attuali un piacere tutto particolare. Conservavano i sacchi di farina integrale nelle camere blindate, e ottenevano la stagionatura del sidro in barilotti collocati nelle cassette di sicurezza. Al disopra delle impeccabili colonne sul fronte della strada si leggeva ancora la scritta: Associazione Bancaria Nazionale per l’Agricoltura. Il Movimento non era particolarmente versato per le denominazioni. Non aveva una bandiera. Gli slogan andavano e venivano secondo necessità. C’era sempre il «cerchio dell’esistenza» da tracciare sui muri e sui marciapiedi dove le autorità l’avrebbero visto. Ma quando si trattava di denominare qualcosa si ritrovavano indifferenti, e accettavano oppure ignoravano i nomi in cui si imbattevano, per paura di essere vincolati e costretti e senza temere di essere contraddittori. E così quella casa cooperativa, prima per notorietà e seconda per vecchiaia, non aveva altro nome che «la banca».
Fronteggiava una strada spaziosa e tranquilla; ma a un isolato di distanza aveva inizio la Temeba, un mercato all’aperto, un tempo famoso come borsanera di sostanze psicogene e teratogene e ora ridotto a mercato di frutta e verdura e di vestiti di seconda mano, e a miserando luogo di avvenimenti secondari. La sua vitalità crapulona era sparita, lasciando dietro di sé soltanto alcolizzati semiparalitici, drogati, storpi, ambulanti, bagasce da mezza tariffa, banchi di pegno, bische volanti, indovini, scultori del corpo e alberghetti infimi. Laia ritornava a Temeba come l’acqua alla sua condizione di equilibrio.
Non aveva mai temuto né disprezzato la città. Era la sua patria. Non ci sarebbero più stati bassifondi come quelli quando la rivoluzione avesse vinto. Ma sarebbe rimasta la miseria. Ci sarebbero stati miseria, spreco, crudeltà. Lei non aveva mai preteso di cambiare la condizione umana, di essere la mammina che si porta via tutte le durezze della vita dei suoi piccoli perché non si facciano più male. Tutto ma non questo. Purché la gente fosse libera di scegliere, non era affar suo se poi viveva in cloache e beveva insetticida. Purché questo non fosse affare degli Affari, fonte di profitto e mezzo di potere per altri. Cose, queste, che aveva intuito assai prima di sapere qualcosa di preciso. Prima di scrivere il suo primo libello, prima di lasciare Parheo, prima di conoscere il significato di «capitale», prima di oltrepassare i confini di via del Fiume dove giocava con gli altri bambini di sei anni posando per terra le ginocchia piene di croste, sapeva già tutto questo: che lei e gli altri bambini e i suoi genitori e i loro genitori e gli ubriaconi e le prostitute e tutta le gente di via del Fiume stavano al fondo di qualcosa, erano le fondamenta, la realtà, la sorgente. Ma nessuno di coloro che si ritenevano fatti di materiale più nobile del fango era disposto a capire. Ora Laia, acqua in cerca della condizione di equilibrio, fango nel fango, avanzava stancamente lungo la strada sporca e rumorosa, e tutta la sconcia debolezza della sua vecchiaia si sentiva a proprio agio. Le sonnacchiose prostitute con la pettinatura laccata che stava tutta di sghimbescio ed era sul punto di sfasciarsi, la vecchia guercia che strillava stancamente i nomi delle sue verdure, il mendicante idiota intento a cacciar via le mosche a schiaffi: erano questi i suoi concittadini. Le assomigliavano, nella loro tristezza, nella loro ripugnanza, pochezza, spregevolezza, oscenità. Erano i suoi fratelli, la sua gente.
Non si sentiva molto bene. Da tanto tempo non si avventurava così lontano — quattro o cinque isolati — da sola, nel rumore e nella calca e sotto il cocente sole dell’estate. Aveva avuto l’intenzione di andare al parco Koly, quel triangolo di erba miseranda al fondo della Temeba, e sedersi per un momento con gli altri uomini e le altre donne che ci andavano ogni giorno, per capire cosa significava starsene seduti là e essere vecchi: ma era troppo lontano. Se non fosse tornata indietro ora, magari l’avrebbe presa un’ondata di capogiro; e aveva una gran paura di cadere, cadere e dover stare a guardare la gente che si avvicinava a osservare una vecchia in preda alle convulsioni. Fece dietrofront e si avviò verso casa, con i segni della fatica e del disgusto di sé visibili sul volto, che sentiva accaldato. Avvertì negli orecchi un ronzio, che cessò subito. Era stato piuttosto intenso, e lei temette davvero di andare a gambe all’aria. Nell’ombra scorse un gradino: vi si diresse, si lasciò cadere giù a poco a poco, si sedette, ed emise un sospiro.
Un fruttivendolo lì vicino sedeva in silenzio dietro la sua mercanzia impolverata e avvizzita. La gente passava. Nessuno comprava. Nessuno la guardava. Odo: chi era? La famosa rivoluzionaria, l’autrice di Comunità, Analogia, eccetera. E chi era? Una vecchia dai capelli grigi e dal volto arrossato, seduta sulla lurida soglia di un tugurio, che biascicava parole fra sé e sé.
Era vero? Era ciò che lei era? Senz’altro era ciò che qualunque passante vedeva. Ma lei, proprio lei, era più di quello che la famosa rivoluzionaria eccetera era stata? No. Non era di più. Ma allora chi era?
La donna che aveva amato Taviri.
Sì. Abbastanza vero. Ma non abbastanza. Quella era cosa finita. Taviri era morto da così tanto tempo!
— Chi sono? — borbottò Laia al suo pubblico invisibile, che sapeva rispondere alla sua domanda e le rispose all’unisono. Lei era la ragazzina con le ginocchia piene di croste, seduta sulla soglia a guardare nella foschia sporca e dorata di via del Fiume, sotto il sole di una tarda estate; la bambina di sei anni, la ragazza di sedici, fiera, irascibile, con la testa piena di sogni, indifferente, irraggiungibile. Lei era se stessa. Sì, era stata l’indefessa lavoratrice e pensatrice, ma un grumo di sangue in una vena le aveva sottratto quella donna. Sì, era stata l’amante, colei che si apriva una strada nella vita, ma Taviri morendo le aveva sottratto quella donna. Niente era rimasto, in realtà, se non le fondamenta. Era tornata: non se n’era andata mai. «Il vero viaggio è il ritorno». Polvere e fango e la soglia di un tugurio. E oltre, in fondo alla strada, quel campo pieno di erbe alte e secche sotto il soffio del vento al crepuscolo.
— Laia! Ma cosa fai, qui? Stai bene?
Uno degli abitanti della Casa, naturalmente: una brava donna, un po’ fanatica e un po’ ciarliera. Laia non ne ricordava il nome sebbene la conoscesse da anni. Lasciò che la riportasse a casa, e lasciò che parlasse per tutta la strada. Nel grande salone (un tempo occupato da cassieri intenti a contare il denaro dietro i banconi lucenti sotto lo sguardo di guardie armate) Laia si sedette su una sedia. Non se la sentiva proprio, almeno per il momento, di salire le scale, sebbene preferisse starsene sola. La donna continuava a parlare, e altri entravano eccitati nella sala. Sembrava che stessero programmando una dimostrazione. Gli eventi, a Thu, procedevano così rapidi che anche lì gli animi si erano infuocati, e bisognava fare qualcosa. Dopodomani — no, domani — ci sarebbe stata una marcia, una grande marcia, dalla città vecchia alla piazza del Campidoglio, lungo il vecchio itinerario.
— Un’altra Rivolta del nono mese — disse un giovane, infiammato e ridente, guardando Laia. Al tempo della Rivolta del nono mese non era nemmeno nato, per lui era soltanto storia. Ora voleva fare anche lui la sua piccola parte di storia. La sala si era riempita. Vi si sarebbe tenuta un’assemblea generale l’indomani alle otto del mattino. — Laia, dovrai parlare.
— Domani? Oh, domani io non ci sarò — disse brusca. Quello che aveva parlato sorrise e qualcun altro rise; Amai la fissò con aria interrogativa. Parlarono ancora e alzarono la voce. La rivoluzione. Ma cosa diavolo l’aveva fatta parlare così? Ma era una cosa da dire alla vigilia della rivoluzione, anche se fosse stata vera?
Aspettò di risentirsi in forze, riuscì a rimettersi in piedi, e malgrado la goffaggine sgusciò via non vista tra la gente eccitata e prese a salire i gradini a uno a uno. Nella stanza sotto di lei, alle sue spalle, una, due, dieci voci stavano dicendo «sciopero generale». — Sciopero generale — biascicò Laia, prendendo fiato sul pianerottolo. Sopra, davanti a lei, nella sua stanza, cosa l’aspettava? Il suo colpo apoplettico privato. Piuttosto buffo. Iniziò a salire la seconda rampa, un gradino alla volta, una gamba alla volta, come una bambina di due anni. Aveva il capogiro, ma non aveva più paura di cadere. Davanti a lei, laggiù, i fiorellini bianchi e secchi dondolavano le corolle e sussurravano nei vasti campi della sera. Settantadue anni e non aveva mai avuto il tempo d'impararne il nome.