123633.fb2 Il mantello e il bastone - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 4

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A Shane nessuno aveva mai detto che aveva il favore di Lyt Ahn. Aveva semplicemente sentito, una volta, Lyt Ahn dire al suo capo di stato maggiore che doveva decidersi a estendere il suo favore a tutte le bestie del gruppo speciale al quale apparteneva Shane. Se Laa Ehon avesse chiesto conferma a Lyt Ahn, e questo non era mai stato fatto, allora Shane sarebbe stato spacciato perché aveva dimostrato d’essere una bestia bugiarda e indegna di fiducia. Anche se il favore era stato concesso, Lyt Ahn avrebbe potuto chiedere come mai Shane ne era venuto a conoscenza.

D’altra parte poteva darsi che il Primo Capitano, preso com’era dagli impegni importanti del governo, concludesse semplicemente che doveva averlo detto a Shane, a un certo momento, e poi l’aveva dimenticato. Rivendicarlo adesso era uno dei rischi quotidiani necessari all’esistenza umana in mezzo agli alieni.

— Dagli la ricevuta — disse Laa Ehon.

Otah On consegnò a Shane la ricevuta dei dispacci, preparata un attimo prima dall’ufficiale di servizio. Shane la mise nella borsa.

— Torni direttamente da Lyt Ahn? — disse Laa Ehon.

— Si, immacolato signore.

— I miei ossequi al Primo Capitano.

— Sarà fatto.

— Puoi andare.

Shane si voltò e uscì. Quando la porta si chiuse dietro di lui, trasse un profondo respiro e scese in fretta la scala, fino all’ingresso.

— Torno alla residenza del Primo Capitano — disse all’ufficiale delle Guardie Ordinarie in servizio all’entrata. Era l’uomo che parlava l’italiano con accento arabo. — Vuol prenotarmi il posto sull’aereo? Ho la precedenza, naturalmente.

— È già stato provveduto — disse l’ufficiale. — Viaggerà con uno dei Padroni in servizio di corriere su un piccolo aereo militare che parte fra due ore. Devo ordinare un mezzo di trasporto per condurla all’aeroporto?

— No — rispose laconicamente Shane. Non era tenuto a spiegare le ragioni delle sue azioni a quel lacché in uniforme. — Ci andrò da solo.

Gli sembrò di scorgere un lampo di ammirazione nello sguardo dell’ufficiale. Ma del resto, se l’altro pensava mai di aggirarsi da solo per le vie di Milano, l’avrebbe fatto con l’uniforme regolamentare che non era mai autorizzato a togliersi. Un tipo come l’ufficiale non poteva immaginare di quale libertà godeva Shane muovendosi, apparentemente come uno di loro, tra gli umani normali della città… e non poteva immaginare quanto gli fossero necessari quei pochi momenti di libertà illusoria.

— Sta bene — disse l’ufficiale. — Il Padrone che la porterà è Enech Ajin. Il banco dei Padroni, all’aerostazione, le indicheranno come raggiungerlo, quando arriverà.

— Grazie — disse Shane.

— Prego.

Avevano inevitabilmente assimilato entrambi, pensò con amarezza Shane, i convenevoli e le intonazioni dei padroni…

Uscì passando dalla pesante porta di destra dell’entrata e scese i gradini. Non c’erano tassì in vista… naturalmente. Nessun umano avrebbe ronzato intorno al quartier generale alieno se non in caso di necessità. Si avviò per la stessa strada che aveva percorso per raggiungere la piazza.

Aveva superato due incroci quando un tassì gli passò accanto, lentamente. Lo fermò e salì a bordo.

— All’aeroporto — disse. Guardò l’uomo magro e infagottato al volante, mentre apriva automaticamente la portiera. Salì… e incespicò su qualcosa che stava sul tappetino.

La portiera sbatté e il tassì sfrecciò via a tutta velocità. Shane si ritrovò bloccato da due uomini che prima stavano acquattati accanto al sedile posteriore. Lo tenevano immobilizzato, e gli puntavano contro la gola qualcosa di acuminato.

Abbassò lo sguardo e vide un cosiddetto coltello di vetro, ricavato da una scheggia di vetro legata fra le due metà di un manico di legno. Il vetro formava il filo tagliente e poteva essere acuminato come un rasoio… e quello lo era.

— Fermo! — ringhiò in italiano uno dei due uomini.

Shane non si mosse. Sentiva il puzzo degli abiti sporchi dei due che lo tenevano immobilizzato. Il tassì lo portava via, velocemente, per strade sconosciute, verso una destinazione inimmaginabile.

Viaggiarono almeno per una ventina di minuti: era impossibile capire se fosse il tempo necessario per coprire la distanza fino alla meta, o se in parte avesse lo scopo di confondere i suoi tentativi di calcolarla. Finalmente il tassì svoltò, sobbalzò sull’asfalto molto dissestato, e passò sotto l’ombra di un voltone. Poi si fermò e i due uomini trascinarono fuori Shane.

Intravvide appena un cortile buio e non troppo pulito circondato da edifici, e quindi fu spinto su per due gradini, oltre una porta e in un corridoio lungo e stretto saturo degli odori di cucina e di vernice vecchia.

Shane era più stordito che spaventato. Provava qualcosa di molto simile a un’accettazione fatalistica. Per due anni aveva vissuto con il pensiero che un giorno o l’altro gli umani comuni l’avrebbero identificato per uno di quelli che lavoravano per gli alieni; e allora avrebbero sfogato su di lui la paura e l’odio che tutti nutrivano per i conquistatori e che non osavano manifestare direttamente. Con l’immaginazione aveva vissuto molte volte quella scena. Era egualmente spiacevole, adesso che si era realizzata: ma era una situazione che aveva già esaurito le sue emozioni. Alla fine, era quasi un sollievo vedere che i giorni della mascherata erano finiti e che era stato scoperto per ciò che era in realtà.

I due uomini si fermarono di colpo. Shane fu spinto oltre una porta, sulla destra, in una stanza illuminata da un’unica, potente lampadina. Il contrasto con il cortile in penombra e il corridoio ancora più buio rese per un momento accecante quella luce. Quando i suoi occhi si abituarono, vide che era di fronte a un tavolo rotondo, e che la stanza era grande, con il soffitto alto e i muri ingrigiti dal tempo e un’unica alta finestra chiusa da una tenda per l’oscuramento. Il cordone della lampadina non spariva sotto traccia nel soffitto, ma passava accanto a un tubo del gas tappato, scendeva lungo la parete di fronte ed era collegata a un generatore a pedali. Un giovane dai capelli neri sedeva sul sellino e, quando la luce della lampadina incominciava ad affievolirsi, pedalava energicamente fino a che si ravvivava di nuovo.

C’erano altri uomini in piedi nella stanza, e due erano seduti al tavolo in compagnia dell’unica donna visibile. Shane la riconobbe: era la prigioniera che aveva visto attraverso la finestra. Lei lo guardò negli occhi con l’espressione di un’estranea, e sebbene fosse stordito Shane pensò che era strano che lui la riconoscesse con un’emozione tanto profonda, mentre la donna non lo conosceva affatto.

— Dov’è il proprietario del negozio d’abbigliamento? — disse uno degli uomini seduti al tavolo con un accento dell’Italia settentrionale sfumato da un altro accento, quello londinese. Era giovane, giovane come Shane; ma diversamente da Shane era asciutto e atletico con il naso diritto, la mascella quadrata, le labbra sottili e i capelli biondi molto corti.

— Fuori, in magazzino — disse una voce in italiano, ma senza accento inglese.

— Allora portatelo qui! — disse l’uomo dai capelli corti. L’altro seduto a tavola accanto a lui non disse niente. Era tondo e solido, oltre la quarantina, e portava una logora giacca di pelle. Teneva in bocca una pipa a canna corta. Sembrava italiano.

Alle spalle di Shane, la porta si aprì e si chiuse. Dopo un minuto si aprì e si chiuse di nuovo, e un uomo bendato, nel quale Shane riconobbe il proprietario del negozio dove aveva comprato la veste doublé face, venne condotto avanti e girato verso di lui. Gli tolsero la benda.

— Dunque? — chiese il giovane dai capelli corti.

Il negoziante batté le palpebre sotto la luce intensa. I suoi occhi si fissarono su Shane e subito si distolsero.

— Che cosa volete, signori? — chiese. La voce era appena un bisbiglio.

— Nessuno gliel’ha detto? Lui! — disse spazientito l’uomo dai capelli corti. — Lo guardi. Lo riconosce? Dove l’ha visto?

Il negoziante si umettò le labbra e alzò gli occhi.

— Oggi, signore — disse. — È venuto nel mio negozio e ha comprato un abito doublé face, azzurro e marrone…

— Questo? — L’uomo dai capelli corti fece un gesto. Uno di quelli che stavano in fondo alla stanza si fece avanti e mise un indumento avvoltolato nelle mani del negoziante, che lo spiegò e lo guardò.

— Questo è mio — disse con un filo di voce. — Sì. È quello che ha comprato.

— Bene, allora può andare. Tenga il vestito. Voi due… non dimenticate di bendarlo. — L’uomo dai capelli corti si rivolse al giovane seduto al generatore. — Allora, Carlo? È lui che hai seguito?

Carlo annuì. Aveva uno stuzzicadenti in un angolo della bocca. Stordito, Shane lo guardava stranamente affascinato, perché lo stuzzicadenti sembrava dargli un’aria bricconesca, infallibile.

— Ha lasciato piazza San Marco ed è tornato direttamente al Quartier Generale degli alieni — disse Carlo. — In tutta fretta.

— Allora non ci sono dubbi — disse l’uomo dai capelli corti. Squadrò Shane. — Bene, vuoi dirci che cosa ti avevano incaricato di fare gli aalaang? O dobbiamo aspettare che Carlo ti lavori un po’?

All’improvviso, Shane si sentì sopraffare da una stanchezza nauseata… era stanco dei sudditi umani e dei padroni alieni. Una furia inaspettata ribollì dentro di lui.

— Maledetto stupido! — gridò all’uomo dai capelli corti. — Stavo salvando lei!

E indicò la donna che ricambiò il suo sguardo aggrottando la fronte, intenta.

— Idioti! — sibilò Shane. — Stupidi imbecilli con i vostri giochetti della resistenza! Non sapete che cosa le avrebbero fatto? Non sapete dove sareste adesso tutti quanti, se non avessi dato loro un motivo per pensare che fosse stato qualcun altro? Per quanto tempo credete che avrebbe resistito a non dire tutto quello che sa di voi? Ve lo dico io, perché l’ho visto… quaranta minuti in media!