123634.fb2 Il marchio dellinvisibile - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 2

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«Un medico» ansimai.

«Subito, signore.» Dolce stupendo automa! Non c’era modo di dichiarare invisibile un robot, che quindi era libero di parlarmi.

Lo schermo si illuminò. Una voce professionale disse: «Quali sono i sintomi?».

«Fitte allo stomaco. Forse è appendicite.»

«Manderemo subito un…» S’interruppe. Avevo commesso l’errore di sollevare la faccia. Gli occhi del medico fissarono il mio marchio frontale. Lo schermo ammiccò e si spense. Non si sarebbe ritratto più in fretta se gli avessi porto da baciare una mano corrosa dalla lebbra.

«Dottore» gemetti.

Se n’era andato. Nascosi la faccia tra le mani. Questo era troppo, pensai. Poteva l’Ordine dei medici permettere cose simili? Era permesso a un medico ignorare l’invocazione di aiuto di un malato?

Ai tempi di Ippocrate non c’erano ancora uomini invisibili. Un medico non era tenuto a occuparsi di un uomo invisibile. Per la società, io semplicemente non esistevo. E i medici non possono diagnosticare un malanno in un individuo che non esiste.

Fui lasciato alla mia sofferenza.

E questa era una delle caratteristiche meno attraenti dell’invisibilità. Potevo introdurmi in un’alcova, che mi faceva piacere, senza che nessuno muovesse un dito per fermarmi, ma potevo anche contorcermi su un letto di dolore senza che nessuno muovesse un dito per curarmi. L’una cosa veniva insieme all’altra, e se per caso l’appendice di un Invisibile si spaccava, tanto meglio, sarebbe stato un salutare esempio per quanti potevano essere tentati di infrangere, come lui, la legge.

La mia appendice non si spaccò. Sopravvissi, ma fu una esperienza paurosa.

Un uomo può vivere, senza parlare con altri esseri umani per un anno. Può spostarsi con taxi automatici, e mangiare nei ristoranti automatici. Ma non esistono dottori automatici. Per la prima volta mi sentii veramente escluso dal mondo. Un carcerato, se si ammala viene curato dal medico. Il mio reato non era stato abbastanza grave da meritare la prigione, perciò nessun medico mi avrebbe curato in caso di malattia… Non era leale.

Maledissi gli aguzzini che avevano inventato quel tipo di condanna. Nel bel mezzo di una città di dodici milioni di abitanti ogni mattina io affrontavo il giorno, solo come Crusoe sulla sua isola.

Come posso descrivere i miei salti d’umore, i miei sbandamenti sul filo mutevole dei mesi e delle stagioni?

Ci furono momenti in cui l’invisibilità era una gioia, un tesoro inestimabile. In quegli attimi esaltanti, sentivo come un privilegio, una superiorità, quello stato che mi esentava dalle mille pastoie in cui si dibattevano gli uomini normali.

Rubai. Entravo nei negozi, prendevo gli incassi, e i proprietari avevano paura di fermarmi, di protestare, terrore di ignorare la mia invisibilità. Se allora avessi saputo che lo Stato provvedeva a rimborsare quei danni, avrei provato meno piacere. Ma non lo sapevo, perciò rubai.

Gli stabilimenti di bagni non mi tentarono più, ma violai altri santuari. Entravo negli alberghi, seguivo i corridoi, aprivo porte a caso. Molte stanze erano vuote, alcune no.

Il mio disprezzo per la società, lo stesso che mi aveva fatto dichiarare Invisibile, ingigantì.

Mi soffermavo nelle strade deserte durante i periodi di pioggia a ingiuriare le facciate lucide degli alti edifici. «Chi ha bisogno di voi?» gridavo. «Io no!»

Era una specie di follia, maturata, immagino, nella solitudine. Entravo nei cinema, dove i beati mangiatori di loto sedevano affondati nelle ipnopoltrone, gli occhi fissi sulle immagini tridimensionali, e mi mettevo a far capriole nei passaggi tra i sedili. Nessuno mi diceva niente. La macchia luminosa sulla mia fronte li avvertiva di tenere per sé le loro rimostranze. E così facevano.

Quelli erano i momenti pazzi, i momenti belli, i momenti in cui mi sentivo alto cento metri e passavo in mezzo alla mandria dei Visibili esalando scherno e commiserazione da tutti i pori. Erano momenti pazzi, lo ammetto. Un uomo che ha vissuto per mesi e mesi in uno stato di invisibilità involontaria, non può mantenere un perfetto equilibrio mentale.

Dovrei definirli momenti di paranoia? Credo che maniaco-depressivi, si adatti di più, Del resto, passavo da un estremo all’altro con paurosa facilità. I giorni in cui provavo soltanto disprezzo per i Visibili che mi circondavano si alternavano ai giorni nei quali l’isolamento mi soffocava in modo quasi tangibile. Camminavo per le strade senza fine, passavo sotto i maestosi porticati, guardavo dall’alto i nastri delle autostrade percorse da multicolori proiettili. Nemmeno un mendicante mi sarebbe venuto vicino. Lo sapevate che ci sono anche i mendicanti, nel nostro secolo così progredito? Nemmeno io lo sapevo prima di essere dichiarato Invisibile, perché soltanto allora le mie lunghe camminate mi portarono nei quartieri poveri, dove lo splendore della nostra civiltà era ridotto a un lumicino e dove vecchi vacillanti con le barbe irsute chiedevano la carità ai passanti.

Nessuno mendicò spiccioli da me.

Solo una volta un cieco mi si avvicinò. «In nome di Dio» biascicò «aiutatemi a comprare degli occhi nuovi alla banca degli occhi!»

Erano le prime parole, dopo mesi, che un essere umano mi rivolgeva direttamente. Cominciai a frugare nella tunica per dimostrargli la mia gratitudine con qualche dollaro. Non ci perdevo niente. Potevo aver tutto il denaro che volevo, bastava che lo prendessi. Ma prima che riuscissi a togliere i soldi di tasca una figura d’incubo s’infilò tra noi arrancando sulle stampelle. Afferrai una parola appena bisbigliata: «Invisibile!». Poi i due uomini strisciarono via come scarafaggi impauriti. Io rimasi là inebetito, con i miei soldi in mano.

Nemmeno i mendicanti!

La mia durezza si sciolse. La mia arroganza si dissipò. Ero e mi sentivo solo, adesso. Chi avrebbe più potuto accusarmi di freddezza? Ero pronto a ricevere, pateticamente affamato di parole, di sorrisi, di mani tese. Ero al sesto mese di invisibilità.

Adesso odiavo il mio stato. I piaceri che offriva erano trascurabili, i suoi tormenti angosciosi. Mi chiesi come avrei sopportato i restanti sei mesi. Credetemi, in quelle ore buie non fui molto lontano dall’idea del suicidio.

E arrivai a commettere un atto di follia. Durante una delle mie lunghissime camminate incontrai un altro Invisibile, il terzo o il quarto, forse, in sei mesi. Come era successo negli incontri precedenti, i nostri sguardi si incrociarono per un attimo. Poi lui abbassò gli occhi, si tirò da parte e passò via. Era un giovane snello con la faccia magra e dura, i capelli scuri, ispidi. Aveva l’aspetto di un uomo di scienza. Mi chiesi che cosa poteva aver fatto per meritarsi quella punizione, e mi venne il desiderio di corrergli dietro per domandarglielo, di conoscere il suo nome, di parlargli, di abbracciarlo.

Tutte cose proibite. Nessuno deve avere contatti con un Invisibile, nemmeno un compagno di invisibilità. “Soprattutto” un compagno di invisibilità. La società non ama incoraggiare segreti vincoli di amicizia tra i suoi paria.

Io lo sapevo.

Ciononostante mi volsi e lo seguii.

Camminai dietro di lui per tre isolati, mantenendo una distanza dai venti ai cinquanta passi. I robot della Sicurezza erano onnipresenti con le loro antenne rapidissime nel captare ogni infrazione, e non osavo fare la prima mossa. Poi l’uomo svoltò in una strada grigia, polverosa, antica di cinque secoli. Camminava con l’andatura molle dell’Invisibile che non ha meta. Mi avvicinai.

«Per favore…» dissi a bassa voce. «Qui non ci vede nessuno. Possiamo parlare. Mi chiamo…»

Si volse, con l’orrore negli occhi. Era pallido. Mi guardò un attimo, sconcertato, poi scattò in avanti con l’intenzione di aggirarmi.

Lo bloccai.

«Aspetti» dissi. «Non abbia paura. La prego!»

Mi superò di scatto. Gli misi una mano sulle spalle e lui si liberò con uno scarto.

«Soltanto una parola» supplicai.

Nemmeno una parola. Nemmeno un incollerito: «Lasciami in pace!».

Si scostò da me e corse per la strada deserta. Il rumore dei suoi passi si affievolì a poco a poco. Raggiunse l’angolo e svoltò. Lo guardai sparire e sentii tutta la mia solitudine.

Poi ebbi paura. Lui non aveva infranto le regole dell’invisibilità, ma io sì. Io l’avevo visto, e ciò mi rendeva soggetto a una nuova pena, forse un prolungamento del mio periodo di invisibilità. Mi guardai attorno, angosciato, ma non vidi nessun robot della Sicurezza.

Ero solo.

Cercai di calmarmi, e ripresi il cammino. A poco a poco riguadagnai il controllo dei miei nervi, e capii di avere commesso un imperdonabile atto di follia. Rimasi sconvolto dalla stupidità del mio gesto, ma ancora di più dalla sua natura sentimentale. Aggrapparmi a quella maniera a un altro Invisibile, ammettere così apertamente di sentirmi solo… No! Equivaleva a riconoscere la vittoria della società. Questo, mai.

Mi accorsi di essere per la seconda volta vicino al giardino dei cactus. Montai sull’elevatore, presi un gettone all’impiegata, ed entrai. Cercai per un po’ e alla fine trovai un cactus più contorto degli altri, un complicato mostro spinoso alto due metri e mezzo. Lo strappai dal suo vaso e ne ridussi in pezzi le braccia angolose riempiendomi le mani di migliaia di spine. La gente fece finta di non guardarmi mentre mi toglievo le spine dalle mani e poi, le palme sanguinanti, riprendevo l’elevatore, una volta di più sublimemente solo nella mia invisibilità.

Passò l’ottavo mese. Poi il nono e il decimo. La giostra delle stagioni aveva fatto quasi il giro completo. La primavera aveva ceduto il passo alla dolce estate, l’estate al frizzante autunno, l’autunno alle invernali nevicate quattordicinali ancora permesse per ragioni spettacolari. Poi l’inverno finì e nei parchi gli alberi germogliarono di gemme verdi. Quelli del controllo meteorologico si attennero al programma dei tre acquazzoni giornalieri.

La mia condanna stava per finire.

Durante il mio ultimo mese di invisibilità ero scivolato in una specie di torpore. La mia mente, costretta a rifugiarsi in se stessa, non si dedicò più a considerare i significati del mio stato, e di giorno in giorno sprofondai in una specie di confusione nebbiosa.

Presi a leggere alla rinfusa, con furia. Un giorno Aristotele, il giorno dopo la Bibbia, e un manuale di meccanica il seguente. Ma il mio cervello non tratteneva niente. Come passavo a una nuova pagina, le precedenti svanivano dalla mia memoria.

Non mi ero più occupato di sfruttare i pochi vantaggi offerti dall’invisibilità, di assaporare il gusto del potere dovuto alla consapevolezza di poter commettere qualsiasi cosa, con poco, o nessun rischio. Qualche rischio, naturalmente, c’è sempre, poiché l’esistenza di una legge sull’invisibilità non ha ancora del tutto annullato la natura umana. Ci sono uomini pronti a sopportare la pena dell’invisibilità pur di proteggere moglie e figli dai soprusi di un Invisibile. E nessuno permetterebbe certo a un Invisibile di strappargli gli occhi impunemente. Del resto esistono mezzi per violare la legge senza dimostrare di aver visto un Invisibile, ne ho già accennato.