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— Mi spiace, Mila — mormorò con voce rauca. — Mi spiace davvero.
— Non è colpa tua.
Ma lo era. Naturalmente lei non sapeva quello che aveva fatto; non sapeva che aveva manomesso i nastri e fatto in modo di essere scelto per sostituire il manichino di Peltier, in modo che lei lo vedesse dar la replica all’immagine meccanica di una Mila che aveva smesso di esistere dieci anni prima, lo vedesse dar nuova vita alla parodia di qualcosa.
— Mi spiace — sussurrò ancora.
Scosse la testa, liberò il suo braccio e fuggì via. La guardò allontanarsi e sentì che qualcosa gli faceva male, dentro. Il loro gelido incontro poche ore prima era stato il momento decisivo, quando in un rigurgito d’amarezza aveva deciso di portare a fondo il suo progetto e persino di scusare se stesso per farlo. Forse l’amarezza gli aveva fatto velo, pensò. La sua reazione nel trovarselo di colpo davanti non era stato snobismo, ma orrore. Un vecchio fantasma ridotto a fare il buffone vestito di una tuta lurida, la cui faccia aveva probabilmente tentato di dimenticare, era balzato fuori per affrontarla in un luogo che era già fin troppo pieno di ricordi. Nessuna meraviglia che fosse apparsa fredda; probabilmente lui era il simbolo di qualcuna delle sue autoaccuse, come sapeva che era stato per altri. Quelli che avevano avuto successo, quelli che avevano tratto profitto dall’autodramma, lo avevano visto spesso con secchio e strofinaccio: e se per caso si ricordavano di Ryan Thornier, si voltavano con troppa fretta. E ogni volta aveva sentito una tiepida soddisfazione immaginando il loro pensiero: Thornier non avrebbe voluto compromessi… e il loro odio, perché avevano accettato il compromesso e così avevano perduto qualcosa. Ma essere odiato da Mila… era comunque diverso. Non voleva che fosse così. Qualcuno gli dette una gomitata nelle costole. — Il tuo attacco, Thorny! — sibilò una voce tesa. — Sei di scena!
Si riscosse brontolando. Feria lo stava spingendo di furia verso la sua entrata. Tentò di recuperare in fretta la propria presenza di spirito, di immergersi nel personaggio e corse fuori.
Sbagliò malamente la scena. Seppe di averla sbagliata ancor prima di rientrare e vedere le loro facce. Aveva perso due attacchi e, aveva avuto bisogno più volte dei suggerimenti di Rick dalla cabina. Aveva recitato in modo legnoso, lo sentiva.
— Vai molto bene, Thorny, molto bene! — gli disse Giada: non osava dirgli niente altro durante una recita. Scuoti l’orgoglio di un attore durante una prova e avrà modo di riprendersi; scuotilo durante uno spettacolo e riuscirai solo a irritarlo. — Ma senza che gli venisse detto sapeva quanta preoccupazione fosse celata dietro quel piccolo sorriso meccanico. — Cerca solo di calmarti un po’, eh? — lo avvertì. — Sta andando bene.
Lo lasciò a fremere in solitudine. Si appoggiò al muro, guardando torvo in basso e flagellandosi mentalmente. Un fallito, sei, una miserabile briciola, custode del cavolo, fantesca filodrammatica…
Doveva riprendersi; se avesse sciupato questa, non ci sarebbe più stata per lui un’altra possibilità. Ma continuava a pensare a Mila, a come aveva desiderato ferirla, a come adesso che l’aveva ferita desiderasse fermarsi. — Il tuo attacco, Thorny… sveglia!
E fu di nuovo in scena, inciampando sulle battute, terrorizzato dal mare di facce confuse che erano dove avrebbe dovuto trovarsi la quarta parete.
Lo stava aspettando quando rientrò per la seconda volta. Uscì di scena pallido e tremante, col colletto umido di sudore; si appoggiò all’indietro, accese una sigaretta e la guardò con aria abbattuta. Lei non riusciva a parlare. Gli prese un braccio tra le mani e lo strinse convulsamente mentre appoggiava la fronte contro la spalla. Abbassò su di lei uno sguardo costernato. Lei non si sentiva più ferita, non poteva sentirsi ferita vedendolo fare là fuori una figura da sciocco. Avrebbe potuto soddisfare deliziosamente il suo spirito di vendetta e quasi desiderò che così fosse. Invece, aveva compassione di lui. Si sentiva intorpidito e dolorante fino al midollo. Non ce l’avrebbe fatta.
— Mila, è meglio che te lo dica; non posso dire a Giada che cosa…
— Non parlare, Thorny. Fa’ del tuo meglio. — Alzò lo sguardo su di lui.
— Ti prego, fa’ del tuo meglio!
Ne fu meravigliato. Perché lei doveva comportarsi in quel modo?
— Non vorresti piuttosto vedermi fallire? — le chiese.
Scosse rapida la testa, poi si fermò e annuì. — Una parte di me lo vorrebbe, Thorny. La parte vendicativa. Devo credere nel teatro meccanico, io… io ci credo. Ma non voglio che tu fallisca, davvero. — Si coprì un momento gli occhi con le mani. — Non sai che cos’è vederti là fuori… in mezzo a tutto quel… quel… — Si scosse lievemente. — È una buffonata, Thorny, tu non c’entri niente con quella roba, ma… finché ci stai, non rovinare tutto. Fa’ del tuo meglio!
— Sì, certo.
— È qualcosa di molto precario: l’effetto, voglio dire. Se il pubblico comincia a rendersi conto che tu non sei un pupazzo… — Scosse lentamente la testa.
— E se succede?
— Riderebbero. Ti riderebbero in faccia.
Era pronto a tutto ma non a questo. Questo confermava quel tormentoso presentimento che aveva avuto durante la prova.
— Thorny, questo è quello che mi preme veramente. Non m’interessa se tu reciti bene o da cane, finché non scoprono che cosa sei. Non voglio che ti ridano dietro; hai già sofferto abbastanza.
— Non riderebbero se io recitassi come si deve.
— Lo farebbero! Non allo stesso modo, ma lo farebbero. Non capisci?
Rimase a bocca aperta; scosse la testa: non era vero. — Attori umani lo hanno già fatto — protestò. — In provincia, in piccoli teatri, con un Maestro ridotto.
— Hai mai visto roba del genere?
Scosse la testa.
— Io sì. Gli spettatori sanno in anticipo che parte faranno gli umani: così la cosa non li colpisce come se fosse buffa. Non c’è la sorpresa di scoprire qualcosa di incongruente. Stammi a sentire, Thorny… fa’ del tuo meglio, ma non osare di fare meglio di quanto possa un manichino.
Lo riprese l’ondata dell’amarezza. Era questo che aveva sperato? Dare un’interpretazione quanto più meccanica possibile, fare un buon lavoro a livello del Maestro, ma non migliore e soprattutto non diverso, in modo che non se ne possano accorgere?
Notò la sua espressione abbattuta e cercò la sua mano. — Thorny, non odiarmi per avertelo detto. Desidero che tu riesca e penso fosse meglio che tu ti rendessi conto. Credo di sapere cosa c’è di sbagliato. Sei spaventato, profondamente, che loro non ti riconoscano per quello che sei veramente e questo rende la tua interpretazione diversa da quella d’un manichino. Farai meglio ad aver paura che ti riconoscano, Thorny.
Guardandola, si rese conto che era ancora capace di essere la donna che una volta aveva conosciuto e amato. Peggio, desiderava salvarlo dal rendersi ridicolo. Perché? Se si sentiva materna era concepibile che volesse proteggerlo dal furore, dalla critica o dai pomodori marci, ma non dalla perdita di dignità. Il senso materno prospera con la rinuncia della dignità maschile, poiché dà risalto all’immagine del bambino che è nell’uomo.
— Mila…?
— Sì, Thorny.
— Credo di non averti mai capita veramente.
Scosse rapida la testa, quasi irritata. — Caro, tu stai vivendo i tempi di dieci anni fa. Io no, e non voglio neppure. Forse il presente non mi piace granché, ma ci sono dentro e posso cambiarlo solo in piccola parte. Non posso ritrasformarlo nel passato e non lo voglio. — Tacque un momento, studiando il suo viso. — Dieci anni fa nessuno di noi due viveva nel presente; vivevamo in un futuro mitico, magico, meraviglioso. Grande talento, appena in boccio. In quei giorni la nostra vita era fatta di progetti di sogno. Il futuro in cui vivevamo non si è mai avverato: tu non puoi tornare indietro e farlo avverare. E quando un sogno non è più realizzabile, diventa un’illusione. Non voglio vivere in un’illusione. Voglio rimanere ragionevole, anche se questo fa soffrire.
— È stato un peccato che tu sia dovuta venire questa sera — disse seccamente.
Sembrò colpita. — Oh, Thorny, non volevo dirlo in questo modo. E nemmeno con tanta durezza, se… — guardò attraverso il cristallo antiacustico verso la scena, dove il suo manichino stava recitando insieme a Piotr… — se anch’io non avessi dei problemi, e troppi desideri.
— Io vorrei che tu fossi con me là fuori — disse dolcemente. — Senza pupazzi e senza Maestro. So come andrebbe, allora.
— No! Ti prego, Thorny, no.
— Mila, io ti amavo.
— No! — Si alzò di scatto. — Io… Voglio vederti dopo lo spettacolo. Aspettami. Ma non parlare così: soprattutto non qui e non adesso.
— Non posso farci niente.
— Ti prego! Arrivederci per ora, Thorny, e… fa’ del tuo meglio.
Del mio meglio per essere un meccanismo, pensò amaramente, mentre la guardava andar via.
Si voltò a guardare l’azione. C’era qualcosa che non andava, là sul palcoscenico, qualcosa di maledettamente sbagliato. L’interpretazione che il Maestro dava della scena la rendeva in qualche modo sconosciuta. Si accigliò. Rick gli aveva parlato dell’abilità del Maestro nel rimediare, nel mutare le interpretazioni, nel rifare la regia. Era quel che stava accadendo? Il Maestro stava rimediando… alla sua interpretazione?
Il suo attacco era prossimo. Si spostò più vicino al palcoscenico.
Il primo atto era stato un fiasco. Feria, Ferne e Thomas discutevano in un’atmosfera carica di tensione e di fumo di sigarette. Sentì un vivace brontolare, ma non riuscì a distinguere le parole. Giada chiamò un macchinista, gli parlò brevemente e poi lo mandò via. Il macchinista vagò tra la troupe finché trovò Mila Stone, le parlò velocemente facendo dei gesti. Thorny la vide avviarsi a raggiungere il gruppo della produzione, poi si voltò. Si mise fuori vista dietro un velario ripiegato, attendendo la fine del breve intervallo e cercando di non pensare.