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Thornier lo rimise nel mucchio con un altro sospiro, e si pulì la mano sulla tuta. Temperamento in scatola. L’io degli attori applicato su nastro. Autentici attori una volta e ora dei manichini che li sostituivano sulla scena. I nastri contenevano un complesso di informazioni psicofisiologiche ricavate dopo mesi di controlli fisici e somatici degli attori che avevano firmato un contratto con la Smithfield. Informazioni per le matrici delle personalità incluse nel Maestro. Astrazioni della psiche umana incorporate su vetro, rame e cromo. Le anime che avevano venduto alla Smithfield in cambio di una percentuale, insieme alla loro carne e al sangue imitati dai manichini.
Rick montò un nastro di una delle parti sul perno e incominciò a inserirlo tra i rulli.
— Che cosa accade se tralasci di montare una parte vitale? — chiese Thornier. — Per esempio il nastro di Mila Stone?
— Il manichino interpreterebbe la parte come uno zombie, tutto qui — spiegò Rick. — Né vivacità, né interpretazione. Piatto e monotono come un robot.
— Ma sono dei robot.
— Non esattamente. Marionette controllate dal Maestro, ma comunque degli interpreti. Una volta abbiamo messo in scena Amleto senza l’ausilio di nastri magnetici. Recitarono tutti la propria parte senza espressione, in piatta monotonia. Uno strazio.
— Ah, ah — esclamò Thornier truce.
Rick montò un altro nastro sul perno, formò una nuova combinazione sul quadro e fece correre questo nuovo nastro. — Questo è Andreyev, Thorny… interpretato da Peltier. — Improvvisamente bestemmiò, bloccò il nastro e lo controllò nervosamente, aprì il meccanismo di lettura e lo ispezionò con la lente d’ingrandimento.
— Che cosa c’è che non va? — domandò il custode.
— Il meccanismo di lettura è quasi del tutto consumato. È difficile mantenere le pause esatte. Ho sempre il timore che afferri tutto il nastro e me lo maciulli.
— Non ci sono dei nastri di scorta?
— Sì. Una serie completa in più. Ma il programma va in scena questa sera. — Lanciò un altro sguardo dubbioso al rullo trasportatore del registratore, poi lo richiuse e avviò di nuovo il congegno. Stava rimontando il pannello quando il meccanismo di ricarica s’inceppò. Dall’interno si udì uno strappo. Mormorando un fiume di bestemmie, tolse il contatto e strappò via di nuovo il pannello. Mostrò a Thornier un brandello lacerato di nastro e poi lo scaraventò attraverso la cabina. — Vattene! Menagramo!
— Non prima di aver finito di lavare.
— Thorny, per favore, vuoi chiamarmi D’Uccia? Dovremo far arrivare un nuovo complesso di lettura dalla Smithfield prima di questo pomeriggio. È un gran bel guaio.
— Perché non assumere un attore umano? — domandò Thorny malignamente. Poi aggiunse: — Scusami. Questa verrebbe considerata una perversione per la tua arie, non e vero? Vado a chiamare D’Uccia.
Rick gli gettò contro il rullo con la registrazione di Peltier. Thorny uscì sorridendo e andò a cercare il direttore del teatro. A metà della scala di ferro, si fermò a guardare il vasto palcoscenico che si stendeva dietro il sipario rialzato. Le luci della ribalta erano accese e il palco grigioverde aveva un aspetto pulito e splendente con quella specie di scacchiera formata da strisce di rame. Durante lo spettacolo le strisce venivano elettrificate per rinnovare la riserva di energia dei manichini; questi portavano sotto le suole dei dischi metallici e dei rettificatori alla caviglia. Quando le batterie stavano per esaurirsi, il Maestro faceva muovere i piedi dell’attore di qualche centimetro fino a portarlo a contatto con gli elettrodi del pavimento per una periodica ricarica durante lo spettacolo, dal momento che il manichino abbandonato a se stesso, avrebbe cominciato a ondeggiare e a parlare indistintamente dopo una dozzina di minuti.
Thorny fissò la grande distesa del palcoscenico, che non veniva mai calcato da piede umano durante le rappresentazioni serali. Il gatto siamese di D’Uccia stava facendo tolètta seduto al centro del palcoscenico; lo fissò altezzosamente, sembrò annusare l’aria e poi riprese a leccarsi. Thorny lo guardò per un momento, poi tornò verso Rick.
— Ti spiace dare corrente al palco, Rick?
— Eh? Perché? — fu l’occupato grugnito di risposta.
— Voglio vedere una cosa.
— D’accordo, ma poi vammi a chiamare D’Uccia.
Sentì che il tecnico girava un interruttore. La calma altezzosità del gatto si dileguò istantaneamente; miagolò, si agitò pazzamente, saltando e rotolando in mezzo a deboli scintille; fece un salto mortale oltre le luci del palcoscenico, planando in platea con un certo fragore, poi scappò con il pelo ritto su per le scale verso il suo paradiso, situato sotto la scrivania di Imperio.
— Che diavolo? — sbraitò Rick mettendo fuori la testa dalla cabina.
— Spegni adesso — disse il custode. — D’Uccia sarà qui tra un minuto.
— Sì, con le zanne di fuori.
Thornier andò a finire il solito lavoro di pulizia. Si sentì prendere dalla tristezza. Stava andandosene. Andandosene anche da quest’ultimo umile ruolo che lo teneva legato al teatro. Lo assalì l’improvvisa consapevolezza della propria impotenza: senza speranza. Senza speranza a tal punto da cercare piccole rivincite, come quella di vandalizzare i vasi di fiori di D’Uccia e di tormentare il gatto di D’Uccia: questo perché non vi era alcun nemico reale contro cui lottare.
Abbandonò deciso questa impressione e la escluse dai propri pensieri. Era Ryan Thornier, mai disperato a meno di non desiderarlo. Farò vedere loro almeno una volta chi sono io, pensò, prima di andarmene. Farò in modo che lo ricordino e che non lo dimentichino.
Ma sapeva che l’idea di interpretare un ultimo grande ruolo, un’ultima interpretazione magistrale, non era buona. — Thorny, se tu interpretassi un ultimo grande ruolo — gli aveva detto una volta Rick — non ti resterebbe alcuna ragione per continuare a vivere, vero? — Rick l’aveva detto cinicamente, ma comunque il concetto era giusto. In un certo senso le piacevoli fantasticherie erano, oltre che piacevoli, anche allarmanti.
La piccola donna elegante col cappello ricoperto di piume bianche stava spiegando qualcosa con molta attenzione, con vocali tonde e una precisa pronuncia, al Commediografo di Successo, un tipo promettente, che ascoltava il piccolo e vivace impresario con lo sguardo colmo di timorosa venerazione. — L’autentico realismo, vedi, è il perno di un autodramma — diceva. — Ricordati sempre, Bernie, che la considerazione per gli attori appartiene al passato. Studia il dramma di Roma, dell’antica Roma. Se in un dramma c’era una scena di crocifissione, prendevano uno schiavo per quella parte e lo crocifiggevano. Sulla scena, ma sul serio!
Il Commediografo di Successo rise rispettosamente intorno al suo lungo bocchino. — Così è da qui che è nata la frase: “È fantastico, ma gli attori sono uno strazio”. Devo riscrivere la scena del delitto nel mio La veglia funebre di George. Userò un’accetta, questa volta.
— Oh, Bernie, esagerato! I manichini non sanguinano.
Risero entrambi di cuore. — E sono anche molto cari. Non sono gli attori lo strazio, adesso, ma il bilancio.
— Probabilmente i romani avevano lo stesso problema. Lo terrò a mente.
Thornier li vide, arrivando dal retropalco, diretto al centro della platea: l’impresario e il Commediografo di Successo, giù in prima fila. Erano appoggiati ai braccioli delle loro poltrone e intorno a loro pullulava una folla di tecnici e di personale della produzione. Il momento della prima rappresentazione si stava avvicinando.
La piccola donna agitò con garbo una mano in direzione di Thorny quando lo vide passare lentamente nel corridoio, poi si voltò di nuovo verso il commediografo. — Bernie, sii un tesoro, vammi a prendere qualcosa da bere, vuoi? Ho i crampi allo stomaco.
— Certo. Secco o dolce?
— Oh, secco. Un goccio di scotch in un bicchiere di carta, per favore. C’è un bar alla porta accanto.
Il commediografo annuì con la testa fino quasi a inchinarsi e si avviò lungo la platea. La donna afferrò il custode per la manica quando le passò accanto.
— Hai intenzione di ignorarmi, Thorny?
— Oh, salve, signorina Ferne — rispose educatamente.
Si fece più vicina e mormorò: — Chiamami ancora “signorina Ferne” e ti graffio. — Le vocali tonde erano scomparse.
— D’accordo, Giada, però… — Si guardò attorno, nervoso. Intorno a loro si affollavano i tecnici. Ian Feria, il direttore di scena, li guardava con curiosità dalle quinte.
— Che cosa ti è successo, Thorny? Perché non ti ho più visto? — si lamentò lei.
Fece un gesto con il manico della scopa e si strinse nelle spalle. Giada Ferne gli studiò il viso per un momento poi aggrottò la fronte.
— Perché quell’aria da agonizzante, Thorny? Arrabbiato con me?
Scosse la testa. — Questo lavoro, Giada, L’anarchico, be’… — Guardò infelice il palcoscenico.
Il ricordo la colpì improvvisamente. Sospirò compassionevole.
— Quella tentata ripresa, dieci anni fa. Tu dovevi essere Andreyev. Oh, Thorny, me n’ero dimenticata.
— Non importa. — Atteggiò il viso a un accurato sorriso da martire.