123635.fb2 Il mattatore - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 7

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Dopo, le cose sarebbero dovute andare come aveva progettato. Dopo, Giada sarebbe dovuta venire da lui, come pensava che avrebbe fatto. Se non l’avesse fatto, allora avrebbe fallito, rovinato tutto in modo maldestro e senza alcun vantaggio.

Scivolò attraverso la cabina elettrica dove i trasformatori ronzavano in sordina, fornendo energia al palcoscenico. Si fermò vicino all’ingresso a guardare l’inizio della scena terza, del terzo atto. Andreyev, il pupazzo di Peltier, era solo in scena e passeggiava truce nel suo appartamento mentre gli effetti sonori guidati dal Maestro fornivano il cupo brontolìo della turba in strada e il lontano crepitìo d’una mitragliatrice. Dopo qualche minuto, si accorse che i movimenti di Andreyev non erano “truci” ma semplicemente metodici e inerti. Il manichino, privo del nastro, eseguiva quanto prescritto dal copione, come un automa, senza alcuna interpretazione. Sentì dalla platea dei brevi scoppi di risa da parte di qualcuno della produzione e, dopo aver osservato l’interpretazione da zombie di Andreyev in una scena colma di tensione, si scoprì anch’egli a sogghignare sommessamente.

Improvvisamente il manichino ambulante guardò dalla sua parte, col volto impassibile e alzò i pugni all’altezza del viso.

— Aiuto — disse in tono di monotona conversazione. — Ivan, dove sei. Dove? Certamente sono già arrivati; devono arrivare. — Parlava quietamente, senza inflessioni. Si premeva indifferente i pugni contro le tempie, camminando meccanicamente.

A qualche passo di distanza, due manichini che erano irrigiditi dietro le quinte ripresero improvvisamente vita. Dall’immobilità spettrale di fantocci da vetrina, improvvisamente, a un impulso di comando del Maestro, si scossero. I muscoli, sacchetti di plastica pieni di polvere magnetica a sospensione oleosa avvolti in elastiche matasse di cavi, simili a solenoidi flessibili, si irrigidirono e si gonfiarono sotto la carne di plastica espansa, lavorando spasmodicamente al ritmo pulsante dei policromatici comandi u.h.f. del Maestro. Sui loro visi si formò un’espressione di paura e di tensione. Si piegarono, si irrigidirono, si guardarono attorno e poi irruppero in scena respirando affannosamente.

— È arrivata, compagno, è arrivata! — urlò uno dei due. — È arrivata con lui, con Boris!

— Cosa? Lo ha catturato? — fu l’indifferente risposta.

— No, no, compagno. Siamo stati traditi. Sta con lui. È una traditrice, ci ha venduti a loro.

Non vi fu alcun sentimento nella replica senza interpretazione di Andreyev, neppure quando sparò al cuore del latore di queste cattive notizie.

Man mano che la scena si svolgeva, Thornier ne era sempre più affascinato. I manichini si muovevano con grazia, i loro movimenti sinuosi erano più fluidi e armoniosi di quelli umani: sembravano privi di ossa. La proporzione tra massa ed energia muscolare nei loro arti era stata attentamente studiata per donare la levità della danza a ogni loro movimento. Né meccanici robot sferraglianti, né fantocci malfermi, quei manichini sopportavano uno schema motorio ed espressivo che avrebbe rapidamente affaticato un attore umano; il Maestro coordinava quanto succedeva sulla scena come non sarebbe stato possibile a nessun gruppo di umani, composto di esseri individuali e ragionanti in modo indipendente.

Accadde come sempre. Dapprima guardava con un brivido la Macchina che si muoveva facendo le veci della carne e del sangue, il Meccanismo che aveva detronizzato l’Arte. Ma gradualmente quella sensazione di freddo si sciolse e venne preso dallo spettacolo e gli attori non gli apparvero più come macchine. Viveva la parte di Andreyev, ne sussurrava le battute e conosceva tutti loro: Mila e Peltier, Sam Dion e Peter Repplewaite. Partecipava alla loro tensione, digrignava i denti anticipando le battute più difficili, malediceva sommesso l’inerte Andreyev e dimenticava di notare il tenue sfrigolio delle scintille quando i piedi dei manichini passavano sulle strisce di rame, di quando in quando succhiando energia per tenere gli accumulatori quasi al massimo della carica.

Essendo tanto assorto, notò appena il ronzio e il raspare e il fruscio alle sue spalle, che diventavano sempre più forti. Udì vicino un quieto borbottare, ma la distrazione lo fece soltanto accigliare, senza che distogliesse l’attenzione dalla scena.

Poi un sottile spruzzo d’acqua gli solleticò le caviglie. Qualcosa di fradicio e spugnoso gli urtò il piede. Si girò di scatto.

Un rilucente ragno metallico, alto quasi un metro, gli si avvicinò lentamente muovendosi su sei zampe, allungando due pinze prensili. Gli si avvicinava tintinnando e spargendo sul pavimento un leggero getto di liquido che veniva subito risucchiato dalla proboscide spugnosa. Con una delle pinze alzò un bidone da circa quaranta litri vicino alla sua gamba, vi spruzzò sotto, asciugò e rimise a posto il bidone.

Thornier si riscosse con un lamento, scavalcò la cosa e barcollò sul pavimento umido insaponato. Scivolò e finì per terra. Il ragno sfregò con lena il pavimento al limite del palcoscenico, poi cambiò direzione e ritornò verso Thornier.

Gemendo, questi cominciò a rialzarsi, sulle mani e sulle ginocchia, lo colpì la risata gorgogliante di D’Uccia. Guardò in alto. Il paffuto direttore e il piazzista di elettrodomestici lo sovrastavano: il piazzista sogghignava, D’Uccia gli faceva eco.

— Eccolo qua il mio ragazzo, eccolo qua! Sta sempre a guarda’ lo spettacolo e non mi fa pulizia e poi vuole la ggiornata libbera. Eccolo qua, è proprio lui. — D’Uccia si chinò a dare un leggero colpo con la mano alla carrozzeria del ragno. — Ehi, ragazzo - disse rivolgendosi di nuovo a Thornier — devi conoscere il mio nuovo ragazzo. Questo qua, e lui non sta a guarda’ lo spettacolo com’a te.

Si rialzò in piedi borbottando e livido in viso. D’Uccia lo osservò più da vicino e il ghigno gli si smorzò. Indietreggiò di un passo. Thornier lo fissò per un attimo e poi si voltò per andarsene. Voltandosi per poco non urtò il manichino di Mila Stone, lo evitò e fece per passare oltre.

Poi si sentì gelare.

Il manichino di Mila Stone era sul palcoscenico, a recitare l’ultimo atto. E quest’altro sembrava più vecchio e più smunto, con un’espressione di profonda sorpresa quando alzò lo sguardo su di lui. Una mano scattò verso la bocca.

— Thorny…! — Un sussurro spaventato.

— Mila! - Nonostante lo spettacolo, urlò questo nome, spalancandole le braccia. — Mila, che meraviglia!

Poi si accorse che lei si scostava dalla sua tuta inzuppata: e non era contenta di vederlo.

— Thorny, che piacere — riuscì a mormorare, tendendogli cautamente la mano. Una mano risplendente di gioielli.

Gliela strinse per un vuoto attimo, la fissò, poi si allontanò in fretta sentendosi un nodo alla gola. Ora poteva darci dentro. Ora poteva andare in fondo e persino rallegrarsi nel mettere in atto il suo piano contro tutti loro.

Mila era venuta ad assistere alla “prima” del suo manichino nell’Anarchico come se fosse lei stessa a recitare. Farò in modo, pensò, che questo non sia uno spettacolo noioso.

— No, no, nooo! — si sentì la monotona protesta dell’inerte Andreyev nel finale. I colpi della pistola di Marka, e il manichino di Peltier si afflosciò sul palcoscenico; eccettuato un breve e trionfante chiarimento, il dramma era praticamente concluso.

Al rumore dello sparo, Thornier si fermò, guardando oltre la spalla con un sorriso tirato, con gli occhi che lucevano nel suo viso da falco. Poi svanì tra le quinte.

Si allontanò da loro non appena le fu possibile e girò per tutto il retropalco fino a quando lo trovò nel magazzino del reparto costumi. Solo, stava frugando nel contenuto di un vecchio baule mormorando qualcosa in tono nostalgico. Trasalì e lasciò ricadere nel baule un vecchio cappello a cilindro pieghevole e una scatola di cartucce a salve. Mentre si raddrizzava infilò le mani in tasca.

— Giada! Non mi aspettavo…

— Che venissi? — Con uno stanco sospiro, si lasciò cadere su una vecchia sedia a sdraio polverosa, chiuse gli occhi e cominciò a farsi vento, con un programma. Si sfilò le scarpe e mormorò: — Banda di nevrastenici. Li odio! — Assunse un’aria disgustata e si abbandonò ai ricordi della giovinezza. Una ragazzina che aveva fatto parte della troupe con Thornier e con tutti gli altri… l’attrice Giada Ferne, che aveva elemosinato qualche particina, che aveva perseguitato le agenzie e conquistato le sue parti attraverso interminabili prove e aveva tremato di panico prima che si alzasse il sipario, come tutti gli altri. Ora era una donnina vivace, dagli occhi furbi, un’ombra di grigio alle tempie e rughe profonde agli angoli della bocca. Ma come lasciò svanire quella maschera di donna d’affari, lo sguardo furbo e le rughe furono soltanto stanchezza.

— Quindici minuti per ritornare normale, Thorny — mormorò, guardando l’orologio come per controllare il tempo.

Thornier sedette sul baule, cercando di rilassarsi. Sembrava che lei non avesse notato il suo disagio, oppure era troppo stanca per attribuirgli un motivo qualsiasi. Se l’avesse scoperto, l’avrebbe scuoiato e sbattuto fuori dall’edificio per le orecchie: forse avrebbe chiamato la polizia. Era una piccola cosa, ma anche le granate incendiarie sono piccole. Quello che sto per fare non ti danneggerà, Giada, si disse. Farà un gran chiasso e non ti piacerà, ma non ti danneggerà e non manderà a fondo lo spettacolo, neppure.

Lo faceva per il gusto dello spettacolo, quello d’una volta, quello che entrambi conoscevano e amavano. E in questo senso, si disse ancora, lo faceva per lei non meno che per se stesso.

— Com’è andata la prova, Giada? — chiese con noncuranza. — A parte Andreyev, intendo.

— Superba, davvero superba — rispose lei macchinalmente.

— Sul serio, intendo.

Aprì gli occhi, fece una smorfia con la bocca. — Come sempre. Di un gigionismo nauseante e perfettamente diretta per una folla di masticatori di gomma dalla borsa piena. Una folla che ama il gigionismo in modo da non doversi affaticare a capire quel che succede. Una folla che non vuole sforzarsi a cercare dei sentimenti o un significato. Vuole che il significato gli venga sbattuto in faccia, così da non doverlo cercare. Sono stufa.

La guardò un attimo, sorpreso. — Ci credo — borbottò con finto compatimento.

Ripiegò i talloni nudi sotto la sdraio e si abbracciò le gambe, posando il mento sulle ginocchia; poi ammiccò. — Mi odi perché produco questa roba, Thorny?

Ci pensò su un momento, poi scosse la testa. — L’andata in scena mi rattrista a volte, ma non ti biasimo per questo.

— È qualcosa. Qualche volta vorrei cambiar posto con te. Qualche volta desidererei essere una sguattera e lavare i pavimenti per D’Uccia, davvero.

— Niente da fare — rispose aspro. — I parenti del Maestro si stanno occupando anche di questo.

— Lo so. Ho sentito. Grazie a Dio, sei senza lavoro. Adesso potrai darti da fare altrove.

Scosse la testa. — Non so proprio dove. Non so fare altro che recitare.

— Sciocchezze. Posso trovarti un lavoro domani.

— Dove?

— Con la Smithfield. Incremento vendite. Stanno assumendo un bel po’ di vecchi attori in quel settore.

— No. — Una risposta secca e gelida.

— Non occorre. C’è qualcosa di nuovo. L’azienda è in sviluppo.