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— Si. Quelli normali, poveri, le cui madri li avevano portati al centro per denaro. Questo era il motivo per cui dividere in due il gruppo non aveva funzionato: quelli del gruppo di controllo venivano portati dentro tutti, ogni volta. Ma non poteva esser vero, naturalmente.
— Cosa? — mormorò Little Tib.
— Non poteva esser vero… tutti fummo d’accordo su questo. Non poteva essere uno del gruppo di controllo: sarebbe stata una coincidenza incredibile. Doveva essere successo che una delle madri (forse uno dei padri, ma più probabilmente una delle madri) aveva intuito con molto anticipo quel che avremmo fatto, e per salvare il suo bambino lo aveva sostituito con un altro. E questo era certamente accaduto qualche anno prima.
— Come la madre di Krishna — disse Little Tib, ripensando alla storia del Dr. Prithivi.
— Sì. Gli Dei non nascono in una stalla.
— E ucciderete anche l’ultimo bambino… quando lo troverete?
— So che l’ultimo di quei bambini sei tu.
Non c’era nessuna speranza di sfuggire a una persona dotata della vista all’interno di quell’autobus, ma Little Tib cercò di correre via a tentoni. Non aveva neppure fatto tre passi che Indra lo afferrò per le spalle spingendolo di nuovo a sedere dov’era prima.
— Adesso mi vuoi uccidere?
— No.
All’esterno esplose un tuono. Little Tib fece un balzo, credendo per un istante che Indra avesse sparato con una pistola. — Non adesso — ripeté l’altro, — ma presto.
La porta fu socchiusa ancora, e Nitty disse: — Venite fuori, sta per piovere e il Dr. Prithivi vuole mostrare il pezzo forte prima che cominci.
Con Indra quasi incollato alle spalle Little Tib lasciò che Nitty lo aiutasse a scendere gli scalini dell’autobus. Fuori c’erano centinaia di persone: poteva udire lo strusciare dei loro piedi e il mormorio delle voci. Alcuni stavano parlando fra loro, altri cantavano, ma i rumori si placarono quando i tre passarono fra essi. L’aria si appesantiva per l’avvicinarsi del temporale e c’era odore di vento.
— Attento — disse Nitty, — c’è uno scalino alto.
Erano di legno grezzo robusto e polveroso: sette scalini. Salì fino in cima e…
Poteva vedere.
Per un istante (benché fosse soltanto un istante) pensò di non essere più cieco. Era in un villaggio fatto di capanne di fango, e intorno a lui c’era diversa gente di pelle bruna con grandi e liquidi occhi neri: uomini che esibivano cercini rossi o gialli o blu arrotolati sulla testa, e donne brune dai lunghi abiti variopinti. Nell’aria c’era odore di cucina, di vacche e di polvere, e dietro il villaggio si levava una montagna perfettamente conica e bianca come un gelato alla panna, e al di là della montagna si stagliava un cielo colmo di palazzi, carrozze ed elefanti dipinti, e più più oltre ancora innumerevoli volti umani.
Poi capì che era soltanto immaginazione, soltanto un sogno; e non un sogno suo, stavolta, ma del Dr. Prithivi. Forse il Dr. Prithivi poteva sognare come lui, e così intensamente che gli angeli scendevano ad avverare il sogno; forse era invece l’immaginazione onirica dell’uomo che passava attraverso di lui. Ripensò a ciò che aveva detto Indra: che sua madre non era la sua vera madre e seppe che non poteva essere così.
Una donna dai capelli neri, con un grazioso volto a forma di cuore, disse: — Suona per noi. — E lui ricordò d’avere ancora in mano il flauto di legno. Se lo portò alle labbra, senza sapere se avrebbe saputo suonarlo o meno, e ne uscì una musica meravigliosa. Non era lui a farla, tuttavia mosse le dita sui fori fingendo di suonare e danzò. Le donne ballarono con lui, talvolta battendo le mani e talvolta agitando campanelle.
Gli parve che fosse trascorso solo un momento dall’inizio della danza quando comparve Indra. Era più alto di suo padre e aveva la faccia nascosta da una maschera di legno scolpito, dal naso adunco. Nella mano destra impugnava una spada minacciosa, curva e ondulata come un serpente, e nella sinistra aveva un occhio scintillante. Quando Little Tib vide l’occhio seppe perché Indra non lo aveva ucciso mentre erano soli sull’autobus. Qualcuno, lontano da lì, stava guardando attraverso quell’occhio, e finché avesse visto che lui faceva quelle cose (quelle che talora riusciva a compiere: far apparire e sparire gli oggetti, parlare con certi angeli) Indra non avrebbe potuto usare la spada. Io non voglio che lo faccia! pensò, ma sapeva di non poter sempre fermare gli avvenimenti, e che talvolta gli avvenimenti lo portavano via con loro.
In quel momento il tuono scosse le nuvole, e la voce del Dr. Prithivi disse: — Suona con il tuono! Suona con la tempesta. Questo è l’ideale per ciò che stiamo cercando di fare!
In piedi, dinanzi a Little Tib, Indra disse qualcosa circa il fatto di chiamare tanta pioggia da spazzar via il villaggio; e la voce del Dr. Prithivi incitò Little Tib a scalare la montagna.
Lui guardò e vide la montagna vera, lontana e stupenda; sapeva di non poterla scalare.
Poi cadde la pioggia, le torce si spensero, ed essi rimasero in piedi sul palco immerso nel buio con l’acqua fredda che ruscellava sui loro volti. Si accesero luci elettriche, e Little Tib vide centinaia di persone che correvano alle loro auto; fra esse c’erano un uomo mascherato da scimmia, un altro con la testa d’elefante e un terzo con nove facce.
Subito dopo fu di nuovo cieco, e per lui non restò altro che la sensazione del ruvido legno sotto i piedi, della pioggia battente e la consapevolezza che Indra era ancora dinanzi a lui, brandendo la sua spada e l’occhio.
E poi un uomo fatto interamente di metallo (al punto che la pioggia tamburellava sonoramente su di lui) fu anch’egli in piedi lì accanto. Era armato d’accetta e portava un cappello a punta; e nella luce riflessa dalla sua superficie liscia Little Tib poté vedere anche Indra e l’occhio.
— Tu chi sei? — chiese Indra all’Uomo di Metallo.
— Chi sei tu? — replicò lui. — Non vedo la tua faccia dietro quella maschera di legno… ma il legno è cosa che non può opporsi a me. — E con l’accetta colpì la maschera scolpita. Una scheggia ne volò via, la cordicella che la teneva a posto si spezzò e l’oggetto cadde al suolo.
Little Tib vide comparire il volto di suo padre, rigato dalla pioggia che ora lo bagnava. — Chi sei tu? — domandò ancora suo padre all’Uomo di Metallo.
— Non mi riconosci, George? — disse l’Uomo di Metallo. — Una volta eravamo vecchi amici. Io sono, se così posso dire, un sentimentale, e quando…
— Papà! — gridò Little Tib.
Suo padre si volse a guardarlo e disse: — Ciao, Little Tib.
— Papà, se avessi saputo che tu eri Indra non avrei avuto paura, là dentro. Quella maschera cambiava tanto la tua voce.
— Non dovrai aver più paura di niente, figlio mio — disse suo padre. Fece due passi verso il bambino, e un istante dopo, quasi troppo veloce per essere vista, la sua spada lampeggiante gli si abbatté addosso.
L’accetta dell’Uomo di Metallo fu ancora più veloce: si alzò di scatto, e la lama di Indra vi impattò con un clangore violento.
— Questo non lo salverà — disse il padre di Little Tib. — L’hanno visto, e hanno visto anche te. Volevo farla finita più in fretta.
— Non hanno visto me — disse l’Uomo di Metallo. — È più buio di quel che credi.
E d’un tratto fu buio. La pioggia cessò… o se continuò a cadere Little Tib non l’avvertiva più. Non capiva come l’avesse intuito, ma sapeva dov’era: si trovava in piedi, immobile, di fronte al computer, e i diavoli non erano ancora andati via da lì.
Poi la pioggia fu di nuovo su di lui, e seppe d’essere davanti a suo padre, ma l’Uomo di Metallo se n’era andato e il buio tornò ad avvolgerlo rendendolo cieco più che mai. — Vuoi ancora uccidermi, papà? — chiese.
Non ci fu risposta, e ripeté la domanda.
— Non adesso — disse suo padre.
— Più tardi?
— Vieni qui. — Sentì la mano del padre su un braccio, un contatto che conosceva bene. — Siediti. — Fu condotto sul bordo della piattaforma e aiutato a sedersi, con le gambe di fuori.
— Ti senti bene? — domandò Little Tib.
— Sì — rispose suo padre.
— Allora perché volevi uccidermi?
— Io non volevo farlo. — D’improvviso la voce dell’uomo suonò irritata. — Non ho mai detto che volevo. Dovevo farlo: questo è tutto. Guardaci, tutti noi, guarda cosa siamo diventati. Costretti a spostarci da un posto all’altro costruendo case, zappando la terra, affidandoci alla misericordia divina come nei secoli scorsi. Siamo dei cani della prateria, ecco quello che siamo. Tu ricordi i cani della prateria, Little Tib?
— No.
— Fu molto prima che tu nascessi, è vero. Erano cani che cacciavano in branco, per vivere dovevano stare in branco. Ma anni fa qualcuno decise che non servivano a niente, e riuscirono a disperderli, e morirono tutti. Per circa un anno ne trovai molti, qua e là, da soli e morti. Poi non ce ne fu più. Aspettarono a riunirsi in branco finché non fu troppo tardi, capisci: o forse non poterono. Ed è la stessa cosa che succede alla gente come noi. Voglio dire la nostra famiglia. Cosa credi che ci sia accaduto?