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Il cielo primaverile era azzurro e profondo su Aalborg, Danimarca. Nella piazza, intorno alla statua del Toro Cimbriano, la folla era silenziosa; e sul muro di mattoni rossi scoloriti dal tempo, un uomo stava morendo sulla triplice lama, secondo una legge aliena. Le due autorità, giudici ed esecutori di quella legge, sedevano sulle loro cavalcature, impassibili a meno di due lunghi passi dal punto in cui si trovava Shane Evert, tra la folla di uomini a piedi.
— Figlio mio — stava dicendo il più vecchio e massiccio dei due al più giovane, nella pesante lingua Aalaag, del tutto ignaro che là vicino ci fosse un umano che poteva capirlo, — come ti ho detto svariate volte, non c’è creatura che si domi in una notte. Eri stato avvisato che quando viaggi con la famiglia il maschio difende la compagna, e maschio e femmina difendono i loro piccoli.
— Ma, padre mio — disse il più giovane, — non ce n’era motivo. Io ho solo spinto da un lato la femmina con la mia lancia ad energia per impedirle di essere travolta. Intendevo usare una gentilezza, non era una punizione o un attacco…
Le loro parole rombavano nelle orecchie di Shane e si stampavano nella sua mente. Come giganti in forma umana, medievali e fuori posto, i due enormi Aalaag torreggiavano accanto a lui, la limpida luce solare che splendeva sul metallo verde e argenteo delle loro armature, e sulle creature scarlatte, simili a cammelli, che servivano loro da cavalcature. Erano occupati a conversare e a sorvegliare la folla di umani in questa esecuzione pubblica autorizzata. Guardavano appena l’uomo che avevano infilzato sulle lame.
Pietosamente, sia per lui che per gli umani obbligati ad assistere alla sua morte, il danese condannato era stato paralizzato dalla lancia ad energia degli Aalaag prima di essere gettato sui tre affilati pali di metallo che sporgevano dal muro, a tre metri e mezzo dal suolo. Le lame lo avevano trafitto mentre era ancora privo di conoscenza; ed immediatamente era entrato in coma. Così ora non era cosciente della sua morte; né di sua moglie, la donna per cui aveva meritato la condanna, che giaceva morta sotto di lui alla base del muro. Adesso anche lui era quasi morto. Ma finché era ancora in vita tutti quelli nella piazza erano obbligati ad osservare, secondo la legge Aalaag.
— … Nonostante ciò — stava ribattendo il padre alieno, — il maschio ha equivocato. E quando la mandria commette errori, il padrone ne è responsabile. Tu sei responsabile della morte di questo e della sua femmina — che è stata necessaria, per mostrare che noi non sbagliamo mai, e non dobbiamo mai essere attaccati da coloro che abbiamo soggiogato. Ma la responsabilità è tua.
Sotto il sole sfolgorante, il metallo che ricopriva la coppia di alieni scintillava, antico e primitivo come la statua di bronzo del toro o le lame che sporgevano dal modesto muro di mattoni. Ma d’ora in poi gli spettatori umani avrebbero imparato bene a non lasciarsi ingannare dalle apparenze.
La tradizione, e qualcosa di simile alla superstizione tra gli irreligiosi Aalaag, li aveva indotti a conservare le armi e l’armatura di un periodo della loro storia già antico e perduto da più di cinquantamila anni terrestri, sul pianeta che aveva generato questi conquistatori dell’umanità alti due metri. Ma le loro vesti ed armi arcaiche erano solo un fatto esteriore.
Il vero potere dei due osservatori non era nelle loro spade o nelle lance ad energia; ma nelle bacchette nere e dorate che portavano alle cinture, nelle pietre degli anelli ai loro indici massicci, e nel piccolo orifizio sul pomo della sella, sempre in movimento, che oscillava tra la folla a destra e a sinistra senza posa.
— … Allora è vero. La colpa è mia — disse il figlio Aalaag umilmente. — Ho sprecato dei buoni sudditi.
— È vero, sono stati sprecati dei buoni sudditi — rispose il padre. — Sudditi innocenti che originariamente non avevano intenzione di sfidare la nostra legge. E per questo pagherò una multa, perché io sono tuo padre ed è colpa mia se hai commesso un errore. Ma tu mi ripagherai cinque volte tanto, perché il tuo errore è più grave della perdita di buoni sudditi.
— Più grave, padre?
Il viso di Shane rimase assolutamente immobile, celato dall’ombra del cappuccio del suo mantello da pellegrino. I due non potevano sospettare che uno della mandria di Lyt Ahn, il Governatore Aalaag della Terra Intera, si trovasse a meno della lunghezza di una lancia da loro, in grado di cogliere ogni parola che essi si scambiavano. Ma era saggio non attrarre la loro attenzione. Un padre Aalaag in genere non rimprovera il figlio in pubblico, o in presenza di sudditi che non appartengono alla sua casa. Le poderose voci continuavano a rombare, e il sangue a ronzare nelle orecchie di Shane.
— Molto più grave, figlio mio…
La vista della figura sulle lame davanti a lui nauseava Shane. Aveva cercato di allontanarla da sé con una delle sue fantasticherie private — l’immagine che aveva evocato era quella di un fuorilegge umano che nessun Aalaag poteva catturare o sconfiggere. Un umano che girava il mondo nell’anonimato, come Shane, in vesti da pellegrino; ma, a differenza di Shane, vendicandosi con gli alieni per ogni torto fatto a uomo, donna o bambino. Comunque, messa di fronte alla sanguinosa realtà sul muro davanti a lui, la fantasia aveva fallito. Ora, però, con la coda dell’occhio aveva visto qualcosa che momentaneamente aveva escluso quella realtà dalla sua mente, facendogli provare un brivido di irragionevole trionfo.
A circa quattro metri di distanza, oltre e ben al di sopra di lui e dei cavalieri sulle grandi bestie, il ramo inclinato di una quercia spingeva la sua punta quasi sulla linea immaginaria tra gli occhi di Shane e l’uomo trafitto; e all’estremità del ramo, tra le nuove foglie verdi, c’era una piccola forma a bozzolo, già rotta. Da essa era appena uscita con grandi sforzi la sagoma ancora accartocciata di una farfalla che ancora ignorava la funzione delle ali.
Come avesse fatto a superare l’inverno qui era impossibile dirlo. Teoricamente, gli Aalaag avevano sterminato tutti gli insetti in paesi e città. Ma eccola qui: una farfalla della Terra nata a dispetto di tutto e tutti, mentre un uomo della Terra stava morendo — una piccola vita per una più grande. Un senso di trionfo assolutamente sproporzionato echeggiava in Shane. Ecco una vita che era sfuggita alla sentenza di morte degli alieni e sarebbe sopravvissuta nonostante gli Aalaag — cioè, se i due che ora montavano la guardia sulle loro grandi cavalcature non l’avessero notata mentre agitava le ali, asciugandole per volare.
Non dovevano accorgersene. Con discrezione, confuso tra la folla col suo rozzo e grigio mantello da pellegrino e il bastone, indistinguibile tra gli altri umani trasandati, Shane scivolò sulla destra verso gli alieni, fino a che la punta del ramo con la farfalla appena nata non si trovò esattamente fra lui e l’uomo sul muro.
Era superstizione, magia… chiamatela come volete, era il solo aiuto che poteva dare la farfalla. Il pericolo per la piccola vita che stava sbocciando sulla punta del ramo, in forza di qualsiasi giustizia cosmica, doveva essere scongiurato dalla vita più grande che stava terminando per l’uomo sul muro. L’una avrebbe pareggiato l’altra. Shane fissò la sagoma più vicina della farfalla in modo da offuscare la figura più lontana dell’uomo sulle lame. Stava facendo un patto col destino. Non batterò ciglio, si disse; e la farfalla resterà invisibile agli Aalaag. Vedranno solo l’uomo…
Accanto a lui nessuna delle due massicce figure rivestite di metallo aveva notato il suo movimento. Stavano ancora parlando.
— … In battaglia — diceva il padre, — uno di noi vale quanto un migliaio di uomini come questi. Non saremmo nulla, se non fosse così. Ma anche se uno è superiore a mille, non ne consegue che i mille manchino di forza, contro uno. Non ti aspettare nulla, quindi, e non sarai deluso. Anche se ora è nostra, dentro di sé la massa resta la stessa di quando l’abbiamo conquistata. Animali, non ancora ammaestrati al dovuto amore per noi. Mi capisci, adesso?
— No, padre mio.
La gola di Shane bruciava; e i suoi occhi si annebbiarono, così che riuscì appena a intravedere la farfalla che si aggrappava con forza al suo ramo per poi cedere alla fine all’impulso istintivo di asciugare in tutta la loro estensione le sue ali umide e ripiegate. Queste si aprirono, arancioni, nere e marroni — quasi fosse un presagio, si trattava di quella specie di farfalla sub-artica chiamata «Pellegrino» — proprio come «Pellegrino» era chiamato Shane, a causa del mantello col cappuccio che indossava. Gli tornò in mente quel giorno di tre anni prima all’università del Kansas. Ricordò che si trovava nella sala dei convegni, tra la folla degli altri studenti e professori, ad ascoltare il comunicato che annunciava che la Terra era stata conquistata, prima che qualcuno di loro avesse avuto il tempo di rendersi conto che esseri di un altro pianeta erano sbarcati sulla Terra. Allora, non aveva provato altro che eccitazione, forse mista ad un senso di apprensione tutt’altro che sgradevole.
— Qualcuno di noi dovrà pur fare l’interprete con gli alieni — aveva detto agli amici allegramente. — Gli specialisti del linguaggio come me… be’, avremo parecchio lavoro.
Ma non era stato con gli alieni; era stato per gli alieni, per gli Aalaag stessi, che era stato necessario far da interprete — e lui, si era detto Shane, non aveva la stoffa del combattente clandestino. Solo che… negli ultimi due anni… Quasi direttamente sopra di lui, la voce dell’Aalaag più anziano continuava a rombare.
— … Conquistare è niente — diceva il vecchio Aalaag. — Chiunque abbia potere può conquistare. Noi governiamo… che è un’arte più grande. Governiamo perché alla fine cambiamo la natura stessa dei nostri sudditi.
— La cambiamo? — fece eco il più giovane.
— La modifichiamo — disse il più anziano. — Nel corso delle generazioni insegnamo loro ad amarci. Li addomestichiamo per farne un buon gregge. Sempre bestie, ma piegate all’obbedienza. Per questo fine conserviamo le loro leggi, religioni, usanze. Solo una cosa non tolleriamo — il concetto di sfida alla nostra volontà. E col tempo vengono addomesticati a questo.
— Ma… sempre, padre mio?
— Sempre, ti dico! — La grande cavalcatura del padre spostava di continuo il suo peso sugli zoccoli, allontanando Shane di qualche centimetro. Lui si spostò di lato, ma continuò a fissare la farfalla. — Quando siamo arrivati, qualcuno ha osato combatterci… ed è morto. Più tardi, altri come quest’individuo sul muro, ribelli… e sono morti anch’essi. Solo noi sappiamo che è il cuore della bestia che alla fine deve essere schiacciato. Così prima insegnamo loro la superiorità delle nostre armi, poi del nostro corpo e della nostra mente; infine quella della nostra legge. Alla fine, privati di tutto ciò che essi possedevano, senza nulla a cui aggrapparsi, i loro cuori si incrinano; ed essi ci seguono senza pensare, amando e fidandosi ciecamente, come cuccioli dietro la loro madre, incapaci persino di immaginare una ribellione alla nostra volontà.
— E tutto ciò è bene?
— Tutto è bene per mio figlio, suo figlio, e il figlio di suo figlio — disse il padre. — Ma fino a quel lieto giorno in cui il cuore della massa non sarà schiacciato, ogni piccola scintilla della fiamma della ribellione ritarda l’arrivo del loro definitivo ed assoluto amore per noi. Qui, inavvertitamente, hai permesso a quella fiamma di ravvivarsi ancora una volta.
— Ho sbagliato. In futuro eviterò simili errori.
— Non mi aspetterò nulla di meno — disse il padre. — E adesso, l’uomo è morto. Proseguiamo.
Spronarono le loro cavalcature e si allontanarono. Intorno a loro la folla degli umani sospirò per l’allentarsi della tensione. Sulla lama tripla, la vittima ora pendeva immobile. Gli occhi erano fissi, mentre penzolava senza un sussulto o un suono. Le ali della farfalla, che stavano asciugandosi, si agitavano lentamente. Tra il viso di Shane e quello del morto. Senza preavviso, l’insetto si alzò come un’ombra colorata e svolazzò via, librandosi sulla piazza nella luce abbagliante del sole fino a che Shane le perse di vista. Un senso di vittoria esplose dentro di lui. Sottrai un uomo, pensò con un pizzico di follia. Aggiungi una farfalla — un piccolo Pellegrino per sfidare gJi Aalaag.
Intorno a lui la folla si stava disperdendo. La farfalla era scomparsa. Il febbrile sollievo per la sua fuga si raffreddò, e Shane osservò la piazza. Gli Aalaag, padre e figlio, la avevano già percorsa a metà, diretti più avanti, verso una strada che portava fuori città. Una delle poche nuvole in cielo passò davanti al disco solare, smorzando la luce nella piazza. Shane sentì un fresco alito di vento sulle mani e sul viso. Intorno a lui, ora, la piazza era quasi vuota. In pochi secondi sarebbe rimasto solo con il morto e il bozzolo vuoto che aveva generato la farfalla.
Guardò ancora una volta il cadavere. Il viso era immobile, ma la leggera brezza agitava qualche ciocca dei lunghi capelli biondi che penzolavano sciolti.
Shane rabbrividì per l’improvviso raffreddarsi del vento e la scomparsa del sole. Il suo morale scese vertiginosamente e precipitò nel dubbio e nella paura. Ora che tutto era finito, sentiva dentro di sé un tremito, ed un senso di nausea… aveva visto troppe esecuzioni degli alieni in questi ultimi due anni. Non osava ritornare al Quartiere Generale Aalaag nello stato in cui si trovava.
Avrebbe dovuto informare Lyt Ahn dell’incidente che aveva ritardato i suoi doveri di corriere; e mentre lo diceva non avrebbe dovuto tradire in nessun modo i suoi sentimenti naturali verso quanto aveva visto. Gli Aalaag esigevano che i loro sudditi privati fossero come loro — spartani, insensibili al dolore proprio e degli altri. I sudditi umani che lasciavano trasparire le loro emozioni, in termini Aalaag erano «malati». Se il padrone Aalaag avesse ospitato nella sua casa qualche creatura malata, questa avrebbe intaccato la sua reputazione — anche se era Governatore di Tutta la Terra.
Shane poteva finire anche lui sulle lame, nonostante la simpatia che Lyt Ahn sembrava dimostrargli a livello personale. Doveva riprendere il controllo delle sue emozioni, e il tempo a disposizione era poco. Al massimo poteva rubare mezz’ora in più dal suo programma, in aggiunta al tempo già perso per assistere all’esecuzione — e in quei trenta minuti doveva cercare di ricomporsi. Si voltò, dirigendosi verso una strada alle sue spalle che l’avrebbe portato lontano dalla piazza, seguendo gli ultimi resti della folla.
Una volta la strada era stata una via di piccoli negozi, intervallati da qualche grande magazzino o qualche centro commerciale. Fisicamente non era cambiata. Sui marciapiedi e sull’asfalto non c’erano né crepe né rifiuti. Le vetrine dei negozi erano intatte, ma non vi erano merci in mostra. Gli Aalaag non tolleravano sporcizia o macerie; avevano spazzato via con eguale efficienza ed imparzialità i quartieri popolati delle grandi città e le rovine del Partenone ed Atene; ma il livello di vita permesso a gran parte dei loro sudditi umani era il minimo bastante a vivere, anche per quelli capaci di lavorare molte ore.
Ad un isolato e mezzo dalla piazza, Shane si infilò in una porta sotto la sagoma ora inerte di quella che era stata l’insegna al neon di un bar. Si trovò in un grande locale tetro che era rimasto pressoché immutato, a parte gli scaffali dietro il banco svuotati dalla moltitudine di bottiglie di liquore che una volta vi facevano bella mostra. Al giorno d’oggi era permesso fabbricare solo piccole quantità di liquore distillato. La gente beveva vino del posto o birra.
In quel momento il locale era affollato, in gran parte da uomini. Tutti erano silenziosi dopo l’episodio nella piazza; e tutti bevevano birra alla spina a sorsi rapidi e abbondanti da boccali di vetro alti e spessi. Shane si fece strada verso il punto di mescita nell’angolo in fondo, dove il barista disponeva i boccali pieni sui vassoi per l’unica cameriera che faceva la spola tra i tavoli e i separé sul retro del bar.
— Una — disse.
Un attimo dopo gli fu servito un boccale pieno. Pagò e appoggiò i gomiti sul banco, la testa fra le mani, fissando la profondità del liquido scuro.
Il ricordo dell’uomo morto sulle lame, coi capelli mossi dal vento, riaffiorò nella mente di Shane. Certo, pensò, non ci sarà qualche portento nella farfalla detta anche Pellegrino? Cercò di mettere l’immagine dell’insetto fra sé e il ricordo del condannato, ma qui, lontano dal cielo azzurro e dalla luce del sole, la piccola figura non prendeva forma nella sua mente. Per disperazione, Shane pensò ancora all’immagine che costituiva la sua consolazione privata — la visione dell’uomo incappucciato che poteva sfidare gli Aalaag e ripagarli per quello che avevano fatto. Riuscì quasi ad evocarla. Ma l’immagine del Vendicatore non voleva fissarsi nella sua mente. Continuava ad essere scacciata dal ricordo dell’uomo sulle lame…
— Undskylde! — gli disse una voce all’orecchio. — Herre… Herre!
Per una frazione di secondo le parole furono solo rumori estranei. Nell’emozione del momento era tornato a pensare in inglese. Poi i suoni si tradussero. Alzò lo sguardo sul viso del barista. Al di là, il bar era di nuovo già mezzo vuoto. Poca gente al giorno d’oggi poteva sottrarre più di qualche minuto al lavoro costante richiesto per non venire ridotti alla fame — o anche peggio, per non essere scacciati dal lavoro e diventare così dei vagabondi legalmente eliminabili.
— Mi scusi — ripeté il barista; e questa volta la mente di Shane era tornata in Danimarca. — Signore, lei non sta bevendo.