123649.fb2 Il raggio di Schwarzschild - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 2

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«Non potrebbero essere foruncoli?» azzardo, anche se naturalmente lui è perfettamente in grado di riconoscere una cosa semplice come i foruncoli, ma non mi sta ascoltando, e mi rendo conto che non è venuto da me per avere una diagnosi.

«L’uomo è uno scienziato, un ebreo di nome Schwarzschild in forza all’artiglieria,» dice, e poiché l’artiglieria è ancora più lontana dal fronte rispetto a noi, mi offro volontario per andare a vedere il paziente, ma non è nemmeno questo che vuole.

«Devo mettermi in contatto con il quartier generale medico, a Bialystok.» dice.

«La trasmittente è rotta,» dico, perché non voglio rivelargli per quale motivo mi sia impossibile trasmettere un messaggio per lui. Siamo autorizzati a inviare solo messaggi militari, e devono essere in codice telegrafico. Ci vorrebbero delle ore per mandare il suo messaggio, anche se t’osse possibile. Gli mostro il cavo troncato. «In ogni caso deve avere l’autorizzazione dal comandante,» aggiungo, ma lui sta già scrivendo il nome e l’indirizzo su un foglio di carta, come se questo fosse un ufficio telegrafico.

«Può trasmettere il messaggio quando la trasmittente sarà aggiustata. Ho scritto i sintomi.»

Rimonto la parte posteriore dell’apparecchio. In quel momento arriva Muller, che apre con un calcio la porta, e la neve irrompe turbinando, e facendo svolazzare il biglietto del dottor Funkenheld per tutta la trincea. Lo afferro prima che scenda a spirale verso la stufa.

«L’unità per la posa del filo spinato è stata tenuta inchiodata tutta la notte,» dice Muller mettendo sul tavolo una lampada portatile. Deve essersela procurata in infermeria. «Cinque di loro sono morti congelati, gli altri otto hanno tutti sintomi da assideramento. Il comandante pensa che forse stanotte ci sarà un bombardamento.» Non parla di Eisner, e non dice che cosa sia successo al resto dei trenta uomini che componevano la sua unità, ma io lo so. Se li è presi il fronte. Aspetto, stringendo il messaggio fra le dita intorpidite, e sperando che il dottor Funkenheld dirà: «Devo andare a occuparmi di quei soldati.»

«Fammi esaminare i tuoi occhi,» dice il dottore, e mostra a Muller come deve tenere la lampada. Entrambi mi scrutano gli occhi. «Ho una pomata che dovrai usare due volte al giorno,» dice, tirando fuori dalla borsa un flaconcino piatto. «Brucerà un poco.»

«Allora me lo sfrego sulle mani. Me le scalderà,» dico, pensando a Eisner congelato al fronte, forse con ancora il filo spinato fra le mani.

Mi tira giù la palpebra inferiore e ci sfrega sopra la pomata con il mignolo. Non brucia, ma dopo aver aperto e richiuso l’occhio tutto si colora di una tinta rossastra. «Ce la fate ad aggiustare la trasmittente per domani?» chiede.

«Non so. Forse.»

Muller non ha messo giù la lampada. Alla sua luce, vedo che si è completamente dimenticato dell’unità per la posa del filo spinato e del magnete russo, e si sta chiedendo invece cosa voglia farci il dottore con la trasmittente.

Il dottore si rimette i mezzi guanti e prende la borsa. Mi rendo conto troppo tardi che avrei dovuto proporgli di spedire il messaggio in cambio dei suoi guanti. «Verrò a controllarti gli occhi domani,» dice, e apre la porta facendo entrare la neve. Il suono del fronte è vicino.

Appena se ne è andato, riferisco a Muller di Schwarzschild e del messaggio che il dottore vuole spedire. Non mi lascerà in pace finché non gliel’avrò detto, e non c’è tempo da perdere per la sua curiosità. Dobbiamo aggiustare la trasmittente.

«Se lei era alla trasmittente, avrà dovuto mandare qualche messaggio a Schwarzschild,» disse Travers ansioso. «Ha mai inviato messaggi a Einstein? Hanno la lettera che Einstein gli scrisse dopo che lui ebbe esposto la teoria, ma se Schwarzschild gli avesse inviato qualche messaggio, sarebbe grandioso. Mi risolverebbe il lavoro.»

«Lei ha detto che nessun messaggio può uscire da un buco nero?» dissi. «Ma può farlo da una stella che collassa. Non è così?»

«Va bene,» disse Travers spazientito, e curvò di nuovo le dita a semicerchio. «Supponga di avere un osservatore fisso qua.» Allontanò la mano incurvata e tenne alto l’indice dell’altra a rappresentare l’osservatore fisso. «E c’è qualcuno nella stella. Diciamo che quando la stella inizia a collassare, la persona al suo interno emette un raggio luce in direzione dell’osservatore fisso. Se la stella non ha raggiunto il raggio di Schwarzschild, l’osservatore fisso potrà vedere la luce, ma ci vorrà più tempo perché questa lo raggiunga, dato che la gravità del buco nero sta attirando la luce al suo interno, dunque sembrerà che il tempo all’interno della stella scorra più lentamente, e le lunghezze d’onda saranno state allungate, per cui la luce sarà più rossa. Naturalmente questo è solo un problema ipotetico. Nessuno potrebbe mai trovarsi in una stella che collassa per inviare i messaggi.»

«Abbiamo spedito dei messaggi,» dissi. «Ho scritto a mia madre per chiederle di lavorarmi a maglia un paio di guanti.»

Ci sono ancora problemi con la trasmittente. Abbiamo ricevuto un solo messaggio in due settimane. Diceva: «La resistenza russa sta cedendo,» e c’era così tanta elettricità statica che non abbiamo capito il resto. Abbiamo smontato due volte la trasmittente, pezzo per pezzo. La prima volta abbiamo trovato un cavo staccato, ma la seconda niente. Se ci fosse Hans, troverebbe subito il problema.

«Ho una teoria sulla trasmittente,» dice Muller. Ha elaborato dieci teorie in altrettanti giorni: il magnete dei russi sta risucchiando i nostri segnali nella sua direzione; le luci settentrionali, che si sono spostate inquiete all’orizzonte, creano una cortina che blocca i segnali della trasmittente; la resistenza russa non sta cedendo affatto. Ci stanno attirando sempre più in una trappola.

Dico: «Ci provo ancora. Forse il problema si è risolto,» e mi metto le cuffie in modo da non dover ascoltare la sua nuova teoria. Riesco solo a sentire un ruggito assordante che mi sembra proprio il rumore del fronte.

Tiro fuori il foglio di carta piegato che mi ha dato il dottor Funkenheld e lo appoggio sulla trasmittente. Viene quasi tutte le sere a vedere se ho ricevuto risposte al suo messaggio, e io mi tolgo le cuffie e gli faccio ascoltare l’elettricità statica. Gli dico che non possiamo collegarci, e benché questo sia è vero non è il motivo reale per cui non ho spedito il messaggio. Ho paura che lo scopra il comandante. Ho paura che mi mandino al fronte.

Ho raggiunto un compromesso scrivendo una lettera al professore con cui ho studiato medicina a Jena, ma ancora non mi ha risposto, quindi devo continuare a fingere col dottore.

«Non ce n’è bisogno,» dice Muller. Si siede sulla trasmittente, con una gamba penzoloni. Prende il foglietto con i sintomi scritti sopra e lo avvicina alla fiamma della stufa. Tento di afferrarla ma ha già preso fuoco. «L’ho inviato io per te.»

«Non ci credo. Non è mai uscito nulla da qua dentro.»

«Non hai notato che le luci settentrionali non sono apparse ieri sera?»

Non l’avevo notato. La pomata che mi ha dato il dottore mi fa vedere tutto rosso di notte, e non credo alle teorie di Muller. «E non esce niente in questo momento,» dico, e gli passo le cuffie per fargli sentire il rumore delle scariche elettriche. Ascolta, ancora dondolando la gamba. «Ci inguaierai tutti e due, perché l’hai fatto?»

«Ero curioso.» Se ci mandano al fronte, la sua curiosità ci farà ammazzare. Smonterebbe una mina per vedere come funziona. «Non possiamo cacciarci nei guai finché si tratta di messaggi militari. Ho detto che il comandante aveva paura che i russi stessero usando un gas velenoso.» Continua a oscillare la gamba e sogghigna perché adesso sono io quello curioso.

«E allora, ti hanno dato una risposta?»

«Sì,» dice con tono esasperante, e si mette le cuffie. «Non è un gas velenoso.»

Alzo le spalle come se non mi importi nulla di ricevere una risposta. Mi metto il berretto e la sciarpa che mi ha lavorato mia madre e apro la porta. «Vado a vedere se è arrivata posta. Forse c’è una lettera del mio professore.»

«Natura della malattia sconosciuta,» urla Muller contro la violenza improvvisa della neve. «Forse impetigine o scompenso ghiandolare.»

Gli restituisco una sorriso fiacco e dico: «Se c’è un pacco da parte di mia madre, ti regalo metà di quello che c’è dentro.»

«Anche se ci fossero i guanti?»

«No, i guanti no,» rispondo, e vado a cercare il dottore.

Al posto di medicazione mi dicono che è andato a visitare Schwarzschild e mi indirizzano verso il quartier generale del corpo d’artiglieria. Non è tanto lontano, ma nevica e le mie mani sono già ghiacciate. Vado dal furiere e gli chiedo se è arrivata posta.

C’è una nuova recluta, che tenta di aggiustare la motocicletta di Eisner. Tutti i pezzi sono in terra, sparsi in cerchio intorno a lui. Indica un sacco di tela e dice: «È tutta la posta che c’è. Sfogliatela da solo.»

Della neve è entrata nel sacco e si è sciolta. L’inchiostro sulle buste si è stinto; le osservo da vicino, cercando di leggerne i nomi. Mi cominciano a far male gli occhi. Non c’è un pacco di mia madre o una lettera del mio professore, ma c’è una lettera per il luogotenente Schwarzschild. Il mittente è un “dottore.” Forse ha scritto lui stesso a un dottore.

«Porto un messaggio al quartier generale dell’artiglieria,» dico, mostrando la lettera alla recluta. «Consegno anche questa.» La recluta annuisce e continua a lavorare.

Nel frattempo si è fatto scuro, e nevica più fitto. Affondo le mani nelle tasche congelate della giacca e mi dirigo verso il quartier generale dell’artiglieria uscendo dalla parte posteriore. È buio pesto nelle trincee di comunicazione e il vento fa roteare la neve incanalandola ululante dentro di esse. Mi tolgo la sciarpa e me l’avvolgo attorno alle mani come un manicotto da donna.

Una striscia di rosso si muove inquieta all’orizzonte, ma non so se sia il fronte o le luci settentrionali di Muller, e non ci sono esplosioni che mi possano guidare. Siamo a corto di proiettili, per cui di solito non apriamo il fuoco prima delle nove. I russi cominciano ancora più tardi. A volte sento il suono delle mitragliatrici che fanno fuoco, ma viene distorto dalla neve e dal vento, e non potrei dire da che parte proviene.

Per quello che mi ricordo, la trincea di comunicazione sembra più stretta e profonda di quando io e Hans portammo su la trasmittente per la prima volta. Ci impiego molto più del previsto per giungere alla ramificazione che mi condurrà a nord verso il quartier generale. Il fronte si è andato ritirando, i depositi di munizioni, gli alloggi e gli ospedali di smistamento si sono avvicinati sempre più dietro a noi. Il quartier generale dell’artiglieria è stato spostato dal villaggio in superficie a un rifugio sotterraneo vicino alla linea dell’artiglieria, nemmeno un chilometro alle nostre spalle. Sta per cominciare il fuoco notturno. Sento un brontolio basso, come un tuono.

Sembra che il ruggito sia davanti a me, mi fermo e mi guardo intorno, chiedendomi se per caso non mi sia girato su me stesso, benché non abbia abbandonato le trincee. Riparto di nuovo, e quasi subito vedo la ramificazione e il quartier generale.

Non c’è porta, solo una coperta che chiude l’entrata, tolgo le mani dal manicotto e mi piego per infilarmi dentro a un buco piccolo come una tana di lepre, con il soffitto di terra sorretto da travi così basse che devo stare sempre curvo. Ora che sono uscito dal ruggito della neve, il suono del fronte si scinde nello scoppio singolo di un pezzo da quattro, il lamento di una granata illuminante, e al di sotto il crepitio quasi ininterrotto delle mitragliatrici. Le trincee devono essere meno profonde qui. Io e Muller non riusciamo quasi a sentire il fronte dalla baracca della trasmittente.

C’è un uomo seduto a un tavolo sghembo sul quale sono sparsi libri e fogli di carta. Sul tavolo c’è una candela con un tubo di vetro rosso, o forse solo a me sembra tale. Qualunque cosa nel rifugio, anche l’uomo, mi sembra vagamente rossa. Indossa un’uniforme senza giacca e guanti con le dita tagliate, ma non c’è nessuna stufa. Mi si sono già congelate le mani.

Un mortaio da trincea ruggisce, e zolle di terra ghiacciata si staccano dal soffitto franando sul tavolo a ciottoli. L’uomo spazza via la terra dalle carte e alza lo sguardo.

«Cerco il dottor Funkenheld,» dico.

«Non c’è.» Si alza in piedi e gira intorno al tavolo, con movimenti rigidi, come un vecchio, sebbene non sembri aver superato i quaranta. Porta i baffi, e la sua faccia mi sembra sporca nella luce rossa.

«Ho un messaggio da consegnargli.»

Ruggisce un pezzo da otto, e ci cade addosso altra terra. L’uomo alza il braccio per togliersi la terra dalla spalla. La manica dell’uniforme è stata fatta a brandelli. Tutto il dorso della mano che ha sollevato e il lato del braccio sono ricoperti di piaghe rosse piene di pus. Lo osservo di nuovo in faccia. Le piaghe sui baffi e intorno al naso e la bocca si sono seccate e hanno fatto la crosta. Escoriazioni. Bolle in suppurazione. Il cannone ruggisce di nuovo e altra terra gli cade sulle mani spellate.