123649.fb2 Il raggio di Schwarzschild - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 3

Il raggio di Schwarzschild - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 3

«Ho un messaggio da consegnargli,» ripeto, ritraendomi. Infilo la mano nella tasca della giacca per fargli vedere il messaggio, e invece ne viene fuori la lettera. «C’era una lettera per lei, tenente Schwarzschild.» Gliela passo tenendola per un angolo in modo che non mi tocchi quando la prende.

Mi si avvicina per prendere la lettera, contraendo i muscoli della mascella, e penso con orrore che deve avere delle piaghe anche sulle gambe. «Chi è il mittente?» dice. «Ah, Herr professor Einstein. Bene,» e la gira. Mette le dita sul lembo per aprirla e urla di dolore. La lettera gli cade in terra.

«Me la leggerebbe lei?» chiede, e crolla sulla sedia, appoggiando la testa contro il petto. Vedo che anche le unghie sono piagate.

Le mie mani non sentono più nulla. Prendo la busta dagli angoli e la giro. Un po’ di pelle del suo dito è rimasta attaccata al lembo. Mi allontano dal tavolo. «Devo trovare il dottore, è un’emergenza.»

«Non lo troverebbe,» dice. Il sangue gli gocciola dalla punta del dito scendendo giù fino alla piega sull’unghia. «È andato al fronte.»

«Che?» domando, continuando ad arretrare finché arrivo alla coperta. «Non la capisco.»

«È andato al fronte,» mi spiega, più lentamente, e stavolta riesco a decifrare le parole, ma non hanno senso. Come fa il dottore a stare al fronte? È questo il fronte.

Spinge la candela dalla mia parte. «Le ordino di leggermi la lettera.»

Non sento più niente nelle dita. Apro la busta da un lato, quasi strappando la lettera in due. È una lettera lunga, piena di equazioni e cifre, ma le parole sono deformate e si leggono a fatica. «“Mio stimato collega! Ho letto la sua dissertazione con estremo interesse. Non mi aspettavo che si potesse formulare la soluzione esatta del problema in modo così semplice. La trattazione analitica del problema mi sembra splendida. Giovedì prossimo presenterò il lavoro all’Accademia con diversi interventi chiarificatori!”»

«Formulata in modo così semplice,» dice Schwarzschild, come se stesse soffrendo. «Basta così. Metta giù la lettera. Finisco di leggerla da solo.»

Appoggio la lettera sul tavolo davanti a lui, e un attimo dopo sono giù in trincea che corro nel buio con il suono del fronte che mi circonda, un ruggito che scuote la terra. Alla prima curva, Muller mi afferra un braccio e mi blocca. «Che ci fai qui?» grido. «Torna indietro! Indietro!»

«Indietro?» dice. «Il fronte è da quella parte.» Indica la direzione da cui è venuto. Ma il fronte non è da quella parte. È dietro di me, nel quartier generale dell’artiglieria. «Ti avevo detto che ci sarebbe stato un bombardamento stanotte. Hai visto il dottore? Gli hai dato il messaggio? Che ha detto?»

«Dunque lei ha davvero tenuto in mano la lettera di Einstein?» chiese Travers. «Dev’essere stato eccitante! Solo due mesi dopo Einstein rese pubblica la sua teoria della relatività generale. E anni prima che ci si rendesse conto dell’esistenza dei buchi neri. Quando è stato esattamente?» Tirò fuori un quadernetto e iniziò a scribacchiarci sopra degli appunti. «Mio stimato collega…» borbottò fra sé e sé. «Formulata in modo così semplice. Questa roba è grande. Cioè, sono stato mesi e mesi alla ricerca di materiale su Schwarzschild per il mio saggio, ma praticamente non c’è niente su di lui. Immagino a causa della guerra.»

«Nessuna informazione esce da un buco nero una volta oltrepassato il raggio di Schwarzschild,» dissi.

«Ehi, forte!» esclamò, scarabocchiando di nuovo. «Posso utilizzarlo nella mia ricerca?»

Adesso sono io quello che siede ininterrottamente davanti alla trasmittente a spedire messaggi alla Croce Rossa, al mio professore a Jena, al dottor Einstein. Mi si sono congelati l’indice e il pollice della mano destra e devo battere sui tasti con la sinistra. Ma non parte niente, e io devo assolutamente riuscirci. È necessario che qualcuno mi dica il nome della malattia di Schwarzschild.

«Ho una teoria,» dice Muller. «Gli ebrei hanno preso il potere e hanno firmato un trattato coi russi. Siamo totalmente tagliati fuori.»

«Vado a vedere se c’è posta,» dico, in modo da non dover più ascoltare altre sue teorie, ma il dottore mi ferma mentre sto uscendo dal rifugio.

Gli riferisco il messaggio. «Impetigine!» urla il dottore. «L’hai visto! Ti sembrava impetigine?»

Scuoto la testa, dato che è impossibile dirgli ciò che mi sembrava.

«Che sintomi presenta?» chiede Muller, ardente di curiosità. Non gli ho parlato di Schwarzschild. Ho paura che se gliene parlassi diventerebbe solo più curioso e insisterebbe per andare al fronte a vederlo di persona.

«Fammi dare una controllata ai tuoi occhi,» dice il dottore nella sua bella voce rassicurante. Vorrei tanto che chiedesse a Muller di andare a prendere un’altra lampada per potergli domandare come sta Schwarzschild, ma si è portato una candela. Me la tiene così vicina al viso che riesco a vedere solo la fiamma rossa.

«È peggiorato il tenente Schwarzschild? Che sintomi presenta?» chiede Muller, piegandosi in avanti.

I sintomi sono crateri di proiettili, penso. Mi pento di non averne fatto parola con Muller perché adesso è solo più incuriosito di prima. Fino a ora gli ho detto tutto, anche come è morto Hans quando hanno colpito la baracca della trasmittente, come ha appoggiato delicatamente la valvola autoregolatrice sopra la trasmittente prima di provare a espellere tossendo quello che gli rimaneva del petto e prenderlo con le mani. Ma questo non glielo posso dire.

«Quali sono i suoi sintomi?» insiste Muller, con il naso quasi sulla fiamma, ma il dottore gli volta le spalle come se non lo sentisse e spegne la candela. Il dottore toglie la fasciatura e mi dà un’occhiata alle dita. Sono gonfie e rosse. Muller fa capolino da dietro le spalle del dottore. «Ho una teoria sulla malattia del tenente Schwarzschild,» dice.

«Sta’ zitto,» dico. «Ne ho abbastanza delle tue stupide teorie,» e non mi importa nemmeno del suo sguardo offeso e di come se ne torni a sedere vicino alla trasmittente. Perché adesso ce l’ho io una teoria, ed è molto più terribile di qualunque cosa Muller possa immaginarsi.

Tutti noi, Muller e la recluta che tenta di rimettere insieme la motocicletta di Eisner e forse anche il dottore con la voce pacata da capezzale, abbiamo paura del fronte. Ma questa paura non è completa, perché al suo interno giace inespressa la convinzione che il fronte sia qualcosa di separato da noi stessi, qualcosa dal quale ci si può tenere a distanza occupandosi della trasmittente o aggiustando la motocicletta, qualcosa cui possiamo sopravvivere schiacciando il volto nella terra ghiacciata, e anche qualcosa da cui possiamo fuggire facendoci riformare.

Ma il fronte non è separato. È dentro Schwarzschild, e i sintomi che ho comunicato quando ho spedito il messaggio all’esterno, escoriazioni e bolle in suppurazione, non sono proprio il suo problema principale. Le lesioni sulla pelle sono solo il filo spinato e le trincee di collegamento e i crateri da proiettili di un fronte che sta da qualche parte dentro di lui.

Il dottore mi applica una nuova fasciatura di garza sulla mano. «Ho provato a far riformare Schwarzschild,» dice, e Muller lo osserva, sbalordito. «Le linee di rifornimento sono bloccate dalla neve.»

«Schwarzschild non può essere riformato,» dico. «Il fronte è dentro di lui.»

Il dottore rimette a posto il rotolo di garza e chiude la borsa. «Quando la strada verrà sgombrata, ti faccio riformare per sintomi da assideramento. Anche Muller.»

Muller è tanto sorpreso che si lascia sfuggire: «Non ho sintomi da assideramento.»

Ma il dottore non ascolta più. «Dovete fuggire entrambi,» dice, e non sono nemmeno sicuro che si stia ascoltando mentre lo dice, «finché potete.»

«Ho una teoria sul perché non mi hai parlato dei problemi di Schwarzschild,» dice Muller appena il dottore se ne è andato.

«Vado a prendere la posta.»

«Non ce ne sarà,» mi urla dietro Muller. «Le linee di rifornimento sono bloccate.» E invece c’è posta, sparpagliata fra i pezzi della motocicletta. Ne mancano solo pochi. Appena la strada verrà liberata, la recluta potrà montare in sella e andarsene.

Raccolgo le lettere e le porto alla luce della lanterna per leggerle, ma i miei occhi sono messi proprio male, non vedo altro che macchie rosse. «Le porto alla baracca della trasmittente,» dico, e la recluta annuisce senza nemmeno girarsi.

Comincia a nevicare. Muller mi intercetta sulla porta ma io entro passandogli accanto e alzo al massimo la fiamma della stufa, tenendoci le lettere dietro.

«Te le leggo io,» dice Muller curioso, frugando tra le buste che ho scartato. «Guarda qua, c’è una lettera di tua madre. Forse ti ha mandato i guanti.»

Osservo minutamente le lettere una per una mentre lui apre per me quella di mia madre. Sebbene le tenga cosi vicine alla fiamma che la carta si comincia a bruciacchiare, non riesco a distinguerne i nomi.

«“Caro figlio,”» legge Muller, «“non ho tue notizie da tre mesi. Ti hanno ferito? Stai male? Ti serve niente?”»

L’ultima lettera è da parte del professor Zuschauer a Jena. Riesco a leggerne il nome abbastanza chiaramente nell’angolo della busta, ma il mio è solo una macchia illeggibile. La apro. Non c’è scritto niente sulla carta rossa.

La passo a Muller. «Leggimela,» dico.

«Non ho ancora finito quella di tua madre,» dice Muller, ma poi prende la lettera e la legge: «“Caro Herr Rottschieben, ho ricevuto la sua lettera ieri. Quasi non riuscivo a capire la sua scrittura. Non avete penne decenti al fronte? La malattia di cui mi parla si chiama malattia di Neumann o pemfigo…”»

Gli strappo via la lettera dalle mani e corro verso la porta. «Fammi venire con te!» strilla Muller.

«Devi rimanere a controllare la trasmittente!» rispondo euforico, correndo poi lungo la trincea di comunicazione. Schwarzschild non ha il fronte dentro. Ha il pemfigo, ha la malattia di Neumann, e ora lo si può riformare e mandare a casa, in ospedale.

Cado e penso di essere inciampato su un elmetto o una scatoletta di carne gettati via, ma c’è un crollo, e terra e materiale di rinforzo mi cadono tutto attorno. Sento il ronzio basso di una bomba antiuomo e mi appiattisco nella trincea, ma il ronzio non si trasforma in lamento. Si interrompe, c’è un altro crollo e la trincea mi frana addosso.

Mi arrampico mani e piedi fuori dalla trincea prima che mi soffochi e striscio lungo il bordo verso il rifugio sotterraneo di Schwarzschild, ma la trincea è franata in tutta la sua lunghezza e quando emergo al di sopra della terra crollata, mi smarrisco nel turbinio della neve.

Non saprei dire da che parte è il fronte, ma sento che è molto vicino. Il rumore mi giunge da tutte le direzioni, un ruggito assordante nel quale non si distingue alcun singolo suono. La neve è tanto fitta che non riesco nemmeno a vedere le vampate di fuoco dei cannoni quando sparano, e non c’è tratto dell’orizzonte che sembri più rosso dell’altro. È tutto rosso, anche la neve.

Striscio in direzione di ciò che suppongo sia la trincea, ma appena lo faccio mi trovo nel filo spinato. Mi fermo, col fiatone, faccia e mani immerse nella neve. Sono dalla parte sbagliata. Sono al fronte. Distinguo un suono all’interno della confusione generale, un rumore di copertoni sulla neve, e penso che sia un carro armato e proprio non ce la faccio a respirare. Il rumore si fa più vicino, ma riesco ad alzare gli occhi e vedo la recluta che lavorava in fureria.