123649.fb2 Il raggio di Schwarzschild - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 4

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È molto lontano, al di là di un filo spinato tutto attorcigliato, ma lo distinguo abbastanza chiaramente a dispetto della neve. Ha aggiustato la motocicletta, e mentre lo sto a guardare vi si lancia a cavalcioni e preme sull’acceleratore. «Vai!» urlo. «Vattene via!» La motocicletta fa un salto in avanti. «Vai!»

La moto si dirige verso di me, in piena accelerazione. Si impenna, e penso che stia per saltare sopra il filo spinato, e invece crolla in terra, prima il veicolo e poi la recluta che rotolano lentamente fino a incastrarsi negli spuntoni di ferro. La terra trema e cado anch’io.

Sono finito nel rifugio di Schwarzschild. Metà è franato, con le travi di legno che spuntano ormai a pezzi dal mucchio di terra e neve, ma la coperta è ancora sulla porta, e Schwarzschild se ne sta appoggiato a una sedia. Il dottore è piegato su di lui. Schwarzschild si è tolto la camicia. Sembra che al petto gli sia accaduto la stessa cosa successa ad Hans.

Il fronte ruggisce e crolla un’altra parte del soffitto. «È tutto a posto! È una malattia!» urlo cercando di farmi sentire. «Le ho portato una lettera per dimostrarglielo,» e gli passo la lettera che ho tenuta stretta nella mia mano insensibile.

Il dottore afferra la lettera. La neve entra vorticosa attraverso il tetto distrutto, ma Schwarzschild non si rimette la camicia. Rimane a osservare, apatico, mentre il dottore legge.

«“I sintomi di cui mi parla sono quasi sicuramente quelli della malattia di Neumann o pemfigo comune. Ho avuto in cura due pazienti con questa malattia, entrambi ebrei. È una malattia delle membrane mucose e non è contagiosa. Le cause sono sconosciute. Conduce sempre alla morte.”» Il dottor Funkenheld appallottola la carta. «Si è fatto tutta questa strada in mezzo a un bombardamento per dirmi che non c’è speranza?» grida con una voce che non riconosco nemmeno, tanto è differente dal suo pacato tono da dottore. «Avrebbe dovuto tentare di fuggire. Avrebbe…» e sparisce sotto una frana di terra e schegge di legno.

Mi faccio strada verso Schwarzschild nel maelstrom di polvere rossa e neve. «Si rimetta la camicia!» gli urlo. «Dobbiamo andarcene!» Striscio verso la porta per vedere se si riesce a uscire dalla trincea di comunicazione.

Muller entra tirando via la coperta. Trasporta in mano, incredibile a credersi, la trasmittente. Dietro a lui seguono le cuffie nella neve. «Sono venuto a vedere che cosa ti era successo. Pensavo che fossi morto. Le trincee di comunicazione sono state fatte a pezzi.»

Era come temevo. La curiosità ha avuto la meglio su di lui e adesso è intrappolato anche lui, benché non sembri rendersene conto. Mette la trasmittente sul tavolo senza guardare. Tiene gli occhi su Schwarzschild, appoggiato contro ciò che rimane del muro del rifugio, con la camicia sulle mani.

«La camicia!» grido, e giro intorno al tavolo per aiutare Schwarzschild a metterla sopra i crateri da proiettili della sua pelle distrutta. Il vento urla entrando dall’imboccatura del rifugio. Afferro il braccio di Schwarzschild e la sua pelle mi rimane attaccata alle mani. Si accascia sul tavolo e la trasmittente si rovescia. Riesco a sentire il tintinnio della valvola che va in pezzi, dopodiché il rifugio crolla del tutto e ci ritroviamo sotto il tavolo. Non vedo niente.

«Muller!» strillo. «Dove sei?»

«Sono ferito,» dice.

Lo cerco nell’oscurità, ma sono incastrato sotto Schwarzschild e non riesco a muovermi. «Dove sei ferito?»

«Al braccio,» risponde, e sento che prova a muoverlo. Lo spostamento rimuove altra terra che ci cade intorno, escludendo ogni suono proveniente dal fronte. Sento lo scricchiolio delle gambe del tavolo che stanno per spezzarsi.

«Schwarzschild?» dico. Non risponde, ma so che è ancora vivo. Il suo corpo scotta come la stufa. La mia mano è sotto di lui e provo a spostarla, inutilmente. La terra cade come neve, accumulandosi intorno a noi. L’oscurità si colora di rosso per un po’, poi non vedo nemmeno quella.

«Ho una teoria,» dice Muller con una voce così priva di curiosità che potrebbe essere la mia. «È la fine del mondo.»

«È stato in seguito a ciò che Schwarzschild fu congedato per malattia?» chiese Travers. «O riformato, o come dite voi tedeschi? Be’, sì, per forza, visto che è morto a marzo. Che ne è stato di Muller?»

Avevo sperato che se ne andasse via dopo avergli detto quello che era successo a Schwarzschild, ma non aveva fatto alcuna mossa per andarsene. «Muller è stato riformato con un braccio rotto. È diventato uno scienziato.»

«Come lei.» Aprì di nuovo il quadernetto. «In seguito ha più rivisto Schwarzschild?»

La domanda è insensata.

«Dopo essere usciti da lì? Prima della sua morte?»

Apparentemente ci vuole molto tempo perché le sue parole mi raggiungano. Il messaggio si piega e si distorce spostandosi verso il rosso, e quasi non riesco a distinguerlo. «No,» rispondo, benché sia una bugia.

Travers scarabocchia. «Le sono molto grato di tutto, dottor Rottschieben. Sono sempre stato incuriosito da Schwarzschild, e ora che mi ha raccontato tutta questa storia, lo sono ancora di più,» dice Travers. I messaggi in arrivo sono distorti dalla bufera gravitazionale e trasformati in qualcosa di assolutamente diverso da un discorso. «Se mi volesse aiutare, mi piacerebbe scrivere la tesi su di lui.»

Vai. Vai via. «Era una bugia,» dico. «Non ho mai conosciuto Schwarzschild. L’ho visto una volta, da lontano… come suo osservatore fisso.»

Travers alza lo sguardo dai suoi appunti con aria speranzosa, come se ancora aspettasse la mia risposta.

«Schwarzschild non è nemmeno stato mai in Russia,» dico mentendo. «Ha passato tutto l’inverno in ospedale a Göttingen. Le ho mentito. Era solo un problema ipotetico.»

Aspetta, con la matita pronta.

«Non può rimanere là!» grido. «Deve andarsene. Non c’è una distanza di sicurezza alla quale un osservatore fisso si può tenere senza venire risucchiato, e una volta dentro il raggio di Schwarzschild, non c’è via di uscita. Ma non capisce? Siamo ancora là!»

Siamo ancora là, intrappolati nelle trincee del fronte russo, mentre la stella morente si estingue, scendendo a spirale verso quel centro dove il tempo cessa di esistere, dove ogni cosa cessa di esistere a parte la nuda singolarità che in qualche modo è Schwarzschild.

Muller tenta di tirare fuori dalla terra la trasmittente con il braccio rotto per inviare un messaggio che nessuno ascolterà: «Aiuto! Aiuto!», e io mi dibatto per liberarmi le mani che, nonostante il calore di Schwarzschild, sono tanto fredde che non le sento più, e proprio al centro c’è Schwarzschild che si estingue, il buco nero dentro di lui che lo fa implodere cellula dopo cellula, trascinandolo nell’oscurità, e noi con lui.

«È una trappola!» grido a Travers dal centro, e il messaggio lotta per uscire, tornando poi indietro.

«Mi domando come abbia fatto ad arrivarci.» dice Travers, e adesso lo sento distintamente. «Voglio dire, si può immaginare di dover elaborare qualcosa come la teoria dei buchi neri nel bel mezzo di una guerra e mentre si è affetti da una malattia mortale? E ci pensi un po’, quando scoprì la teoria non aveva alcuna idea dell’esistenza dei buchi neri.»