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Capitolo OttavoLa fine del mondo

«Di che cosa sono fatte le bambine? Contengono destrosio, maltosio, glutammato monosodico, atomi e coloranti artificiali; con aggiunta di propionato di sodio per ritardare il deperimento.»

VECCHIO DETTO

Sebbene il giornalista della televisione sembrasse in preda all’isterismo, Susie Suggs non era per niente agitata. In effetti, non guardava neppure lo schermo del televisore portatile: le serviva solo come peso piatto sulla pancia, mentre eseguiva gli esercizi di respirazione profonda secondo l’insegnamento del rotocalco Lady Fair. Gli esercizi le mettevano sonno, e la voce della minuscola figura sembrava affievolirsi in un ronzio di zanzara. Sembrava quasi che un omettino piccolo piccolo le spuntasse dalla pancia: ma quell’idea era così vagamente inquietante che la svegliò del tutto. Dimenticandosi di contare i respiri, Susie cominciò a prestare attenzione al televisore.

«È un subdolo attacco dei russi? Oppure una delle nostre armi segrete ci è orribilmente sfuggita di mano? Oppure si tratta di qualcosa che siamo ancor meno preparati ad affrontare, un’invasione di esseri extraterrestri? Sapremo tutto fra pochi istanti, dopo questo comunicato commerciale della Vortex Corporation.»

Lo schermo diventò bianco, poi mostrò un grosso missile candido in una rete di nere cancellate di ferro. Il fuoco eruppe dagli ugelli e il cilindro gigantesco si sollevò nell’oscurità.

«Ecco… il Moloch!» intonò con voce solenne un annunciatore. «La più recente arma americana! Guardate come fila!» Il missile salì, si inclinò, e sparì nella notte. «E adesso, guardate il Moloch che distrugge questo simulacro di villaggio nemico!» Qualcosa di bianco piombò a capofitto in un villaggio tra l’erba, e tutti e due esplosero contemporaneamente («Evviva!» gridò l’annunciatore) in un attimo di bagliore accecante.

Stacco, poi inquadratura di un complesso laboratorio, dove un gruppo d’uomini in camice bianco e con le cuffie in testa osservava, su una dozzina di piccoli monitor televisivi, la scena della distruzione.

«Questi uomini esperti e geniali hanno progettato Moloch. Essi fanno parte della Sezione Missilistica della Vortex, uno dei tanti programmi con cui la Vortex si propone di rendere sempre più forte l’America. Ogni uomo, qui, è un genio, interamente votato al nostro programma missilistico in espansione incessante. Sono stati loro a risolvere i problemi del lancio e della guida del Moloch… e di altri diciassette missili militari. Sì, alla Vortex, la rappresaglia è una filosofia di vita.

«La Vortex è molte cose per molta gente. Vediamo qui un’acciaieria diretta dai computer prodotti dalla Sezione Apparecchiature della Vortex. E qui,» disse l’annunciatore, e Susie si interessò maggiormente alla scena, poiché rappresentava una sala operatoria, «qui vediamo il dottor Toto Smilax che esegue un intervento chirurgico a cuore aperto… con un bisturi prodotto dalla Sezione Coltelleria della Vortex.

«Vortex!» esclamò concludendo l’annunciatore. «Prima in guerra e prima in pace… e prima nell’arrivare al cuore dei suoi compatrioti.»

Ricomparve il giornalista. «Altoona, Nevada,» disse. «Fino ad oggi, una delle tante cittadine del West. Adesso… chissà! Forse la vita continua come al solito ad Altoona… a quanto ne sappiamo. Ma da questa mattina presto c’è stata una totale censura sulle notizie, imposta dagli sforzi congiunti dell’FBI, della CIA, e della National Security Agency. Ci è stato impossibile stabilire un qualunque contatto con la cittadina.

«Che cos’è accaduto? In tutta sincerità, non lo sappiamo. Potrebbe trattarsi, come insinuano alcuni, di un’invasione russa, o addirittura d’una invasione extraterrestre. Altre fonti più responsabili ritengono che si tratti invece di una specie d’esperimento, e almeno una fonte solitamente attendibile ipotizza che potrebbe essere un’arma segreta sfuggita al controllo. Noi non lo sappiamo.» Ogni volta che ripeteva questa frase, il viso del giornalista sembrava un po’ più raggrinzito, un po’ più vicino alle lacrime. Per altri quindici minuti disse a Susie tutte le altre cose che non si sapevano. Poi l’annunciatore, con quella sua voce accattivante, che faceva scorrere caldi, piacevoli fremiti nel pancino di Susie, ritornò per presentare il missile Hermes-Aphrodite a due stadi. La pubblicità era così stupida, pensò Susie, riprendendo gli esercizi di respirazione.

Guardò l’orologio Lifetime e notò che si stava facendo molto tardi. Doveva sbrigarsi a prepararsi per uscire con Ron. E aveva avuto intenzione di studiare per la prova di Chimica Organica in programma per lunedì mattina. Era sabato sera e lei non aveva neanche aperto il libro!

In fretta, Susie fece una doccia con Nice, il sapone attivo ventiquattro ore su ventiquattro, che liquida gli odori che agli altri saponi sfuggono, e si passò addosso abbondantemente lo SHUR, per essere proprio sicura di averli eliminati tutti. Dopo essersi cosparsa di talco Lady Clinge, si infilò nella guaina-mutandina Modaform sei volte elastica, la guaina mutandina che r-e-s-p-i-r-a, poi mise il reggiseno Sportivo Modaform, e cominciò a darsi il profumo Classique, il profumo che fa di ogni donna un’imperatrice, di ogni uomo uno schiavo.

Dopo aver indossato il maglione nero e la gonna nera, Susie sedette alla toeletta per farsi la faccia. Dopo aver coperto le lentiggini dorate con il fondotinta blanc, si incipriò con la cipria Kown di Rubella Gorne. E si diede, sulla bocca perfetta, un rossetto bianco che si chiamava Eraser.

Per gli occhi, Susie scelse il solito assortimento di ombretti di Nora Hart, soprattutto ostrica e verde colibrì, ma sfumati con tocchi di borgogna e bronzo. Poi, dopo essersi spazzolati i capelli ed averli spruzzati abbondantemente di Airnet, non le restò altro che scegliere i gioielli.

Su un vassoio di velluto, nel cofanetto di Susie, erano appuntati il distintivo ΔKE di Bob, il distintivo di Giovane Repubblicano di Len, e il distintivo del Vietnam di Jim. Le sue dita passarono su questi, senza fermarsi neppure su Vivi allegro! della Pepsi Cola, Dai, Marmotte! o Vinci con Dewey! ma arrivarono in fondo alla fila e scelsero il Mandala della Pace che le aveva regalato Ron. Mentre se lo stava appuntando, sua madre comparve sulla porta.

«C’è quell’orribile Ron,» bisbigliò la madre, teatralmente. «Oh, mi rincresce tanto che non mi vada a genio, cara, ma è così… così sfuggente. E porta sempre vestiti vecchi. E adesso… adesso si fa addirittura crescere la barba! Ugh!»

Reprimendo a stento la sua repulsione a quel pensiero, Susie disse: «Ma vedi, mamma, è uno dei ragazzi più ricchi di tutta Santa Filomena. Ci terrai, spero, che io abbia un bell’avvenire?»

«Non lo so. Proprio non lo so.» Il viso abbronzato di Madge si incise di rughe di preoccupazione. «Ho sposato tuo padre perché aveva un brillante avvenire nella compagnia d’assicurazione. E guardami un po’ adesso!»

Susie guardò sua madre e vide un’attraente donna di mezza età che sembrava uscita dalle pagine di Lady Fair, al quale Madge del resto era abbonata: capelli scuri striati d’argento, una snella figura da ragazzina; l’unica cosa che tradiva l’età erano le lievi rughe del volto. Susie si augurò fervidamente di poter avere anche lei quell’aspetto, a trentacinque anni.

Madge continuò: «Mi rendo conto che non dovrei cercare di dirti come devi vivere, dopo lo sbaglio che ho commesso io. Tutte le volte che penso a quel mascalzone di tuo padre, e a come si diverte laggiù con quelle sue ragazze dell’harem… neanche una cartolina in più di tre mesi! Bene, oggi sono stata dall’avvocato, e gli intento causa di divorzio. Se lui vuole divertirsi, posso farlo anch’io! Finché il gatto non c’è, i topi ballano!»

Madge aveva l’aria di aver bevuto. Si avvicinò a passi incerti allo specchio e si esaminò gli occhi, tirando di qua e di lì la pelle delle palpebre. Quasi non si accorse che Susie aveva infilato gli stivali di feltro bianco, le aveva dato un bacio di saluto e aveva detto: «Così si fa, mammina! Piglialo a calci nel… nel sedere! Ciao!»

Presso il campus dell’University of California, a Santa Filomena, c’era una strada che ostentava quattro caffè ben frequentati, ma nessuno era popolare quanto The Blue Tit, il Capezzolo Azzurro o la Cinciallegra Azzurra, a seconda di come si preferiva interpretarlo. Per evitare fastidi con le autorità universitarie, il padrone del caffè, Kevin Mackintosh, aveva dipinto sull’insegna una bella cincia azzurra. Come avveniva in tutte le serate festive, una folla s’era riversata nel Blue Tit per ascoltare musica folk e poesia; ma quella sera era una folla cupa e depressa. Molti, come Susie e Ron, erano arrivati in motocicletta sotto l’acquerugiola, e la sala era piena di vapore e dell’odore acido della lana bagnata.

Su di un podio in fondo alla stretta sala, un poeta stava leggendo a voce alta un foglio che teneva molto vicino alla faccia. Quando lui si girò per mettersi meglio nella luce, Susie riconobbe Kevin Mackintosh.

«Tempopoesia numero quattordici,» lesse.

«Johnson nell’Omaha: sonori ticchetti dall’interno dell’orologio.Deve esserci sempre una vittimaNel passo freddo segretoNessun altro motivo che il patriottismoe il puro disgusto.Ritorna al lavoro, senza stivali.Qui ricerca uno spirito esplosivo.»

«Cribbio!» esclamò Susie. «Gli esplosivi mi fanno venire in mente che avrei dovuto studiare per la prova di Chimica Organica di lunedì.»

«Ssst,» disse Ron. «Dopo domani non ci sarà più un altro giorno.»

«Non so neanche la nomenclatura di Ginevra, niente di niente.»

Ron sorrise. Kevin Mackintosh la guardò incredulo. «La nomenclatura di Ginevra è finita,» disse. «E anche la Convenzione di Ginevra. E anche Ginevra.»

«È la fine del mondo,» spiegò Ron.

«È vero,» disse qualcun altro. «La tromba del giudizio ha già squillato.»

«Cosa vorreste dire?» chiese Susie, con un lieve sorriso. «Non ho mica capito.»

«È la fine di tutto, pupa,» disse Ron. «Come dicono alla radio. Non hai sentito i notiziari?»

«Questa è la nostra festa della fine del mondo,» annunciò Kevin. «Portate chi volete.»

Qualcuno ridacchiò, ma il poeta non sorrideva.

«Per favore, qualcuno vuol dirmi cos’è questa storia?» chiese Susie. Pensava e pensava, ma non riusciva a ricordare cosa aveva sentito al telegiornale delle sei.

«Quella cosa ad Altoona, Nevada,» spiegò Ron, «è un missile russo, oppure l’Orrore da un Altro Mondo, oppure uno dei nostri incubi urlanti. Se è un missile dei russi, rappresaglia nostra. Poi rappresaglia loro. Eccetera, fine.

«Se è una cosa venuta dallo spazio, perché il governo insabbia tutto? Perché è qualcosa di veramente orribile, come un essere che ha inghiottito tutta la città, oppure dei mostri atomici che lanciano raggi X dappertutto. Qualcosa che noi non possiamo fermare, che finirà per vincere.

«Se è una delle nostre armi sfuggita al controllo, cosa può essere? Qualche bomba? Non è probabile, altrimenti le altre nazioni starebbero già facendo un chiasso d’inferno. Molto più probabilmente una malattia atroce… diciamo un cancro contagioso universale.»

Nella sala, tutti tacevano. Si rannicchiavano l’uno contro l’altro, nella semioscurità, attendendo la fulminea luce accecante che li illuminasse e li trasfigurasse nell’istante finale. Le azioni e le parole più importanti non avevano senso, le più banali erano cariche di significato, quasi elevate alla dignità di sacramento.

Susie si sentì venire le lacrime agli occhi. Le sembrava così ingiusto. Lei aveva diciassette anni ed era ancora vergine, e adesso era troppo tardi. Desiderava soprattutto rinunciare alla sua inutile, piccola virtù, ora che veniva la fine di Tutto, ma in un certo senso era un sacrificio troppo piccolo: e poi c’era sempre la possibilità che il mondo non finisse, e allora come avrebbe fatto a spiegarlo a Madge? All’improvviso, furiosamente, Susie provò un sentimento d’odio per la Fine del Mondo! Avrebbe voluto strapparle gli occhi!

«Ma… ma… credo che dovremmo uscire a protestare!» dichiarò alzandosi. Gli altri la fissarono, senza capire cosa intendeva dire. «Non hanno il diritto di farci una cosa simile! Non hanno il diritto di toglierci in questo modo il mondo, quei porci egoisti!»

Uno dei giovani esplose all’improvviso in una risata acuta. «E cosa credi che dovremo fare?» chiese, beffardo. «Scrivere ai nostri deputati al Congresso?»

«No,» disse Susie, seria seria. «Ma non credo che risolveremo niente a starcene qui seduti a piangere, santo cielo! Dobbiamo uscire… e protestare! Dovremmo marciare su quell’Alt… quel posto, insomma, e dire chiaro e tondo cosa ne pensiamo di loro!» Pestò sul pavimento lo stivaletto bianco. «Oppure lasceremo che ci portino via tutto

La sala era tutta un frastuono. Alcuni l’incitavano a continuare, altri riflettevano sulle sue parole. L’atteggiamento sprezzante di Susie era magnifico. Qualcuno cercò invano di far notare che la protesta contro l’inevitabile era inutile.

«Be’, certo che è inutile!» scattò Susie. «Non sono tanto scema da non capirlo! Ma è ancora più inutile starcene qui seduti… a bollire, no?»

«Credo che abbia ragione lei,» fece Ron, sogghignando. «Perché diavolo non andiamo laggiù a protestare? Sono soltanto dieci ore di macchina.»

«Protestare contro cosa?» chiese Kevin. «Contro la fine del mondo?»

«Sicuro, perché no?» fece Ron. «Come nell’Attacco degli Uomini-Fungo: tutti protestavano contro gli esperimenti pericolosi, giusto? Come in Goz, dove facevano dimostrazioni contro l’impotenza dell’esercito, vi ricordate? E nel Giorno che la Terra prese freddo…»

«Va bene, va bene, ma per che cosa stiamo protestando?» chiese Kevin. «Se posso essere così stupido.»

«Per esempio, contro l’isolamento di una città americana ad opera della CIA, e contro la violazione della libertà di parola! Venite, prepariamo un po’ di cartelli, e cerchiamo qualcuno che abbia la macchina per portarci.»

Kevin si arrese. «Lasceremo che sia la tua ragazza a dirigere lo spettacolo,» propose. «L’idea è stata sua. Ma non avrei mai pensato che avrei passato le ultime ore della mia vita a dipingere cartelli di protesta.»

«O a farti arrestare,» aggiunse Ron. «Agli amici questa storia non piacerà.»

«Se vedo un poliziotto,» disse il poeta, «ricordatevi che ho un affare urgente da sbrigare a Tangeri. Non me la sento di andare molto in là con questo scherzo.»

Forse era uno scherzo per lui e per molti dei presenti, che si comportavano secondo una parodia consapevole o inconsapevole di vecchi film: «Ehi, gente,» disse qualcuno, «facciamo una colletta per le uniformi?» «Ho capito tutto! Combiniamo una roba da fine del mondo!» Ma per Susie significava diventare, per un momento, una Giovanna d’Arco. Quando lasciarono il caffè, lei era in prima fila, e camminava decisa pestando gli stivaletti bianchi, in testa al corteo.

Certamente Madge non si era mai preoccupata meno che in quel momento della vulnerabilità dell’innocenza di sua figlia, dopo averla appena sentita insistere sulla parola «sedere» e averla vista arrossire nel pronunciarla. Com’era innocente, Susie, e come era stata invece smaliziata lei, a quell’età!

Madge sentiva appena il rombo morente della Harley di Ron, era appena consapevole della propria mano che accarezzava i distintivi sul vassoio di velluto nel cofanetto di Susie. Madge vedeva se stessa, diciotto anni prima, mentre andava al Webster Beach Club insieme al giovane e bell’agente delle assicurazioni.

Da giovane, Suggs somigliava moltissimo a uno degli amici di Susie, Jim Porteus, pensò. Strano che Susie non l’avesse mai notato. Era un ragazzo così simpatico, così serio, con quegli occhiali dalla solenne montatura nera, così energico, così ansioso di mettere a fuoco il mondo. Madge accarezzò il distintivo giallo che aveva regalato a Susie: «NESSUN CEDIMENTO — SCONFIGGIAMO I VIETCONG!»

Jim valeva già parecchio danaro per conto suo, oltre ad essere figlio di un eminente ginecologo, e presidente della sezione californiana dell’Associazione dei Giovani Americani per la Difesa dell’Iniziativa Privata.

Quando Jim era serio, era serio davvero. Madge ricordava tutti i particolari della prima conversazione che aveva avuto con lui:

«Ha intenzione di studiare medicina anche lei, Mr. Porteus?»

«No, no. Mrs. Suggs.» Si era tolto gli occhiali, sbalordendola con i piani aspri della sua faccia. «No, purtroppo la professione medica è lettera morta, di questi tempi. Nonostante tutti i nostri sforzi per impedirlo, sta per imporsi la medicina socializzata… che ridurrà i medici alla fame.

«No, ho tenuto l’orecchio ben teso quando ho scelto un corso di amministrazione aziendale. L’analisi di mercato sembra molto promettente… molto promettente, glielo assicuro. Gli analisti qualificati sono pochi: è un campo poco affollato, dove un giovane energico e attivo può rapidamente farsi largo. Oppure potrei optare per diritto aziendale, soprattutto per proteggere le industrie neonate dalle rapine dell’aquila federale… o per qualche altro campo affine. Immagino che l’ideale sia la via di mezzo. Forse diventerò un modesto dirigente, una rotella sconosciuta ma importante nella macchina direzionale… un lavoro in cui la ricompensa non consiste nel semplice arricchimento, ma nella piena adesione a un uso discrezionale del potere. Io distribuisco lavoro e ricompense, o punizioni, ai miei subordinati, mentre ricevo la mia giusta porzione dai miei superiori: un anello vitale nella Grande Catena di Comando!»

Sotto molti aspetti, rifletté Madge, ripensando a quella conversazione, Jim sembrava più vecchio di suo marito.

Madge guardò l’ora, sconvolta. Per cinque minuti fu in piena attività, fece il bagno, si profumò, si pettinò, si avvolse in un diafano pigiama di un misterioso grigio nebbia, un attimo prima che suonasse il campanello. Si affrettò ad appuntarsi il distintivo giallo e corse ad accogliere Jim.

«Caspita!» disse lui. «Che buio, qui dentro! Gettiamo un po’ di luce sull’argomento.

«Caspita!» ripeté, guardandola in piena luce. «Sei splendida, Madge.» Si tolse il cappello alla tirolese e la baciò.

Mentre si svestiva, con ordine ed efficienza, Jim parlò delle prossime elezioni studentesche, nelle quali la sua Lega degli Studenti Ultraconservatori, da poco fondata, sperava di vincere alcuni seggi.

«Siamo giovani e dinamici, anche se inesperti,» disse, ripiegando meticolosamente le calze e appendendole alla spalliera della sedia. «I più anziani dovranno spostarsi per farci spazio.»

Madge si spostò e gli fece spazio in letto.

La stessa notte, Woody era seduto nell’ufficio dello spedizioniere, e fissava con occhi vitrei il modulo della Denuncia di Smarrimento. Per ore ed ore si era sentito incapace di cominciare quello strano rapporto… sebbene rivedesse chiaramente tutto nei minimi particolari.

Quando aveva fermato il suo trenino, quel pomeriggio, gli altri del personale erano balzati a terra, a correre verso l’ufficio dello spedizioniere, dove c’era sempre la birra. La corsa Altoona-Las Vegas si fermava sempre lì a Double Flats per via della birra, specialmente nelle giornate afose. Ufficialmente, era ovvio, si fermavano per ritirare gli ordini.

«Dov’è la birra?» chiese allegramente Fats, il frenatore.

«Non sono mica il vostro schiavo!» urlò lo spedizioniere, che non parlava mai in altro tono. «Sapete bene dove la tengo. Voialtri non sapete neanche cos’è il lavoro. Voi non sapete quanto siete fortunati, a starvene sempre fuori all’aria pura. Vorrei essere anch’io in servizio di linea, lo giuro!» Sputò in un angoletto buio e sudicio, dove forse c’era una sputacchiera. Woody e gli altri aprirono le lattine di birra e si sistemarono su varie sedie scricchiolanti qua e là nella stanza marrone scuro. Non erano affatto ansiosi di tornare nel caldo e nella polvere del deserto, anche se avevano quella fortuna.

La vita del ferroviere era una novità meravigliosa per Woody, sebbene ostentasse di odiarla come parevano fare tutti gli altri. Stava già apprendendo il gergo ferroviario, e le differenze tra i vari tipi di carri merci, ma aveva ancora parecchio da imparare. Una cosa che non finiva mai di stupirlo era che non aveva bisogno di sterzare per guidare la locomotiva. Sembrava quasi che si guidasse da sola, inspiegabilmente, anche nelle curve più brusche. Le ferrovie, doveva ammetterlo, erano un’invenzione meravigliosa.

La Nevada Southern era l’unica ferrovia in cui erano ancora in servizio le locomotive a vapore. Woody non avrebbe mai voluto guidare un locomotore diesel o elettrico. Lui amava il calore e il sibilo del vapore.

«È giusto,» disse, unendosi alla conversazione. «Bisogna essere matti a mettersi nelle ferrovie.» Gli altri approvarono.

«Io ne vengo fuori presto,» disse Fats. «Ho un fratello che lavora nei mangimi. Andrò con lui. I mangimi, ecco quello che serve per far danaro.»

«Io lodo,» disse solennemente Woody, «il vincolo fratricida.» La birra l’aveva rinfrescato, lo faceva sentire lucido. Prima, ad Altoona, aveva avuto un’allucinazione, senza dubbio a causa del caldo. Era stato un classico sogno gratificante: una donna che aveva conosciuto un tempo, in un altro stato, era salita sul treno ad Altoona, così gli era parso. Lui si era anche sbracciato per salutare l’allucinazione, ma poiché si trattava appunto di un’allucinazione, lei non aveva ricambiato il saluto.

Finì la birra, si rimise i guanti e si avviò verso la porta. E si fermò.

Mac, il fuochista, era fermo sul marciapiedi, completamente stordito. Fats e il conduttore stavano avviandosi a balzi sui binari, verso il treno.

Il treno si stava muovendo. Si muoveva e accelerava, a tutto vapore.

Ma non poteva andare a tutto vapore. A bordo della locomotiva non c’era nessuno, né per dare vapore né per alimentare la caldaia. A tutti i fini pratici, la locomotiva era vuota.

Rombando e sferragliando, scivolando, la locomotiva, il tender del carbone e l’unico vagone passeggeri si allontanavano. La donna dell’allucinazione pareva essere ancora in carrozza.

Fats si fermò sbuffando. Il conduttore cercò di abbrancarsi al respingente di coda del vagone, mancò la presa e cadde. Rotolò via, sano e salvo, sfiorato appena dalle ruote.

Un miraggio? Ipnosi collettiva?

Woody intinse il pennino d’acciaio nell’inchiostro e scarabocchiò sul modulo.

«NOME: Elwood Trivian, Ph. D. TITOLO: Macchinista. OGGETTO SMARRITO: Un treno. DESCRIVERE LE CIRCOSTANZE: Apparentemente il treno è stato rubato da una…» Cancellò «una» e scrisse: «da quella che sembrava una cassetta di latta grigia.»