123668.fb2
Mentre ci avvicinavamo, una doppia porta si aperse nel fianco e ne uscì una passerella. Rilucente sotto la luce di Tambur e nel rosso cupo riflesso dalle nubi di fumo, la Nave era già per me la cosa più strana che mi aspettassi: quando poi la porta si aprì davanti a me, come se un fantasma fosse di guardia, ebbi un gemito e fuggii. Le ceneri si levarono tra i miei stivali e colsi uno sbuffo di aria solforosa.
Ma una volta in fondo al campo mi ripresi abbastanza da tornare a guardare. Il terreno scuro assorbiva tutta la luce e la Nave appariva sola con la sua grandezza. Così tornai indietro.
L’interno era illuminato da pannelli freddi al tocco. Val Nira spiegò che il motore principale che muoveva la Nave, come uno gnomo alla macina d’un mulino, era intatto e che al tocco di una leva avrebbe fornito potenza. Per quanto potei capire quel che disse, questo si otteneva trasformando il componente metallico del sale comune in luce… così non ho capito nulla. L’argento vivo era richiesto per una parte dei comandi, che incanalavano la potenza del motore a un altro congegno che spingeva nel cielo la Nave. Ispezionammo il contenitore vuoto: la violenza dell’urto doveva essere stata davvero enorme, per piegare e torcere a quel modo quella spessa lega.
Tuttavia Val Nira era stato protetto da forze invisibili e il resto della nave non aveva subito danni importanti. Egli trovò degli utensili che fiammeggiavano, ronzavano e rotavano, e ci diede un’idea di alcune delle operazioni per riparare la parte infranta. Ovviamente non avrebbe avuto problemi a completare il lavoro, e allora avrebbe potuto riprendere il volo se avesse avuto qualche pinta di argento vivo per far tornare a nuova vita il vascello.
Molte altre cose ci fece vedere nella stessa notte, cose di cui non parlerò perché non posso nemmeno ricordare chiaramente quelle stranezze, tanto meno quindi trovare le parole. Basti dire che Rovic, Froad e Zhean passarono alcune ore in quel luogo magico.
Anche Guzan lo fece. Sebbene egli vi fosse già stato portato, in quanto faceva parte della sua iniziazione, non gli era mai stato mostrato tanto prima d’allora, e tuttavia osservandolo notai in lui meno meraviglia che contentezza.
Nessun dubbio che Rovic se ne fosse accorto: c’erano poche cose che Rovic non teneva d’occhio. Quando abbandonammo la Nave il suo silenzio non era come il nostro, stupefatto; pensai allora vagamente che egli fosse occupato a prevedere quello che Guzan avrebbe cercato di fare, ma ora, guardandomi indietro, penso che fosse semplicemente la tristezza. È certo che per lungo tempo dopo che noi altri ci eravamo distesi sui nostri giacigli egli restò solo a guardare la nave nella luce di Tambur.
Etien mi scosse, destandomi nella gelida alba: — Su, ragazzo, su! dobbiamo darci da fare. Carica la pistola e prendi la spada.
— Cosa? Cosa succede? — Mi arrabattai con la coperta umida di brina. La notte era passata come un sogno.
— Il capitano non mi ha detto niente, ma di sicuro si aspetta dei guai. Vieni alla carretta e aiutaci a portare tutto a quella vostra torre volante. — La forma massiccia di Etien si sedette sui talloni, restandomi accanto ancora un istante. Quindi disse lentamente: — Per me, io credo che Guzan ha in testa di farci fuori tutti quanti, qui sulla montagna. Lui può obbligare un ufficiale e qualche marinaio ad andare con la Cerva d’oro a Giair e ritorno, ma il resto di noi lo impiccerebbe meno se avessimo tutti la gola tagliata.
Io mi lanciai avanti con i denti che mi battevano, facendomi rintronare la testa. Dopo essermi armato, presi qualcosa da mangiare. Gli hisagaziani quando viaggiano portano con sé del pesce essiccato e una sorta di pane fatto con una farina di erbe macinate. Solo il cielo sapeva quando avrei avuto di nuovo la possibilità di mangiare. Fui l’ultimo a raggiungere Rovic al carro, mentre gli indigeni si stavano indolentemente avvicinando a noi, non sapendo che cosa avessimo in mente di fare.
— Andiamo, amici — disse Rovic, e diede gli ordini: quattro uomini cominciarono a sospingere il carro verso la Nave che brillava emergendo dalla nebbia. Noi restammo colà, colle armi pronte. Guzan venne di scatto verso di noi, mentre Val Nira si svegliava penosamente. — Che cosa state facendo? — esclamò, mentre l’ira gli oscurava i lineamenti.
Rovic lo guardò calmo: — Signor mio, possiamo sostare qui qualche ora, guardando le meraviglie della Nave?
— Come! — lo interruppe Guzan. — Che cosa vuoi dire? Non hai visto abbastanza, per questa volta? Dobbiamo tornare indietro e prepararci a partire in cerca della pietra liquida!
— Va’ tu, se vuoi — replicò Rovic. — Io preferisco restare. Tu non ti fidi di me: ebbene, la cosa è reciproca. I miei uomini resteranno nella Nave e se è necessario la difenderanno.
Guzan imprecò furiosamente, ma Rovic lo ignorò. Gli uomini continuarono a spingere il carro su per l’erto pendìo. Guzan fece un segnale ai suoi guerrieri, i quali cominciarono ad avanzare disordinatamente. Etien gridò un comando e noi ci allineammo, colle alabarde puntate e i moschetti pronti a sparare.
Guzan indietreggiò rapido: gli avevamo già mostrato, sulla sua isola, l’efficacia delle armi da fuoco, e senza dubbio, pur potendoci schiacciare colla forza del numero, avrebbe pagato duramente. Rovic brontolò: — Non c’è motivo di combattere, no? Io sto semplicemente prendendo delle precauzioni: la Nave ha un valore inestimabile, può portare il Paradiso a tutti gli uomini… o il dominio su questo mondo a uno solo. Ve ne sono che preferirebbero la seconda possibilità. Io non ti accuso di essere fra questi, tuttavia per prudenza preferirei tenere la Nave come mio ostaggio e fortezza, fin che mi piaccia di restarmene qui.
Credo di essermi reso conto proprio allora delle reali intenzioni di Guzan e non per deduzione, ma per quello che accadde: perché, se realmente egli avesse inteso raggiungere le stelle, là sua unica cura sarebbe stata di salvaguardare la Nave, e non sarebbe tornato indietro, non avrebbe afferrato colle sue grosse mani il piccolo Val Nira, portandolo poi verso di noi come uno scudo contro il nostro fuoco. Il furore gli alterava il volto tatuato. Ci gridò: — Bene, allora! Anch’io prenderò un ostaggio, e adesso andate pure al vostro rifugio!
Gl’indigeni si movevano, agitando lance e scuri, ma non si preparavano a seguirci, così riprendemmo la via sul nero pendio. Froad, l’astrologo, si torse la barba e disse: — Poveri noi, signore, ci stringeranno d’assedio?
— Non consiglierei ad alcuno d’avventurarsi solo fuori di qui — rispose Rovic seccamente.
— Ma se Val Nira non ci spiega ogni cosa, che utile avremo a restar nella nave? È meglio tornare indietro. Io devo consultare dei testi matematici… Ho il pensiero fisso alla legge che muove i pianeti roteanti in cielo… Devo chiedere all’uomo del Paradiso che cosa egli conosca di…
Rovic lo interruppe ordinando rudemente a tre uomini di aiutare a sollevare una ruota bloccata fra due pietre. Era selvaggiamente incollerito e io confesso che la sua azione mi sembrava priva di senso: se infatti Guzan intendesse tenderci un’imboscata, chiudendoci nella Nave avremmo guadagnato ben poco, perché egli avrebbe potuto prenderci per fame, là dentro. Era meglio lasciarlo attaccare all’aperto, dove avremmo avuto la possibilità di aprirci una via combattendo. E d’altra parte, se Guzan non avesse affatto avuto l’intenzione di aggredirci nella foresta o altrove, la nostra era un’insensata provocazione. Ma non osai por domande.
Quando ebbimo condotto il carro fino alla Nave, la passerella discese nuovamente verso di noi, facendo fare un balzo ai marinai, che imprecarono. Rovic si costrinse a uscire dalla sua amarezza e parlò, tranquillizzandoli: — Calma, amici. Io sono già stato a bordo, potete montare anche voi, non c’è nessun pericolo. Adesso dobbiamo caricare la polvere, e stivarla come vi dirò.
Essendo di non forte corporatura, non fui incaricato di trasportare i pesanti barili, ma fui destinato a star in guardia in fondo alla passerella. Eravamo troppo lontani per distinguere le parole degli hisagaziani, ma potei vedere come Guzan, montato su un masso, arringasse i suoi guerrieri che gridavano agitando le loro armi alla nostra volta. Tuttavia non osavano attaccarci. Mi chiedevo, depresso, a cosa avrebbe menato tutto ciò: se Rovic aveva previsto che saremmo stati assediati, questo spiegava come mai avessimo portato con noi tanta polvere da sparo… No, non lo spiegava affatto, perché c’era abbastanza polvere da permettere a una dozzina di uomini di sparare per una settimana, se avessimo avuto abbastanza piombo… mentre le nostre riserve di cibo erano praticamente finite. Alzai gli occhi alle nubi velenose del vulcano, a Tambur percorso da tempeste che avrebbero potuto inghiottire nei loro vortici il nostro mondo intiero e mi chiesi quali demoni mirassero di là alla conquista dell’umana specie.
Fui messo all’erta da un grido indignato che proveniva dall’interno della Nave: Froad! D’istinto ero già quasi balzato in cima alla passerella, ma poi ricordai il mio dovere. Udii Rovic ruggire di star fermo e poi ordinare agli uomini di continuare il carico. Quindi Froad e Rovic probabilmente si ritirarono nella cabina del pilota per un’ora o più, a parlare, e quando il vecchio astrologo uscì non protestava più. Mentre discendeva lungo la passerella, lo vidi piangere.
Dietro di lui Rovic aveva i tratti sconvolti, quali mai ho visto in un volto, e i marinai che li seguivano avevano l’aria abbattuta alcuni, altri sollevata, ma tutti guardavano il campo degli indigeni. Essendo tutti semplici uomini di mare, la Nave era per loro nient’altro che una cosa straniera e inquietante. Ultimo veniva Etien, camminando all’indietro sulla piattaforma metallica e srotolando una lunga miccia.
— In quadrato! — ordinò Rovic. Gli uomini scattarono in posizione. Il capitano disse ancora: — Zhean, Froad, è meglio che stiate in mezzo: è meglio che portiate delle munizioni di riserva, piuttosto che combattere. — Egli si pose in testa a tutti.
Tirai Froad per la manica: — Ti prego, maestro, dimmi che cosa sta accadendo. — Ma egli singhiozzava tanto da non potermi rispondere.
Etien si chinò con una selce e un acciarino in pugno e mi udì, poiché tutti erano silenziosi. Fu dunque lui a darmi una risposta, con voce dura: — Abbiamo sistemato barili di polvere in ogni angolo di quella Nave e li abbiamo tutti collegati con la miccia. E questa è la miccia che farà saltare tutto.
Tanto quest’idea era orrenda, che mi tolse la parola e i pensieri. Come da un’immensa distanza udii la pietra percuotere l’acciaio tra le dita di Etien e udii il nostromo soffiare sulle scintille e poi dire: — Ottima idea, sono d’accordo. T’ho già detto, io seguirei il comandante senza paura della maledizione di Dio… ma è meglio non tentarlo troppo.
— Avanti! — La spada di Rovic brillò sguainata.
Sotto i nostri stivali il suolo risuonava cupamente mentre ci allontanavano in fretta. Non mi volsi a guardare, non potevo farlo, mi dibattevo ancora in un incubo.
Poiché Guzan in ogni modo si sarebbe mosso per intercettarci, procedevamo direttamente verso di lui. Come ci arrestammo al limite del campo, egli si avanzò. Val Nira lo seguiva tremando. Udii confusamente le parole: — Dunque, capitano, quali novità? Torni indietro?
— Sì — rispose Rovic con voce spenta. — Si torna a casa.
Guzan rimase perplesso e sospettoso: — Perché abbandoni il tuo carro? Che cosa hai lasciato laggiù?
— Provviste. Andiamo, via.
Val Nira fissava la lama crudele delle nostre alabarde. Dovette passarsi più volte la lingua sulle labbra prima di riuscir a dire: — Come, capitano? Non c’è motivo di lasciare del cibo sulla Nave. Si guasterà, con tutto il tempo che ci vuole per… per… — Fu preso dall’affanno quando fissò Rovic negli occhi. Il sangue lo abbandonò. Sussurrò: — Che cosa avete fatto?
D’improvviso Rovic sollevò la mano libera e si coperse il volto. Con voce roca rispose: — Ho fatto quello che dovevo, che la Figlia di Dio mi perdoni.
L’uomo delle stelle ci guardò ancora per qualche istante, poi si voltò e prese a correre, correre oltre i guerrieri attoniti, su per il pendio ricoperto di ceneri, verso la sua Nave.
— Torna indietro! — gridò Rovic. — Stolto, non puoi.
Inghiottì a fatica, mentre guardava la solitaria minuscola figura correre incespicando sulla montagna verso la Nave meravigliosa. — Forse è meglio così — disse, come benedicendo. Il suo pugno si strinse sull’elsa della spada.
Guzan levò la sua spada. Era altrettanto imponente, con la corazza di scaglie e i piumaggi sventolanti. — Dimmi cos’hai fatto — ruggì — o ti ammazzerò in questo momento.
Non guardava i nostri moschetti puntati. Anch’egli aveva avuto un sogno. Anch’egli ne comprese la fine, quando la Nave esplose.
Persino quello scafo adamantino non poteva reggere alla deflagrazione dell’esplosivo accuratamente sistemato e innescato contemporaneamente. Ne venne un boato che mi fece piegare le ginocchia e lo scafo andò in pezzi. Frammenti di metallo incandescente volarono sibilando giù per il pendio: ne vidi uno colpire un masso e frantumarlo in due. Val Nira scomparve, disintegrato tanto rapidamente da non poter vedere quel ch’era accaduto: così nel momento estremo Dio aveva avuto pietà di lui. Attraverso le fiamme e il fumo che seguirono vidi la Nave cadere, rotolando giù per la china, seminandosi dietro frammenti contorti. Poi la montagna muggì, si sfaldò e la seppellì, e la polvere oscurò il cielo.
Gli indigeni erano fuggiti urlando; forse pensavano che l’inferno si fosse riversato sulla terra. Guzan restò immobile. Quando la polvere ci raggiunse nascondendoci alla vista la tomba della Nave e il bianco cratere del vulcano insanguinando la luce del sole, il duca balzò verso Rovic. Uno dei fucilieri levò l’arma, ma Etien gliel’abbassò. Così restammo a guardare quei due uomini battersi sul terreno incenerito, poiché sentivamo nella nostra ignoranza che quello era un loro diritto. Scintille sprizzarono dalle lame cozzanti. Fu Rovic infine il vincitore. Colse Guzan alla gola.
Seppellimmo il duca con onore e discendemmo attraverso la foresta.
Quella notte i guerrieri si ripresero abbastanza da attaccarci e, pur aiutandoci con i moschetti, dovemmo combattere soprattutto a lancia e spada. In tal modo ci aprimmo un varco nelle loro file, perché non avevamo altra strada per raggiungere il mare.
Essi si ritirarono, ma ci precedettero in città, così che quando vi giungemmo tutte le forze che Iskilip aveva radunato stavano assediando la Cerva d’oro da un lato e sbarravano a noi la via dall’altro. Formammo di nuovo un quadrato e, benché i nostri nemici si contassero a migliaia, solo pochi poterono incrociare le armi con noi. Ciò non di meno lasciammo sei dei nostri migliori uomini nel fango insanguinato di quelle strade. Quando i nostri compagni sulla caravella compresero che Rovic stava ritornando, presero a bombardare la città, così che i tetti di strami andarono a fuoco e questo distrasse i nemici e rese possibile una sortita dalla nave, in modo che ci congiungemmo e guadagnandoci il passaggio ai moli potemmo salire a bordo, dar di volta all’argano e partire.
Infuriati e coraggiosi, gli indigeni si spinsero colle loro canoe fino al nostro scafo, dove il cannone non poteva tirare, e issandosi uno sulle spalle dell’altro raggiunsero la murata. Un gruppo di loro salì a bordo e fu duro il combattimento per spazzarli via dal ponte. Fu allora che ebbi la clavicola spezzata, il che ancor oggi mi causa sofferenze.