123823.fb2
Udii il suono d’un bouzouki venire da un piccolo caffè sull’altro lato della strada. In parte perché ne avevo voglia, e in parte perché avevo la sensazione d’essere seguito, attraversai la via ed entrai nel locale. Sedetti ad un tavolino dove potevo avere le spalle al muro e gli occhi sulla porta, ordinai caffè turco, ordinai un pacchetto di sigarette, ascoltai quelle canzoni che parlavano di morte, esilio, rovina, e dell’eterna perfidia di uomini e donne.
Il posto era anche più piccolo di quanto non sembrasse dalla strada: soffitto basso, pavimento lurido, oscurità totale. La cantante era una donna tozza, che portava un vestito giallo e quintali di mascara. I bicchieri tintinnavano; nell’aria s’agitava una cortina di polvere; per terra era sparsa della segatura umida. Il mio tavolo era proprio vicino all’ingresso. Sparpagliata nel locale si trovava un’altra dozzina o giù di lì di persone: tre ragazze dagli occhi addormentati bevevano qualcosa al banco, e c’era un uomo con un fez sozzo, e un altro uomo con la testa appoggiata al braccio, che russava; quattro uomini ridevano ad un tavolo diagonalmente opposto al mio; pochi altri, solitari, bevevano caffè, ascoltavano, senza guardare nulla in particolare e aspettavano — o forse no — che accadesse qualcosa.
Niente successe, comunque. E così, dopo la terza tazza di caffè, pagai il conto al grosso proprietario baffuto, e me ne andai.
Fuori, la temperatura sembrava essere scesa di parecchi gradi. Le strade erano deserte, e completamente scure. Svoltai nell’aereopago di Leoforos Dionysios e continuai a procedere, finché raggiunsi la cancellata che percorre il lato più a sud dell’Acropoli.
Sentii un passo dietro di me, piuttosto lontano, dietro l’angolo. Mi fermai per un mezzo minuto, ma c’era solo silenzio e una notte molto scura. Scrollando le spalle, oltrepassai il cancello e arrivai al santuario di Dionisio Eleuterio. Del tempio vero e proprio non resta più nulla, tranne le fondamenta. Proseguii in direzione del Teatro.
Phil, poi, aveva detto che la storia si muove secondo grandi cicli, come grosse lancette d’un orologio che continuano a passare sugli stessi numeri giorno dopo giorno.
— La biologia storica prova che hai torto — aveva ribattuto George.
— Non volevo essere preso alla lettera - aveva replicato Phil.
— Allora mettiamoci d’accordo sull’uso che facciamo dei termini, prima di continuare a parlare.
Myshtigo aveva riso.
Ellen aveva toccato il braccio di Dos Santos e gli aveva chiesto dei poveri cavalli dei picadores. Lui aveva scosso le spalle, le aveva versato dell’altro Kokkinelli e aveva bevuto il suo.
— Fa parte delle regole del gioco — aveva detto.
E niente messaggio, niente messaggio…
Continuai a camminare tra le rovine che il tempo aveva ricavato da tanta grandezza. Un uccello spaventato s’alzò in volo sulla mia destra, lanciò un grido di paura, e sparì. Camminai ancora, vagabondai infine nell’antico Teatro, ne scesi le gradinate…
Diane non era parsa tanto divertita quanto credevo dalle stupide placche che decoravano il mio appartamento.
— Ma questo è il loro posto. Naturalmente. È proprio il loro posto.
— Ah!
— Una volta ci avrebbero attaccato la testa degli animali uccisi. O gli scudi dei nemici vinti in guerra. Adesso ci siamo civilizzati. Tutto merito del progresso.
— Ah! — Cambiai argomento. — Niente di nuovo sul vegano?
— No.
— Tu vuoi la sua testa.
— Non mi sono civilizzata. Dimmi, Phil è sempre stato così matto, anche ai vecchi tempi?
— No, per niente. Ma non lo è nemmeno adesso. La sua è stata la parabola d’un mezzo talento. Ormai lo consideriamo l’ultimo dei poeti romantici, e s’è sciupato. Adesso incanala il suo misticismo in idee insensate perché, come Wordsworth, la sua vena si è consumata. Non fa altro che vivere in distorsioni del suo grande passato. Una volta, come Byron, attraversava a nuoto l’Ellesponto; ma adesso s’è ridotto al rango di Yeats, e l’unica cosa che gli piace davvero è la compagnia di giovani signore che possa annoiare con la sua filosofia, o deliziare a volte con un ricordo ben raccontato. È vecchio. Ogni tanto ha qualche sprazzo letterario, ma il suo stile non era solo in quello che scriveva.
— Cioè?
— Be’, mi ricordo un giorno nuvoloso in cui se ne stava nel Teatro di Dionisio a leggere un inno a Pan che aveva scritto. C’era un pubblico di due o trecento persone, e solo gli dèi sanno perché fossero venuti, ma lui cominciò a leggere. Il suo greco non era ancora molto sicuro, ma la voce era decisamente notevole, e le sue maniere piuttosto carismatiche. Dopo un po’ cominciò a piovere un po’, ma nessuno se ne andò. Verso la fine scoppiò un tuono che sembrava una gigantesca risata, e tutta la folla fu percorsa da un brivido. Non ti sto dicendo che fosse come ai tempi di Tespi, ma parecchia di quella gente continuò a guardarsi attorno, quando se ne andò. Anch’io rimasi molto impressionato. Poi, diversi giorni dopo, lessi il poema: e non era nulla. Era pedestre, banale. L’unica cosa importante era il suo modo di leggerlo. Con la vecchiaia ha perso tutte queste sue capacità; e l’arte, per così dire, che gli è restata non è sufficiente a renderlo grande, a tener in vita la sua leggenda. Lui se ne dispiace, e si consola con filosofie oscure. Ma per rispondere alla tua domanda: no, non era così matto.
— Forse anche una parte della sua filosofia è esatta.
— Cosa vuoi dire?
— I Grandi Cicli. L’era delle strane bestie è realmente tornata su noi. E anche l’era degli eroi, dei semidèi.
— Io ho incontrato solo le bestie strane.
— «Karaghiosis ha dormito in questo letto», dice la placca. Sembra comodo.
— Lo è. Vedi?
— Sì. Posso tenermi la placca?
— Se vuoi…
Arrivai al proscenio. Mi stava davanti la scultura in rilievo che rappresenta episodi della vita di Dionisio. Secondo un regolamento che io stesso ho promulgato, nessun cicerone e nessun partecipante ad un giro turistico può «… portare meno di tre torce al magnesio sulla propria persona, durante il viaggio». Ne accesi una e la sistemai per terra. La luce non era visibile dal disotto, a causa dell’angolatura delle colline e dell’ampiezza del monumento.
Non fissai la fiamma violenta, ma sopra, le figure dai contorni argentati. C’era Ermes, che presentava il dio bambino a Zeus, mentre i Coribanti danzavano su entrambi i lati del trono. Poi c’era Icaro, a cui Dionisio aveva insegnato a coltivare la vite: si preparava a sacrificare una capra, mentre sua figlia offriva focacce al dio (che stava in disparte, discutendo di lei con un satiro); e c’era Sileno ubriaco che tentava come Atlante di reggere il cielo, solo che non ci riusciva tanto bene; e c’erano tutti gli altri dèi del paese, che rendevano omaggio a questo Teatro; e distinsi Estia, Teseo, ed Eirene con un corno pieno di…
— Bruci un’offerta agli dèi — disse una voce vicino a me.
Non mi girai. Le parole erano giunte dalla mia sinistra, ma non mi girai perché conoscevo la voce.
— Forse — replicai.
— È passato lungo tempo da che tu hai calcato questa terra, questa Grecia.
— È vero.
— È perché non è mai esistita una Penelope immortale, paziente come le montagne, fiduciosa nel ritorno del suo Kallikanzaros, tessitrice, paziente come le colline?
— Sei diventato il cantastorie del villaggio, ultimamente?
Ridacchiò.
— Accudisco le pecore dalle molte gambe nei luoghi alti, dove le dita di Aurora giungono per prime a tingere di rosa il cielo.
— Sì, sei il cantastorie. Perché non te ne stai nei luoghi alti, a corrompere i giovani col tuo canto?
— Perché sogno.
— Già.
Mi girai a fissare quel viso antico: le sue rughe, alla luce della lampada morente, erano nere come reti da pescatore perse sul fondo dell’oceano; la barba bianca come la neve che scende precipitando dalle montagne; gli occhi del blu della fascia che gli cingeva le tempie. E s’appoggiava al bastone con la stessa forza d’un guerriero che s’appoggia alla lancia. Sapevo che aveva più di cento anni, e che non s’era mai sottoposto al trattamento S-S.
— Poco tempo fa ho sognato che stavo nel centro d’un nero tempio — mi raccontò, — e arrivò il Signore dell’Ade e mi si mise a fianco, e m’afferrò la spalla e mi comandò d’andare con lui. Ma io dissi «No» e mi svegliai. Questo mi preoccupa.