123823.fb2
Quel posto era un santuario di qualche specie, nei Veri Tempi Antichi. Ci venivo molto spesso in gioventù, perché mi piaceva una cosa che lì si trova in abbondanza: immagino che voi la chiamereste «pace». A volte ci avevo incontrato i mezzi-uomini o i non-uomini, o avevo sognato dei bei sogni, o avevo trovato vecchie reliquie o teste di statue, o cose del genere, che potevo vendere a Lamia o Atene.
Non c’è un sentiero che ci arrivi. Dovete sapere dove si trova. Non li avrei portati lì se Phil non fosse stato con noi, e sapevo che a lui piace tutto quello che sa di mistero, di significati reconditi, di sguardi inusitati sull’oscuro passato, eccetera.
Circa un miglio fuori dalla strada, attraversata una piccola foresta contenta del suo gran disordine di verde e d’ombra e delle pietre sparse a caso, prendete d’improvviso a scendere, vi trovate la strada bloccata da un fitto boschetto, lo superate, poi scoprite una parete rocciosa liscia. Se vi accucciate, vi tenete vicini alla parete, e svoltate sulla destra, sbucate in una radura dove è sempre meglio fermarsi prima di proseguire.
C’è una discesa breve e ripida, e sul fondo una spianata a forma d’uovo, lunga una cinquantina di metri, larga venti, che termina infilandosi in un’apertura nella roccia; all’estremità si trova una caverna poco profonda, di solito vuota. Alcune pietre sprofondate nel terreno, di forma quasi quadrata, sono disseminate attorno in maniera apparentemente casuale. Viti selvagge crescono lì attorno, e nel centro si trova un albero enorme ed antico, le cui fronde fanno da ombrello a quasi tutto il posto, tenendolo fresco e buio ventiquattr’ore su ventiquattro. L’albero rende difficile sbirciare, anche se ci si trova nella radura.
Ma potevamo vedere, nel centro, un satiro che si puliva il naso.
Vidi la mano di George posarsi sul calcio della pistola. Lo presi per la spalla, lo guardai, scossi la testa. Lui scrollò le spalle, annuì, e lasciò ricadere la mano.
Estrassi dalla cintura il flauto da pastore che mi ero fatto dare da Giasone. Accennai agli altri d’accucciarsi e restare dove si trovavano. Feci qualche passo in avanti e mi portai la siringa alle labbra.
Le prime note furono semplici tentativi. Era passato troppo tempo da che avevo suonato il flauto.
Gli orecchi del satiro si tesero, e lui si guardò attorno. Fece rapidi movimenti in tre diverse direzioni; come uno scoiattolo disturbato, incerto su quale albero salire.
Poi rimase lì a fremere mentre io accennavo un vecchio motivo e ne riempivo l’aria.
Continuai a suonare, ricordando, ricordando i flauti, le musiche, i toni aspri e i toni dolci, e le cose pazzesche che ho sempre conosciuto. Mi ritornò tutto dentro mentre stavo lì a suonare per quella piccola creatura dai gambali di pelo ispido: i movimenti delle dita e il controllo del fiato, i piccoli crescendo, il dolore della musica, le cose che solo un flauto può veramente dire. Nella città non potevo suonare, ma d’improvviso fui di nuovo me stesso, e vidi facce tra le foglie e sentii il rumore di zoccoli.
Mi mossi in avanti.
Come in un sogno, mi accorsi d’essermi appoggiato con la schiena all’albero, e loro m’erano tutti intorno. S’appoggiavano su uno zoccolo e sull’altro, non stavano mai quieti, e io suonavo per loro come avevo già fatto tante volte, anni addietro, senza sapere se fossero le stesse creature che m’avevano udito allora; senza nemmeno che me ne preoccupassi. Saltellavano attorno a me. Ridevano con denti bianchissimi, e i loro occhi danzavano, e facevano girotondo, forando l’aria coi loro corni, sollevando le loro zampe da capri dal suolo, sporgendosi in avanti, saltando in aria, pestando la terra.
Mi fermai, e abbassai il flauto.
Non era un’intelligenza umana quella che mi spiava attraverso quegli occhi selvatici e neri, mentre loro si trasformavano in statue, lì immobili a fissarmi.
Sollevai di nuovo il flauto, lentamente. Questa volta suonai l’ultima canzone che avevo composta. La ricordavo così bene! Era una specie di canto funebre che avevo intonato la notte in cui avevo deciso che Karaghiosis doveva morire.
Avevo visto l’inutilità del Ritorno. Non sarebbero tornati, non sarebbero mai tornati. La Terra sarebbe morta. Ero entrato nel Parco e avevo suonato quest’ultima canzone che avevo imparato dal vento, e forse anche dalle stelle. Il giorno seguente, la grande imbarcazione di Karaghiosis aveva avuto un incidente nella baia del Pireo.
Si sedettero sull’erba. Di tanto in tanto uno di loro si toccava gli occhi con un gesto elaborato. Mi erano tutti attorno, e ascoltavano.
Non so per quanto tempo suonai. Quando ebbi finito, abbassai il flauto e rimasi seduto. Dopo un po’, uno di loro si sporse in avanti e toccò il flauto e ritirò velocemente la mano. Mi guardò.
— Andate — dissi, ma sembrarono non capire.
Così levai la siringa e suonai di nuovo le ultime note.
La Terra sta morendo, morendo. Presto sarà morta… Tornate a casa, la festa è finita. È tardi, è tardi, così tardi…
Il più grande di loro scosse il capo.
Andatevene, andatevene, andatevene ora. Apprezzate il silenzio. Dopo il più ridicolo gambitto della vita, apprezzate il silenzio.
Cosa speravano di ottenere gli dèi? Nulla. Era soltanto un gioco. Andatevene, andatevene, andatevene ora. È tardi, è tardi, così tardi…
Erano ancora seduti; allora mi rizzai in piedi e battei le mani e urlai: — Andate! — e m’allontanai in fretta.
Radunai i miei compagni e tornammo sulla strada.
Da Lamia a Volos corrono circa sessantacinque chilometri, compresa la deviazione per evitare il Posto Caldo. Il primo giorno percorremmo circa un quinto della distanza totale. Quella notte ci accampammo in una radura a fianco della strada, e Diane mi venne vicino e mi disse: — Allora?
— «Allora» cosa?
— Ho appena chiamato Atene. Nulla. La Radpol tace. Voglio la tua decisione adesso.
— Sei spaventosamente decisa. Perché non possiamo aspettare ancora un po’?
— Abbiamo già aspettato troppo. Se decidesse di terminare il viaggio prima del previsto? Questo posto è perfetto. È talmente facile che accada qualche incidente… Sai quello che la Radpol dirà: le stesse cose che ha già detto, e significheranno la medesima cosa: Uccidete!
— Anche la mia risposta è la stessa di prima: No.
Sbatté rapidamente le palpebre e abbassò la testa.
— Per favore ripensaci.
— No.
— Allora fai almeno questo: dimenticati di tutta la faccenda. Lavatene le mani. Accetta l’offerta di Lorel e procuraci un’altra guida. Puoi far tutto e andartene via in mattinata.
— No.
— Allora vuoi proteggere Myshtigo sul serio?
— Sì.
— Non voglio vederti ferito, o peggio.
— Nemmeno io godo troppo all’idea. Puoi risparmiare un mucchio di guai a tutti e due annullando l’ordine.
— Non posso farlo.
— Dos Santos fa quello che gli dici.
— Non è un problema d’ordine amministrativo! Maledizione! Vorrei non averti mai incontrato!
— Mi spiace.
— È in gioco la Terra, e tu stai dalla parte sbagliata.
— Io credo che ci stia tu.
— Cosa intendi fare?