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— S’è svegliato — disse improvvisamente Myshtigo.
— Salute a tutti. Eccomi qua — feci.
Mi vennero vicini, e io assunsi la posizione eretta. Era una spacconata bell’e buona, ma ci riuscii.
— Siamo prigionieri — asserì Myshtigo.
— Oh, ma guarda! Davvero? Non l’avrei mai immaginato.
— Cose del genere non accadono su Taler — osservò, — e su nessun altro dei mondi dell’Impero vegano.
— Peccato che lei non ci sia rimasto — dissi. — Non dimentichi quante volte le ho chiesto di tornare indietro.
— Non sarebbe successo se non fosse stato per il suo duello.
Allora gli diedi uno schiaffo. Non mi fu possibile farlo a pezzi: era troppo patetico. Lo colpii col dorso della mano e lo mandai a sbattere contro il muro.
— Sta cercando di dirmi che non sa perché stamattina ho fatto da bersaglio vivente?
— Perché ha litigato con la mia guardia del corpo — dichiarò, massaggiandosi la guancia.
— Per stabilire se l’avrebbe uccisa o no.
— Me? Uccidermi…?
— Se lo dimentichi — dissi. — Ormai non ha nessuna importanza. Non adesso. Faccia finta di essere ancora su Taler, e ci resti per tutte queste sue ultime ore. Sarebbe stato bello se lei avesse potuto venire sulla Terra a fare un giro turistico assieme a noi. Ma non è andata così.
— Moriremo qui, non è vero? — chiese.
— Questione di tradizioni locali.
Mi girai a studiare l’uomo che mi stava osservando dall’altra parte delle sbarre. Hasan stava appoggiato contro il muro, e si massaggiava la testa. Non m’ero accorto che si fosse tirato su.
— Buon pomeriggio — disse l’uomo dietro le sbarre, e lo disse in inglese.
— È pomeriggio? — chiesi.
— Certamente — replicò.
— Perché non siamo morti? — gli domandai.
— Perché vi volevo vivi — spiegò. — Oh, non lei personalmente, Conrad Nomikos, Commissario delle Arti, Monumenti e Archivi, e nemmeno i suoi celebri amici, compreso il poeta laureato. Volevo solo che mi portassero indietro vivo qualunque prigioniero avessero fatto. Le vostre identità sono, se così vogliamo dire, un condimento.
— A chi ho il piacere di parlare? — chiesi.
— È il Dottor Moreby — disse George.
— È il loro stregone — intervenne Dos Santos.
— Preferisco «Sciamano» o «Gran Dottore» — corresse Moreby, sorridendo.
Mi avvicinai maggiormente alle sbarre e vidi che era piuttosto magro, ben abbronzato, rasato, e tutti i suoi capelli erano pettinati in una enorme treccia nera attorcigliata come un cobra intorno alla testa. Aveva occhi neri profondamente incassati, una fronte alta, e una mascella che scendeva fin oltre il suo pomo d’Adamo. Indossava sandali intrecciati, un sari verde pulitissimo, e una collana di dita umane rinsecchite. Dagli orecchi gli pendevano grandi orecchini d’argento a forma di serpente.
— Il suo inglese è piuttosto corretto — dissi, — e Moreby non è un nome greco.
— Oh, mio dio! — Gesticolò con grazia, in segno di ironica sorpresa. — Non sono un indigeno! Come ha potuto confondermi con un indigeno?
— Spiacente — dissi; — adesso vedo che lei è troppo ben vestito.
Ridacchiò.
— Oh, questo vecchio straccio… Me lo sono solo buttato addosso. No, vengo da Taler. Lessi certi interessanti libri sul Ritornismo, e decisi di tornare per dare una mano alla ricostruzione della Terra.
— Oh? E poi cos’è successo?
— In quel periodo l’Ufficio non assumeva nessuno, ed ebbi una certa difficoltà a trovare un impiego da queste parti. Così decisi di buttarmi in un lavoro di ricerca. Questi posti offrono infinite possibilità.
— Che specie di ricerche?
— Ho preso due lauree in antropologia culturale, a Nuova Harvard. Decisi di studiare a fondo una tribù Calda, e dopo un po’ di cerimonie riuscii a farmi accettare da questa. Cominciai anche ad educarli. Ben presto presero tutti a mostrarmi una estrema deferenza: una cosa eccitante per il mio ego. Dopo un po’ i miei studi, il mio lavoro sociale, persero sempre più importanza. Be’, immagino che lei abbia letto Il Cuore dell’Oscurità; sa cosa voglio dire. Le pratiche locali sono talmente… basilari. Trovai che era molto più stimolante parteciparvi anziché osservarle. Mi assunsi il compito di rimodellare le loro pratiche grossolane secondo criteri estetici più accettabili. Sicché li ho educati veramente, dopo tutto. Fanno le cose con molto più stile da che io sono arrivato qui.
— Cose? Per esempio?
— Be’, tanto per dirne una, prima erano dei semplici cannibali. Per dirne un’altra, non erano per niente sofisticati nell’uso che facevano dei prigionieri prima di mangiarseli. Cose del genere sono parecchio importanti. Se fatte a dovere conferiscono una certa classe, se capisce cosa voglio dire. Mi trovavo qui con una massa di costumi, superstizioni, tabù, provenienti da varie culture e da secoli di stratificazione; proprio qui, sulla punta delle dita. — Gesticolò di nuovo. — L’uomo (anche il semi-uomo, l’uomo Caldo) è una creatura amante del rituale, e io conoscevo un mucchio di rituali e cose del genere. Così ho fatto buon uso di tutto questo, e attualmente occupo una posizione di grande onore e d’estrema stima.
— E per quello che riguarda noi? Cosa sta cercando di dirci? — chiesi.
— Le cose diventavano piuttosto monotone — disse, — e gli indigeni continuavano ad ingrassare. Così decisi che era tempo di creare un altro cerimoniale. Parlai con Procuste, il Capo Guerriero, e gli suggerii di trovarci un po’ di prigionieri. Credo sia a pagina 577 dell’edizione abbreviata del Ramo d’Oro che si dice: «I Tolalaki, noti cacciatori di teste di Celebes, bevono il sangue e mangiano il cervello delle loro vittime per diventare coraggiosi. Gli Italones delle Isole Filippine bevono il sangue dei nemici trucidati, e mangiano parte delle loro teste e dei loro intestini crudi per acquistare il loro coraggio». Be’, abbiamo la lingua d’un poeta, il sangue di due formidabili guerrieri, il cervello d’un illustre scienziato, il fegato bilioso d’un fiero politico, e l’interessante pelle colorata d’un vegano; tutto qui, in questa stanza. Una bella raccolta, oserei dire.
— Lei è d’una chiarezza straordinaria — osservai. — E le donne?
— Oh, per loro organizzeremo un lungo rito della fertilità, culminante in un lungo sacrificio.
— Vedo.
— … A meno che non vi permettiamo di continuare la vostra strada, senza subire la minima molestia.
— Oh?
— Sì. A Procuste piace dare alla gente una possibilità di misurarsi in una prova standard, per saggiare la propria forza, ed eventualmente essere redenti. Da questo punto di vista è decisamente cristiano.
— E tiene fede al suo nome, immagino?
Hasan mi venne a fianco, e fissò Moreby attraverso le sbarre.
— Oh, divertente, divertente — disse Moreby. — Davvero, mi piacerebbe tenerla qui un po’, lo sa? Lei ha sense of humor. I Kouretes, per quanto siano personalità indubbiamente esemplari, ne sono proprio sprovvisti. Potrei anche imparare ad apprezzarla…