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— Sei meno infelice qui al Porto di quanto lo saresti da qualsiasi altra parte del pianeta.
— Avremmo potuto tentare — disse, e mi girò le spalle per guardare giù in basso le luci della baia. — Sai una cosa — prosegui dopo un po’, — sei talmente brutto che sembri attraente. Dev’essere questo.
Stavo per toccarla, ma mi fermai a pochi centimetri dalle sue spalle.
— Sai — continuò lei, con voce piatta, priva d’emozioni, — sei un incubo che cammina come un uomo.
Lasciai ricadere le mani e feci una risatina sorda.
— Lo so — dissi. — Sogni d’oro.
Feci per andarmene e lei m’afferrò per la manica.
— Aspetta!
Le fissai la mano, poi gli occhi, poi di nuovo la mano. Mi lasciò andare.
— Sai che non dico mai la verità — disse. Poi rise di quel suo piccolo riso fragile. — … E ho pensato a qualcosa che dovresti sapere su questo viaggio. C’è qui Donald Dos Santos, e credo che verrà anche lui.
— Dos Santos? È ridicolo.
— Adesso è su nella libreria, con George e un pezzo grosso arabo.
Il mio sguardo la oltrepassò e si fissò sul paesaggio della baia sottostante, dove le ombre, come i miei pensieri, si muovevano in strade piccole, scure e pendenti.
— Un pezzo grosso arabo? — chiesi, dopo un po’. — Mani sfregiate? Occhi gialli? Si chiama Hasan?
— Sì, è esatto. L’hai già incontrato?
— Ha fatto qualche lavoro per me in passato — confermai. E così sorrisi, anche se il sangue mi si stava raffreddando, perché non mi piace che la gente sappia quello che sto pensando.
— Stai sorridendo — disse lei. — Cosa pensi?
È fatta così.
— Sto pensando che tu prendi le cose più seriamente di quanto io credessi.
— Che idiozia. T’ho detto un mucchio di volte che sono una bugiarda spaventosa. In effetti l’ho ripetuto solo un secondo fa, e mi riferivo ad uno scontro poco importante in una grande guerra. E hai ragione a dire che sono meno infelice qui che da qualsiasi altra parte della Terra. Così forse potresti parlare a George, mandarlo a lavorare su Taler, o Bakab. Forse? Eh?
— Certo — dissi. — Sicuro. Ci puoi scommettere. Proprio così. Dato che tu ci provi da dieci anni… Come va la sua collezione d’insetti, in questi giorni?
Lei fece un mezzo sorriso.
— Cresce — replicò, — a passi da gigante. Ci sono anche api e pidocchi, e alcuni di questi pidocchi sono radioattivi. Io gli dico: «George, perché non fai qualcosa con qualche altra donna invece di passare tutto il tempo con questi insetti?». Ma lui si limita a scrollare la testa, e ha un’aria così assorta. Allora gli dico: «George, un giorno o l’altro uno di questi pidocchi ti pungerà e ti renderà impotente. E allora cosa farai?». Al che lui mi spiega che non può succedere, e mi dà ragguagli sulle tossine degli insetti. Forse è in realtà una grossa cimice travestita. Penso che ci trovi una specie di piacere sessuale a guardarli agitarsi in quei contenitori. Non so cos’altro…
Allora mi girai e guardai dentro la stanza, perché il suo viso non era più il suo viso. Quando la sentii ridere un momento dopo, tornai a girarmi e le strinsi la spalla.
— D’accordo, adesso ne so più di prima. Grazie. Ci rivediamo appena posso.
— Devo aspettare?
— No. Buona notte.
— Buona notte, Conrad.
E me n’ero andato.
Attraversare una stanza può essere un affare molto lungo e penoso: se è piena di gente, se tutta la gente ti conosce, se tutta la gente stringe in mano un bicchiere, se tu hai anche la minima tendenza a soffermarti.
E le cose stavano proprio a questo modo. Così…
Pensando pensieri inutili, mi feci strada rasente al muro per sei metri buoni sino alla periferia di tutta quell’umanità, sino a raggiungere l’ammasso di giovani signore che i vecchi scapoli si trovano sempre sulle spalle. Lui era privo di mento, quasi senza labbra, e sempre più calvo; e l’espressione che un tempo viveva sulla pelle che gli copriva il cranio s’era ritirata da un pezzo nell’oscurità dei suoi occhi; e nei suoi occhi, quando mi scorsero, c’era già il sorriso dell’oltraggio imminente.
— Phil — feci io, annuendo, — non tutti possono scrivere una masque come quella. Ho sentito dire che è un’arte che va morendo ma adesso devo ricredermi.
— Sei ancora vivo — disse lui, con una voce più giovane di settant’anni di tutto il resto, — e di nuovo in ritardo, come al solito.
— Chiedo umilmente scusa — dichiarai, — ma sono stato trattenuto ad una festa di compleanno per una signora di sette anni, in casa d’un vecchio amico. (Il che era vero, ma la cosa non ha nulla a che fare con questa storia).
— Tutti i tuoi amici sono vecchi amici, non è vero? — chiese lui, e questo era colpire sotto la cintura, solo perché una volta avevo conosciuto i suoi semi-dimenticati genitori, e li avevo portati a fare un giro nel lato sud dell’Eretteo per mostrargli il Portico delle Vergini e fargli vedere quello che Lord Elgin aveva fatto con quei resti, tenendomi intanto sulle spalle il loro figliolo dagli occhi intelligenti e raccontandogli storie che erano già vecchie quando quel posto era stato costruito.
— … E ho bisogno del tuo aiuto — aggiunsi, ignorando il suo sarcasmo e facendomi gentilmente strada tra quel morbido, pungente circolo di femminilità. — Mi ci vorrà tutta la notte per attraversare questo posto fino a dove Sands sta parlamentando col vegano — mi scusi, signorina — e non ho tutta la notte a disposizione. — Pardon, signora. — Così voglio che tu mi crei una bella interferenza.
— Lei è Nomikos! — sospirò una piccola amabile ragazza, fissando la mia guancia. — Ho sempre desiderato…
Le presi la mano, me la portai alle labbra, notai che il suo anello era d’un rosa splendente, e dissi: — E finora l’è andata male, eh? — E lasciai cadere l’argomento.
— E allora? — chiesi a Graber. — Portami via di qui col minimo dispendio di tempo, facendo uso del tuo solito atteggiamento da cortigiano e di una bella conversazione-fiume che nessuno abbia il coraggio d’interrompere. Okay? Partiamo.
Lui annuì bruscamente.
— Scusatemi, signore. Tornerò presto.
Partimmo attraverso la stanza, facendoci strada nel mare di gente. Alti sopra di noi i candelieri scivolavano e giravano come sfaccettati satelliti di ghiaccio. La telinstra era un’intelligente arpa eolica che gettava i suoi brani di canto nell’aria: pezzi di vetro colorato. La gente ronzava e s’agitava come certi insetti di George Emmet, e noi evitavamo il loro sciamare mettendo un piede davanti all’altro senza mai fermarci, e producendo rumori per conto nostro. Non calpestammo nessuno, in quella calca.
La notte era calda. Quasi tutti gli uomini indossavano l’Uniforme Nera leggera come una piuma che il protocollo impone in occasioni del genere ai membri dello Staff. Quelli che non la portavano, non erano dello Staff.
Scomode nonostante tutta la loro leggerezza, le Uniformi Nere vanno giù a piramide lungo i fianchi, lasciando liscio il davanti, su cui, all’altezza del seno sinistro sta cucito il simbolo della Terra, verde-blu-grigio-bianco, un circolino di sette centimetri di diametro; sotto si trova il simbolo del dipartimento cui appartiene l’individuo, seguito dall’indicazione del grado; sulla destra invece si trovano tutte le maledette specie di merdose decorazioni che siano mai state inventate per dare un’apparenza di dignità umana. Tutto merito dell’altamente immaginoso Ufficio delle Decorazioni, Arricchimenti, Insegne, Simboli e Araldica (UDAISA, per brevità; il suo primo Direttore apprezzava molto la propria posizione). Il colletto ha la strana tendenza a diventare una garrotta dopo i primi dieci minuti; almeno è quello che succede al mio.
Le signore indossavano, o non indossavano, qualunque cosa andasse loro: roba generalmente sfavillante, o accompagnata da un sottofondo in simicolor (a meno che facessero parte dello Staff, nel qual caso erano impacchettate in Uniformi Nere con gonna corta, ma con colletti sopportabili); il che rendeva abbastanza facile distinguere i padroni di casa dagli ospiti.
— Ho sentito dire che c’è Dos Santos — affermai.
— Infatti.
— Perché?