123823.fb2 Io, Nomikos, limmortale - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 9

Io, Nomikos, limmortale - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 9

Era passato un pezzo da che m’ero fatto vedere da Mamma Julie o Papà Joe o qualcuno degli altri, e l’hounfor non era poi tanto distante, ma non sapevo come mi avrebbero accolto se avessi portato un vegano. Naturalmente non facevano mai obiezioni quando portavo della gente.

— Be’… — cominciai.

— Voglio solo vedere — disse. — Me ne starò fuori dai piedi. Non si accorgeranno nemmeno che ci sono.

Mugugnai un poco e alla fine cedetti. Conoscevo abbastanza bene Mamma Julie e non mi pareva che ci fosse alcun pericolo, a parte tutto.

Così dissi: — D’accordo, la porterò a una cerimonia. Stanotte, se vuole.

Quello annuì, mi ringraziò, e sparì alla ricerca di un’altra Coca. George, che non s’era allontanato dal bracciolo della mia poltrona, si piegò verso di me e osservò che sarebbe stato molto interessante dissezionare un vegano. Concordai con lui.

Quando Myshtigo ritornò, Dos Santos era al suo fianco.

— Cos’è questa storia di voler portare Mister Myshtigo ad una cerimonia pagana? — chiese, con le narici che gli fremevano.

— È esatto — risposi, — lo porterò ad una cerimonia pagana.

— No, senza una guardia del corpo no.

Voltai in alto le palme della mano.

— Sono in grado di tenere sotto controllo qualsiasi eventualità.

— Hasan ed io t’accompagneremo.

Ero sul punto di protestare quando Ellen s’insinuò tra loro.

— Anch’io voglio venire — disse. — Non ne ho mai vista una.

Scrollai le spalle. Se veniva Dos Santos, sarebbe venuta anche Diane, ed era un bel mucchio di gente. Così uno in più non faceva nessuna differenza, o almeno non avrebbe dovuto farne. Era già tutto rovinato prima dell’inizio.

— Perché no? — dissi.

L’hounfor era situato dalla parte del porto, forse perché era dedicato ad Agué Woyo, dio del mare. Ma più probabilmente perché la gente di Mamma Julie era sempre stata gente di porto. Agué Woyo non è un dio geloso, così ci sono mucchi di altri dèi commemorati sui muri in colori brillanti. Nell’entroterra esistono altri hounfors più elaborati, ma hanno tendenza a commercializzarsi.

La grande barca di Agué era blu e arancione e verde e gialla e nera, e pareva abbastanza inadatta a prendere il mare. Damballa Wedo, scarlatto, si contorceva e occupava con la sua lunghezza quasi tutto il muro opposto. Papà Joe batteva con ritmo diversi grandi tamburi rada, sulla destra della porta dalla quale eravamo entrati (l’unica porta). Parecchi santi cristiani fissavano con espressione imperscrutabile gli splendenti cuori e fucili e croci tombali, bandiere, machete e stendardi che ricoprivano tutt’attorno quasi ogni centimetro di muro, fissi in una surreale atmosfera da dopo-l’uragano (avete presente il quadro di Tiziano?). E che i santi fossero d’accordo o meno, proprio non si poteva capire: fissavano in giù dalle loro scadenti cornici come se fossero finestre su un mondo straniero. Sul piccolo altare si trovavano diverse bottiglie di bevande alcooliche, zucche cave, ricettacoli consacrati allo spirito del loa, ciondoli, pipe, bandiere, foto tri-di di persone sconosciute e tra le altre cose, un pacchetto di sigarette per Papà Legba.

Era già in corso una cerimonia quando noi fummo introdotti da un giovane hounsi di nome Luis. La stanza era lunga circa otto metri e larga cinque e aveva un soffitto alto e un pavimento lurido. I danzatori si muovevano attorno al palo centrale con passi lenti e solenni. La loro pelle era nera e luccicava nella luce incerta delle vecchie lampade a kerosene. La nostra presenza servì a riempire definitivamente la stanza.

Mamma Julie mi prese la mano e sorrise. Mi condusse in un punto a lato dell’altare e disse: — Grazie per Erzulie.

Annuii.

— Tu le piaci, Nomikos. Tu vivi a lungo, viaggi molto, e ritorni.

— Sempre — soggiunsi.

— Quella gente…?

Indicò i miei compagni con un guizzo dei suoi occhi neri.

— Amici. Non daranno fastidio.

Lei rise mentre parlavo. Risi anch’io.

— Li terrò fuori dai piedi se ci lasci restare. Ci fermeremo nell’ombra ai lati della stanza. Se mi dici di portarli via, lo farò. Vedo che avete già danzato molto, vuotato parecchie bottiglie…

— Fermatevi — disse. — E qualche volta vieni a parlare con me di giorno.

— Senz’altro.

S’allontanò, e le fecero posto nel cerchio dei danzatori. Era piuttosto grossa, nonostante la sua voce fosse una cosuccia. Si muoveva come una gigantesca bambola di pezza, non senza una certa grazia, seguendo coi piedi il monotono brontolio dei tamburi di Papà Joe. Dopo un po’ quel suono riempiva tutto, la mia testa, la terra, l’aria; forse il battito del cuore della balena aveva fatto lo stesso effetto a Giona quando si era trovato nel suo stomaco. Guardavo i danzatori. E guardavo quelli che guardavano i danzatori.

Bevvi una pinta di rum per cercare di tirarmi su, ma non ci riuscii. Myshtigo continuava a sorseggiare una bottiglia di Coca che s’era portata dietro. Nessuno si accorse che lui era blu, ma d’altronde eravamo arrivati piuttosto tardi e le cose s’erano già messe in moto, da qualunque parte stessero andando.

Parrucca Rossa se ne stava in un angolo, accigliata e spaventata. Aveva a fianco una bottiglia, ma comunque non si mosse mai di lì. Myshtigo aveva a fianco Ellen, e nemmeno lei si mosse mai di lì. Dos Santos stava vicino alla porta e osservava tutti, persino me. Hasan, accucciato contro il muro di destra, fumava una pipa dal lungo cannello e dal fornello piccolo. Sembrava in pace.

Mamma Julie, immagino fosse lei, cominciò a cantare. Altre voci la seguirono:

Papà Legba, ouvri bayé!

Papà Legba, Attibon Legba ouvri bayé pou pou passé! Papà Legba…

Il coro continuava, e continuava e continuava. Cominciai a sentirmi assonnato. Bevvi dell’altro rum e mi venne ancor più sete, così ne bevvi dell’altro.

Non sono sicuro di quanto tempo fosse passato, quando successe. I danzatori avevano baciato il palo e cantato e scosso zucche e versato dell’acqua, e un paio di hounsi erano posseduti e parlavano con completa incoerenza, e il disegno fatto a farina sul pavimento era tutto confuso, e c’era un mucchio di fumo nell’aria, e io stavo appoggiato contro il muro e immagino che gli occhi mi si erano chiusi per un minuto o due.

Il suono nacque da un angolo inaspettato.

Hasan gridò.

Un lungo urlo penetrante che mi spinse in avanti, mi fece perdere l’equilibrio, e mi ributtò di nuovo contro il muro con un tonfo.

Il tamburo continuò a risuonare, senza perdere una sola battuta. Però alcuni dei danzatori si fermarono a guardare.

Hasan era balzato in piedi. Aveva i denti scoperti e gli occhi ridotti a fessure, e sul suo viso si leggevano, sotto la pellicola di sudore, i segni evidenti d’uno sforzo enorme.

La sua barba era una punta di lancia arroventata.

Il suo mantello, disteso alto contro certe decorazioni murali, era un paio d’ali nere.

Le sue mani, in un’ipnosi di lenti movimenti, stavano strangolando un uomo inesistente.

Suoni animaleschi venivano dalla sua gola. Continuò a strozzare l’essere inesistente.

Alla fine sobbalzò e le sue mani s’aprirono. Dos Santos gli fu quasi immediatamente a fianco, a parlargli, ma ormai abitavano due mondi differenti.

Uno dei danzatori prese a lamentarsi morbidamente. Altri si unirono a lui, e altri ancora.