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— Sono qui, Donny.
Potevo sentirlo, ma non riuscivo a vederlo. Era Jeffty, non c’erano dubbi in proposito: nessuno, salvo Jeffty, chiamava «Donny» il presidente e unico proprietario della Horton TV Sound Center, Donald H. Horton. Non mi aveva mai chiamato in altro modo.
(Non è una bugia: per quanto riguarda il pubblico, io sono l’unico proprietario del Centro. La società di fatto con mia zia Patricia esiste soltanto per consentirmi di ripagare il prestito che mi ha fatto, integrando la somma di cui ero venuto in possesso alla maggiore età, somma che avevo ereditato da mio nonno quando avevo dieci anni. Non che fosse un gran prestito, solo diciottomila, ma le avevo chiesto di essere la mia socia silenziosa, perché si era presa cura di me quand’ero bambino).
— Dove sei, Jeffty?
— Sotto la veranda, nel mio posto segreto.
Raggiunsi il fianco della veranda, mi chinai e tolsi la grata di vimini. Là sotto, sulla terra battuta, Jeffty si era confezionato il suo luogo segreto. Alcune ceste arancioni piene di libri, un tavolino e alcuni cuscini; alcune grosse candele sgocciolanti garantivano l’illuminazione, e noi avevamo l’abitudine di nasconderci là sotto, quando avevamo entrambi… cinque anni.
— Che cosa stai combinando? — gli chiesi, strisciando dentro e tirandomi la grata dietro le spalle, per chiuderla. Faceva fresco, sotto la veranda, la terra esalava un odore confortante e le candele ardevano con una sorta di vaga complicità. Qualunque ragazzino si sarebbe sentito a casa sua, in quel luogo segreto: non c’è mai stato un ragazzino, infatti, che non abbia trascorso le ore più felici, più creative, più deliziose e misteriose della sua vita in un simile luogo arcano.
— Sto giocando — rispose. Stringeva qualcosa di rotondo e dorato, che gli riempiva il palmo della piccola mano.
— Ti sei dimenticato che dovevamo andare al cinema?
— Niente affatto. Ti stavo giusto aspettando qui.
— Papà e mamma sono a casa?
— Mamma.
Capii allora perché mi stava aspettando sotto la veranda. Non indagai oltre. — Che cos’hai lì in mano?
— Il Distintivo Decodificatore Segreto di Capitan Mezzanotte — dichiarò, esibendolo sul palmo della mano.
Lo fissai come inebetito per parecchi minuti, poi mi riscossi e contemplai con occhi sgranati il miracolo che Jeffty stringeva in mano. Un miracolo che, semplicemente, non poteva esistere.
— Jeffty — bisbigliai, quasi timoroso di distruggere l’incanto, — come l’hai avuto?
— È arrivato oggi per posta. L’avevo chiesto.
— Dev’esserti costato un sacco di soldi.
— Oh, no. Dieci centesimi e due buoni-premio di due scatole di Ovomaltina.
— Posso vederlo? — La mia voce tremava, e anche la mano che gli tesi. Egli mi diede il distintivo, e io accolsi il miracolo nel cavo della mano. Era meraviglioso.
Ricordate? Capitan Mezzanotte era un programma diffuso in tutta la nazione, nel 1940. Era una trasmissione sponsorizzata dall’Ovomaltina. E ogni anno approntavano un nuovo Distintivo Decodificatore Segreto dello Squadrone. E alla fine di ogni trasmissione, davano un indizio su quella che sarebbe stata la puntata successiva… un indizio che soltanto i ragazzini col distintivo ufficiale potevano decifrare. Avevano smesso di produrre quei meravigliosi distintivi decodificatori nel 1949. Ricordo quello che avevo nel 1945: era meraviglioso. Aveva una lente d’ingrandimento al centro del quadrante del codice. Le trasmissioni di Capitan Mezzanotte cessarono nel 1950, e sebbene diventasse una serie televisiva (di vita breve) verso la metà degli anni Cinquanta, con tanto di Distintivi Decodificatori distribuiti nel 1955 e ’56, per ciò che mi riguarda i veri distintivi finirono dopo il 1949.
Il Decodificatore di Capitan Mezzanotte che reggevo in mano, quello che Jeffty mi aveva detto di aver ricevuto per posta, per dieci centesimi (dieci centesimi!!!) e due buoni-premio di Ovomaltina, era di metallo dorato, lustro, nuovo di zecca, neppure un’ammaccatura o una macchia di ruggine, come sui distintivi vecchi che si possono trovare a un prezzo esorbitante nelle botteghe dei collezionisti, ogni tanto… Era un Decodificatore nuovo. E l’anno impresso su di esso era quello attuale.
Ma Capitan Mezzanotte non esisteva più. Niente di simile esisteva alla radio. Avevo ascoltato una o due imitazioni assai scadenti delle vecchie trasmissioni, attualmente in programma, storie monotone, effetti sonori rabberciati, la sensazione complessiva che si ricavava era di qualcosa di sbagliato, datato, trito. Eppure, io, in quel momento, tenevo in mano un nuovo distintivo.
— Jeffty, parlami di questo — dissi.
— Per dirti che cosa, Donny? È il mio nuovo Distintivo Decodificatore Segreto. Mi serve per capire che cosa succederà domani.
— Domani… dove?
— Nel programma.
— Quale programma?
Mi fissò, come se io facessi apposta a non capire: — Il programma di Capitan Mezzanotte, Donny! — Ero davvero sciocco.
Non riuscivo ancora a capire bene. Ero lì, a bocca aperta, e ancora non capivo che cosa stesse succedendo. — Vuoi dire uno di quei dischi che hanno registrato dai vecchi programmi radio? È questo che intendi, Jeffty?
— Quali dischi? — Adesso era lui che non capiva.
Ci fissammo, là sotto la veranda. E poi dissi, molto lentamente, quasi timoroso della risposta: — Jeffty, come fai a sentire Capitan Mezzanotte?
— Ogni giorno. Alla radio. Alla mia radio. Ogni giorno alle cinque e mezza.
Notizie. Musica, musica sciocca, banale, e notizie. Ecco che cosa c’era ogni giorno alla radio, alle cinque e mezza. E non Capitan Mezzanotte. Lo Squadrone Segreto non veniva più trasmesso da vent’anni.
— Possiamo sentirlo, oggi? — gli chiesi.
— Donny! — esclamò. Quant’ero sciocco. Lo capii dal modo in cui lo disse, anche se sulle prime non sapevo perché. Poi me ne resi conto: oggi era sabato. Capitan Mezzanotte era in programma dal lunedì al venerdì. Non al sabato o alla domenica.
— Andiamo al cinema?
Dovette chiedermelo due volte. La mia mente era altrove. Niente di definito. Nessuna conclusione. Nessuna supposizione avventata su cui balzare. Soltanto un agitarsi scomposto qua e là, cercando di capire e concludendo, come voi avreste concluso, come chiunque avrebbe concluso piuttosto che accettare la verità, l’impossibile e meravigliosa verità, concludendo infine che doveva esserci una spiegazione semplice che non intravedevo ancora. Qualcosa d’insignificante, di banale, magari, come il passaggio del tempo che ci porta via tutte le cose vecchie e buone, imbrogliandoci e dandoci in cambio ninnoli di plastica. E tutto nel nome del progresso.
— Andiamo al cinema, Donny?
— Ci puoi scommettere gli stivali che ci andiamo, ragazzino — dissi. E sorrisi. E gli porsi il Decodificatore. E lui lo mise nella tasca dei calzoni. E poi strisciammo fuori da sotto la veranda. E andammo al cinema. E nessuno di noi due disse più nulla di Capitan Mezzanotte per tutto il resto della giornata. E non ci fu un solo minuto, per tutto il resto della giornata, che io non fossi ossessionato dal suo pensiero.
La settimana successiva fu tempo d’inventario. Non vidi Jeffty fino a giovedì. Confesso che me ne andai sul presto, lasciando il negozio nelle mani di Jan e David, dicendo loro che avevo certe faccende da sbrigare. Erano le quattro del pomeriggio. Arrivai dai Kinzer alle quattro e tre quarti. Mi aprì Leona; aveva un aspetto esausto e remoto. — Jeffty è da queste parti? — Lei disse che era sopra nella sua stanza…
… ad ascoltare la radio.
Salii i gradini a due alla volta.
D’accordo, avevo finalmente compiuto quel passo illogico e impossibile. Se quello sconvolgimento della realtà avesse coinvolto chiunque altro non fosse Jeffty, adulto o bambino, avrei trovato delle risposte più accettabili. Ma si trattava di Jeffty, chiaramente un ricettacolo di vita di tipo diverso, e ciò che lo riguardava non poteva rientrare nello schema ordinario delle cose.
Lo ammetto: volevo sentirlo con i miei orecchi, volevo…
Anche con la porta chiusa riconobbi il programma: «Ecco che va, Tennessee! Prendilo!».
Vi fu il pesante rimbombo della fucilata, il sibilo acuto della pallottola, poi la stessa voce urlò trionfante: «Preso! Centrato in pie-e-e-e-eno!».
Stava ascoltando l’American Broadcasting Company, 790 chilocicli: Tennessee Kid, uno dei miei programmi favoriti degli anni Quaranta, una serie western che non ascoltavo più da quasi vent’anni, poiché da quasi vent’anni non esisteva più.
Mi sedetti sull’ultimo gradino in cima alla scala, lì, nel corridoio al secondo piano della casa dei Kinzer, e ascoltai il programma. Non era una ripetizione di un vecchio episodio, poiché, nel corso della narrazione, vi erano di tanto in tanto riferimenti a fatti culturali e tecnologici correnti, e frasi che non erano state di uso comune negli anni Quaranta: aerosol, bombolette, tatuaggi al laser, Tanzania, l’espressione «iperteso».