124177.fb2 L’ombra della maledizione - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 17

L’ombra della maledizione - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 17

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Fu per puro caso, a tarda ora della mattina successiva, che Cazaril vide Orico oltrepassare il portone dello Zangre, diretto al serraglio, con la sola scorta di un paggio. Allora ripose in una tasca interna della sopravveste la lettera che stava portando all’ufficio della Cancelleria e si allontanò dalla Torre di Ias per seguire il Roya.

Il ciambellano di Orico aveva rifiutato di disturbarlo durante il sonnellino successivo alla colazione, ma, a quanto pareva, il Roya si era destato e stava andando a cercare conforto presso i suoi animali. Chiedendosi se il Roya si fosse svegliato in preda a un’emicrania pari a quella che stava affliggendo lui, Cazaril attraversò il cortile con passo deciso e ripassò mentalmente le sue argomentazioni. Se il Roya si fosse dimostrato timoroso di agire, allora gli avrebbe fatto notare che ciò equivaleva a cedere all’influenza malvagia della maledizione; se invece avesse affermato che i fratellastri erano troppo giovani, lui avrebbe ribattuto che lo erano troppo anche per essere convocati a Cardegoss. Fatto stava che erano lì, quindi, se non era in grado di proteggerli, almeno aveva un obbligo, sia verso di loro sia nei confronti di Chalion: doveva metterli al corrente del pericolo che correvano. Cazaril aveva poi intenzione di chiamare Umegat, perché confermasse che il Roya non poteva tenere per sé la maledizione. Non li mandate in battaglia alla cieca. Così Cazaril avrebbe implorato Orico, nella speranza che la supplica di Palli avesse sul cuore del Roya lo stesso effetto che aveva avuto sul suo. E in caso contrario… Se si addossava il compito di rivelare quel segreto, doveva parlarne prima con Teidez, in qualità di Erede di Chalion, e poi chiederne l’aiuto per proteggere sua sorella? Oppure doveva rivolgersi a Iselle, domandandone l’appoggio per gestire il più difficile Teidez? Quest’ultima strada gli avrebbe permesso di nascondere la propria complicità dietro le gonne della Royesse, ma soltanto se il segreto della sua colpa fosse sfuggito all’esame della sua mente acuta.

Un rumore di zoccoli lo strappò alle sue riflessioni, e lo indusse a sollevare lo sguardo appena in tempo per spostarsi dalla traiettoria di un gruppo di cavalieri che stava uscendo dalle stalle. Il Royse Teidez, in sella al suo splendido cavallo nero, era in testa a un gruppo di guardie baociane, composto dal capitano e da due uomini. Il volto rotondo del Royse, colpito dai raggi del sole invernale, appariva pallido sullo sfondo dell’abbigliamento lavanda e nero. Ma il sole fece anche scintillare lo smeraldo sulla mano del capitano, sollevata in un gesto di risposta al cortese saluto di Cazaril.

«Dove state andando, Royse? Uscite a caccia?» chiese, notando che tutti erano armati con lance, balestre, spade e randelli.

«No, facciamo una galoppata fino al fiume», rispose Teidez, frenando il cavallo nervoso e scoccando a Cazaril una fugace occhiata. «Stamattina lo Zangre è… soffocante.»

In effetti, la caccia non era vista di buon occhio in un periodo di lutto… Ma se si fossero imbattuti in un paio di daini, Teidez e i suoi compagni non avrebbero esitato ad accettare quel dono degli Dei.

«Capisco», annuì Cazaril, reprimendo un sorriso. «Un po’ di moto farà bene ai cavalli.» Si ritrasse un poco, perché Teidez fece per spronare la cavalcatura e aggiunse: «Royse… Più tardi vi vorrei parlare riguardo alla questione che tanto vi preoccupava ieri».

Teidez rispose con un vago cenno della mano e con uno sguardo accigliato che forse non era un assenso. Cazaril si accontentò e gli rivolse un inchino di saluto. Poi il gruppetto lasciò il cortile delle stalle.

Fu in quell’istante che Cazaril dovette piegarsi di scatto in avanti, gemendo. Era stato colto da un crampo al ventre di violenza inusitata, doloroso quanto il calcio degli zoccoli posteriori di un cavallo e tanto intenso da togliergli il respiro. Da quel punto, si propagò una serie di onde di dolore che gli causarono spasmi brucianti in tutto il corpo, fino al palmo delle mani e alla pianta dei piedi. Nella sua mente affiorò l’orribile visione del demone ipotizzato da Rojeras, un demone che si preparava ad aprirsi un varco a colpi di artigli attraverso il suo corpo. Era un’unica creatura oppure erano due? Non essendoci corpi a separare i due spiriti, ed essendo essi bloccati dalla pressione del miracolo operato dalla Signora, era forse possibile che Dondo e il demone avessero cominciato a fondersi, creando un singolo, orribile essere? Dopotutto, lui continuava ad avvertire soltanto una voce, e non due, che gli inveiva contro di notte. Sotto l’aggressione di quelle fitte lancinanti, le ginocchia gli cedettero e lui crollò sull’acciottolato gelido, traendo a fatica un affannoso respiro, mentre il mondo sembrava roteargli intorno.

Dopo qualche minuto, un’ombra che esalava un intenso odore di cavallo apparve vicino alla sua spalla e una voce brusca gli risuonò all’orecchio. «Mio signore, state bene?»

Sbattendo le palpebre per schiarirsi la vista, Cazaril scopri che uno degli stallieri, un individuo di mezz’età dai denti marci, si stava chinando su di lui.

«Non… proprio», riuscì a rispondere.

«Non volete rientrare?»

«Sì… Suppongo di sì…»

Puntellandolo con una mano sotto il gomito, lo stalliere lo aiutò ad alzarsi e lo sostenne per tutto il tragitto fino al corpo principale del palazzo.

«Aspetta», ansimò Cazaril, una volta giunti alla base delle scale. «Non ancora…» E si sedette pesantemente sui gradini.

«Devo chiamare qualcuno perché vi assista, mio signore?» chiese lo stalliere, dopo un imbarazzante silenzio. «Io dovrei tornare al mio lavoro…»

«È… solo uno spasmo, passerà tra qualche minuto. A dire il vero, mi sento già meglio, quindi puoi andartene.» In effetti, il dolore si stava attenuando. Adesso si sentiva accaldato e… strano.

Lo stalliere lo fissò con espressione incerta e accigliata, poi però annuì e se ne andò.

A poco a poco, seduto sui gradini, Cazaril cominciò a ritrovare il fiato e l’equilibrio, arrivando infine a raddrizzare di nuovo la schiena, mentre intorno a lui il mondo smetteva di vorticare. Un paio dei suoi consueti spettri sbucarono dalle pareti e si fermarono ai suoi piedi, in un atteggiamento insolitamente passivo. Adocchiandoli, fermi nell’ombra della scala, Cazaril si trovò a riflettere sulla gelida, solitaria dannazione cui erano destinati: la lenta erosione, la perdita progressiva di tutto ciò che li aveva resi uomini e donne… Cosa si provava, sentendo il proprio spirito che marciva a poco a poco, come marcisce la carne di un cadavere? Quegli spettri erano consapevoli del loro deterioramento, oppure anche la percezione di sé svaniva, misericordiosamente, col passare del tempo? Il leggendario inferno del Bastardo, con tutti i suoi supposti tormenti, sembrava quasi un paradiso rispetto a una sorte del genere.

«Cazaril!» esclamò una voce sorpresa, inducendolo a sollevare lo sguardo.

Fermo sul primo gradino, su cui appoggiava lo stivale, c’era Palli. Era affiancato da due giovani che, sotto il grigio mantello da viaggio, indossavano la divisa azzurra e bianca dell’Ordine della Figlia. «Stavo appunto venendo a cercarti», disse Palli, aggrottando le sopracciglia scure. «Che ci fai, seduto sulla scala?»

«Mi stavo riposando un momento», rispose Cazaril, con un rapido sorriso per nascondere il suo malessere, poi si alzò, badando a tenere una mano appoggiata con noncuranza alla parete, per mantenere l’equilibrio, mentre domandava: «Cosa sta succedendo?»

«Sono venuto a cercarti nella speranza che avessi il tempo di fare una passeggiata con me fino al Tempio, per parlare con alcune persone riguardo a quella faccenda relativa a Gotorget», spiegò Palli.

«Così presto?»

«Dy Yarrin è arrivato la scorsa notte, e adesso il nostro numero è sufficiente a prendere decisioni valide e vincolanti. Considerato che anche dy Jironal è appena rientrato in città, è opportuno che decidiamo la linea d’azione da seguire senza ulteriori indugi.»

Annuendo, Cazaril decise che sarebbe andato in cerca di Orico non appena tornato a palazzo, poi lanciò un’occhiata ai due compagni di Palli e riportò lo sguardo su quest’ultimo, all’apparenza in attesa di una presentazione, ma in effetti per chiedere indirettamente se si trattasse di persone di cui ci si poteva fidare.

«Ah, già!» esclamò allegramente Palli. «Permettimi di presentarti i miei cugini, Ferda e Foix dy Gura, venuti qui con me da Palliar. Ferda è il luogotenente del mio comandante di cavalleria, mentre suo fratello Foix… Ecco, ci serviamo di lui per spostare carichi pesanti. Avanti, ragazzi, inchinatevi al Castillar.»

Il più basso e tozzo dei due ufficiali sfoggiò un sorriso imbarazzato, ma entrambi riuscirono a inchinarsi con grazia accettabile. Entrambi i fratelli somigliavano in modo vago a Palli, soprattutto nei tratti decisi della mascella e nei luminosi occhi marroni; Ferda era di media statura, col fisico snello e muscoloso di un cavaliere nato, come dimostravano le gambe già leggermente arcuate, mentre suo fratello era più massiccio e muscoloso. Davano l’impressione di sani, allegri e ingenui nobilotti di campagna, ed erano spaventosamente giovani… ma la vaga enfasi che Palli aveva dato al termine cugini aveva risposto in maniera indiretta alla domanda altrettanto indiretta di Cazaril.

Quando Cazaril e Palli oltrepassarono il portone dello Zangre e si addentrarono nelle vie di Cardegoss, i due fratelli s’incamminarono dietro di loro e, per quanto giovani, dimostrarono di essere attenti e sul chi vive, guardandosi costantemente intorno e badando a mantenere l’impugnatura della spada libera dall’impiccio del mantello e della sopravveste. Notando la loro accortezza, Cazaril fu lieto di constatare che Palli non circolava senza scorta per le vie di Cardegoss, neppure nella grigia luce invernale. Poco dopo passarono sotto le mura di pietra di Palazzo Jironal, ma, nonostante i timori di Cazaril, nessun bravaccio uscì dalle porte rinforzate in ferro. Ben presto arrivarono alla Piazza del Tempio senza fare incontri, a parte tre cameriere che rivolsero un sorriso agli uomini che portavano i colori dell’Ordine della Figlia e ridacchiarono tra loro nell’oltrepassarli… cosa che sembrò allarmare i fratelli dy Gura, i quali s’irrigidirono un poco.

L’insieme di edifici che costituiva la Casa della Figlia era cinto da un muro che correva lungo un intero lato della Piazza del Tempio, che aveva la forma di un pentagono. La porta principale era riservata alle donne e alle ragazze che costituivano la maggior parte dei Devoti, degli Accoliti e dei Divini dell’Ordine, mentre gli uomini dell’Ordine militare della Figlia avevano un ingresso separato, un edificio tutto per loro e stalle per i cavalli dei corrieri. I corridoi del quartier generale militare erano gelidi, nonostante una notevole quantità di candele accese e l’abbondanza di tappeti e di arazzi, intessuti e ricamati dalle pie dame di Chalion, che ne rivestivano i muri. Nell’entrare, Cazaril accennò ad avviarsi verso la sala principale, ma Palli lo trattenne e lo indirizzò prima verso un altro corridoio e poi lungo una scala.

«Non vi riunite nella Sala dei Lord Devoti?» domandò Cazaril, scoccandogli un’occhiata da sopra la spalla.

«Troppo fredda, troppo grande e troppo vuota», rispose Palli, scuotendo il capo. «Là dentro ci sentiamo esposti. Per questi dibattiti e per le deposizioni abbiamo scelto una camera dove non siamo troppo dispersi e non ci geliamo i piedi.»

Lasciati i fratelli dy Gura nel corridoio, a contemplare un arazzo a colori vivaci che raffigurava la leggenda della vergine e dell’otre d’acqua — con la vergine e la dea entrambe dotate di una figura estremamente voluttuosa -, Palli guidò Cazaril oltre un paio di guardie della Figlia, che li scrutarono e restituirono il saluto di Palli, quindi lo precedette oltre una porta i cui battenti doppi erano decorati con intagli raffiguranti un intreccio di viticci. La camera che si apriva al di là di essa ospitava un lungo tavolo e almeno due dozzine di uomini, che in quell’ambiente ristretto erano accalcati ma al caldo. E soprattutto, notò Cazaril, erano al riparo da orecchie indiscrete. L’ambiente era rischiarato da una notevole quantità di candele di cera che tenevano a bada la foschia invernale, insieme con la finestra di vetro colorato su cui spiccavano i fiori primaverili preferiti dalla Signora.

Gli altri Lord Devoti sedevano al tavolo con fare rigido: c’erano uomini giovani e altri più maturi, divise eleganti e costose o logore e sbiadite dal tempo… Il volto di tutti, però, era improntato alla stessa espressione grave e severa. In qualità di nobile di rango più elevato, il Provincar dy Yarrin sedeva a capo del lungo tavolo, sotto la finestra. Cazaril non poté non chiedersi quanti fossero spie, o quantomeno individui poco inclini alla riservatezza… Sì, le precauzioni per tenere segreto quel conclave erano adeguate, però quel gruppo era così vasto e diversificato… Signora, guidali sulla via della saggezza, pregò.

«Signori, vi presento il Castillar dy Cazaril», annunciò Palli, con un inchino. «È stato il mio comandante all’assedio di Gotorget, ed è qui giunto per testimoniare in vostra presenza.» Poi andò a occupare un seggio dall’altra parte del tavolo, lasciando Cazaril in piedi. Un altro Lord Devoto gli fece pronunciare il giuramento di dire la verità, nel nome della Dea, e Cazaril non ebbe difficoltà a recitarne le parole con sincerità e slancio, soprattutto nel dire: «Possano le sue mani sorreggermi e mai lasciarmi cadere».

Dy Yarrin si assunse l’onere d’interrogarlo. Era un uomo astuto e Palli lo aveva informato di tutto: impiegò dunque pochi minuti a ottenere da Cazaril il racconto di ciò che era successo dopo la caduta di Gotorget. Cazaril si attenne strettamente ai fatti, senza scendere nei dettagli, ma si accorse che alcuni ascoltatori non avevano davvero bisogno di delucidazioni. Dalla loro espressione corrucciata si capiva benissimo che avevano intuito molto di ciò che lui aveva preferito sottintendere. Ci fu comunque qualcuno che volle sapere perché esistesse una simile inimicizia tra lui e Lord Dondo e, per quanto riluttante, Cazaril fu costretto a raccontare come per poco non fosse stato decapitato nella tenda del Principe Olus. Era considerato sconveniente denigrare i morti — giacché essi non erano in grado di difendersi -, e, pur non essendo certo che questo valesse anche per Dondo, Cazaril badò a mantenere la narrazione il più succinta e scarna possibile. Nonostante questa precauzione, quando arrivò alla fine si ritrovò oppresso da un pericoloso senso di vertigine e dovette appoggiarsi al tavolo.

Seguì una breve discussione relativa al modo di ottenere prove che corroborassero le sue informazioni… Cazaril aveva ritenuto insormontabile quell’ostacolo, ma dy Yarrin non parve considerarlo tale. Del resto, Cazaril non aveva mai pensato di ottenere la testimonianza di roknari superstiti, o di agire tramite i capitoli dell’Ordine della Figlia che si trovavano oltre confine, nei principati.

«Miei signori», intervenne infine, nel corso di una breve pausa del flusso di suggerimenti e di obiezioni, «anche se la verità delle mie affermazioni dovesse essere provata, non una, ma una dozzina di volte, non si tratta comunque di una questione tanto grave da provocare la caduta di un grande uomo… Certo non è cosa paragonabile al tradimento di Lord dy Lutez.»

«Che non è mai stato provato, neppure a quell’epoca», mormorò dy Yarrin.

«Come si classifica la gravità o l’importanza di qualcosa?» intervenne Palli. «Non credo che gli Dei interpretino la grandezza o la gravità come facciamo noi uomini e, per quanto mi riguarda, trovo che distruggere con noncuranza la vita di un uomo sia più ripugnante che farlo di proposito.»

Cazaril si appoggiò con maggior forza al tavolo, cercando di non crollare proprio in quel momento; Palli aveva insistito perché la sua voce venisse ascoltata in consiglio… Ebbene, sarebbe stata una voce che invitava alla cautela. «Signori, scegliere il Santo Generale rientra senza dubbio nelle vostre prerogative, ed è possibile che Orico accetti il vostro candidato, se gli faciliterete le cose. Sfidare il Cancelliere di Chalion, nonché il Santo Generale di un Ordine confratello, significa spingervi al di là dei vostri limiti, ed è mia convinta opinione che Orico non si lascerà mai persuadere ad appoggiarvi in questo. Di conseguenza, vi sconsiglio dal tentare.»

«O tutto o nulla», protestò uno dei presenti.

«Non sopporteremo mai un altro Dondo», rincarò qualcun altro.

Dy Yarrin sollevò una mano, troncando sul nascere quella marea di commenti. «Lord Cazaril, vi ringrazio per la vostra testimonianza e per la vostra opinione», disse, invitando così i confratelli a distinguere nettamente le due cose. «Ora però dobbiamo portare avanti questo conclave in privato.»

Palli spinse indietro lo sgabello e si alzò per accompagnare fuori Cazaril, recuperando i due fratelli dy Gura nel corridoio. Poi, però, una volta giunti alle porte della Casa, Cazaril rimase sorpreso, perché Palli e la sua piccola scorta continuavano a seguirlo. «Non dovresti tornare al consiglio?» domandò, mentre uscivano in strada.

«Provvederà dy Yarrin a ragguagliarmi, al mio ritorno. Ho intenzione di scortarti sano e salvo fino allo Zangre, perché non ho dimenticato la fine del povero Ser dy Sanda.»

Nell’attraversare la Piazza del Tempio, Cazaril si lanciò un’occhiata alle spalle, in direzione dei due giovani ufficiali che li seguivano a un passo di distanza e, rendendosi conto che quella scorta armata era per lui, decise di non lamentarsi. «Chi sarà il candidato alla carica di Santo Generale che presenterete a Orico? Dy Yarrin?»

«La mia scelta ricadrebbe su di lui», ammise Palli.

«In effetti, sembra avere una posizione d’autorità in seno al vostro consiglio. Ha qualche interesse personale a ottenere la carica?»

«Può darsi, però ha intenzione, qualora venga eletto, di trasmettere il titolo di Provincar della Yarrin al figlio maggiore e di dedicarsi interamente al nostro Ordine.»

«Ah! Se gli Dei volessero che Martou dy Jironal facesse lo stesso con l’Ordine del Figlio.»

«Già. Riveste una tale quantità di cariche che c’è da chiedersi come faccia ad assolvere bene a tanti doveri.»

I quattro si avviarono lungo la collina, percorrendo le strade cittadine e scavalcando con cautela i canali di scolo centrali, puliti a causa delle piogge recenti. Ben presto, le strette vie occupate dalle botteghe cedettero il posto a piazze più ampie, circondate da case eleganti. Nello scorgere la massa incombente di Palazzo Jironal, Cazaril si trovò di nuovo a riflettere sul Cancelliere, chiedendosi quale tratto positivo del carattere di Martou dy Jironal fosse stato corrotto dalla maledizione, posto che essa avesse davvero l’effetto di distorcere le virtù personali. Forse era l’amore per la famiglia, tramutato in diffidenza nei confronti di chiunque non apparteneva a essa… O magari era la fiducia eccessiva concessa a Dondo, cosa che senza dubbio si stava trasformando in una debolezza e in uno strumento di rovina.

«Sai… spero che prevalgano i pareri più cauti e moderati», commentò d’un tratto.

«La vita di corte ti sta trasformando in un diplomatico», ribatté Palli, con una smorfia.

«Non so proprio da che parte cominciare a spiegarti in cosa mi sta trasformando la vita di corte…» accennò a replicare Cazaril, con un cupo sorriso. In quel mentre, uno dei corvi di Fonsa scese in picchiata verso di lui dal tetto di una casa vicina, lanciandosi verso la sua testa con roche strida. Cazaril lanciò un grido e si abbassò di scatto. L’uccello quasi precipitò ai suoi piedi e prese a saltellare sulla pavimentazione, gracchiando e agitando le ali, subito seguito da altri due, uno dei quali andò ad atterrare sul suo braccio proteso, stridendo e affondando gli artigli per mantenersi in equilibrio. «Dannazione a questi uccelli!» imprecò Cazaril. Ultimamente aveva creduto che essi avessero perso ogni interesse nei suoi confronti… Invece stavano ricominciando le loro imbarazzanti dimostrazioni di entusiasmo.

«Per i cinque Dei», esclamò Palli, che si era ritratto d’un balzo con una risata, indicando al di sopra dei tetti. «Qualcosa li ha messi in agitazione! Guardate, sono tutti in volo sopra lo Zangre, e girano in cerchio!»

Sollevando una mano a ripararsi gli occhi, Ferda dy Gura guardò nella direzione indicata da Palli, scorgendo un lontano vorticare di sagome nere, simili a foglie sollevate da un ciclone, che salivano e scendevano; accanto a lui, suo fratello Foix si premette le mani sulle orecchie, assordato dalle strida dei corvi che continuavano a saltellare intorno ai loro piedi.

«E sono anche rumorosi!» gridò, al di sopra di quel fragore.

Allora Cazaril si rese conto che i corvi non erano affascinati da lui, ma isterici per qualche ignoto motivo, e sentì il cuore che gli si gelava nel petto. «C’è qualcosa che non va», disse. «Venite con me!»

Non essendo nelle condizioni migliori per una corsa in salita, aveva ormai la mano premuta contro il fianco dolorante quando finalmente si avvicinarono alle stalle esterne dello Zangre, coi corvi che gli volavano intorno alla testa, come se gli facessero da scorta. Sotto il persistente stridere dei corvi si scorgevano adesso grida umane, e ciò indusse Palli e i suoi cugini a correre più in fretta.

Uno stalliere che indossava il tabarro reale proprio degli addetti al serraglio stava camminando con passo barcollante davanti alle porte aperte del serraglio stesso, col sangue che gli colava lungo il volto, e due delle guardie baociane di Teidez, riconoscibili per la livrea verde e nera, erano piazzate davanti all’ingresso con la spada sguainata, tenendo a bada tre guardie del castello, paratesi davanti a loro, la spada in pugno, ma esitando ad attaccare. I corvi però non avevano simili remore e continuavano a scendere in picchiata, tentando di colpire con gli artigli e col becco i due baociani che, imprecando, li tenevano lontani con la spada; due fagotti di penne nere giacevano già sull’acciottolato, uno ormai immobile, l’altro che sussultava ancora.

«Nel nome del Bastardo, cosa sta succedendo qui?» ruggì Cazaril, avanzando a grandi passi verso il serraglio. «Come osate uccidere i corvi sacri?»

«State indietro, Lord Cazaril!» ingiunse uno dei due baociani, puntandogli contro la spada. «Non potete passare! Abbiamo ordini precisi del Royse.»

Le labbra ritratte sui denti in una maschera di furia, Cazaril spinse da parte la spada col braccio avvolto nel mantello e scattò in avanti, strappando l’arma dalla mano della guardia. «Dammela, razza di stolto!» ringhiò, scagliando l’arma sull’acciottolato, nella direzione in cui si trovavano le guardie dello Zangre e Palli, il quale aveva estratto la spada, in preda al panico nel vedere l’amico lanciarsi disarmato nella mischia. Tintinnando rumorosamente, la spada continuò a scivolare sull’acciottolato, ruotando su se stessa, sinché Foix non la bloccò, piazzandovi sopra un piede calzato di stivale e guardandosi intorno, come a sfidare chiunque intendesse recuperarla.

Cazaril si girò verso il secondo baociano, che lasciò cadere immediatamente la propria arma e si ritrasse davanti a lui con timore. «Castillar! Stiamo facendo questo per preservare la vita del Roya Orico!» si affrettò a gridare l’uomo.

«Cosa state facendo? Orico è là dentro? Che succede?»

Dall’interno dell’edificio giunse allora un ringhio felino che si trasformò in una sorta di miagolio lamentoso, un suono che indusse Cazaril a girarsi di scatto e a lasciare gli intimiditi baociani alla custodia delle guardie dello Zangre, ora incoraggiate ad avanzare, per addentrarsi nell’ombroso corridoio del serraglio.

Il vecchio stalliere privo di lingua era in ginocchio sulle piastrelle, piegato su se stesso, e singhiozzava, premendosi le mani prive dei pollici sul volto, col sangue che gli filtrava tra le dita. Nel sentire il rumore dei passi di Cazaril, l’ometto sollevò la testa con espressione disperata, la bocca contorta in una smorfia di sgomento. Oltrepassando di corsa le gabbie degli orsi, Cazaril intravide due masse nere inerti, crivellate di quadrelle e con la pelliccia imbrattata di sangue; sull’altro lato, i recinti dei velia erano aperti e le povere bestie giacevano tutte riverse su un fianco sulla paglia, con gli occhi aperti e fissi, e la gola tagliata.

Arrivando in fondo al corridoio, Cazaril vide infine il Royse Teidez che si stava sollevando dal corpo ormai inerte del leopardo. Puntellandosi sulla spada, il giovane si appoggiò su di essa col respiro affannoso, un’espressione di selvaggia esultanza dipinta sul volto, inconsapevole del manto d’ombra che gli vorticava intorno come un nembo temporalesco nel cielo notturno. «Ah!» esclamò il Royse, con un selvaggio sorriso, vedendo sopraggiungere Cazaril.

Il capitano delle guardie baociane, che aveva ancora in mano un piccolo uccello col collo spezzato; sbucò a precipizio dalla voliera per bloccare il passo a Cazaril; alle sue spalle, ammassi di penne colorate di tutte le dimensioni, uccelli morti o morenti, costellavano il pavimento della voliera, alcuni con le ali che ancora si agitavano in un ultimo rantolo.

«Fermo, Castillar…» tentò d’intimare il capitano, ma la voce gli si spense in gola quando Cazaril lo afferrò per la tunica e lo fece ruotare su se stesso, scagliandolo a terra davanti a Palli, che lo stava seguendo da presso con espressione attonita e sgomenta. Le sue labbra si muovevano, continuando a formulare le parole: «Lacrime del Bastardo, lacrime del Bastardo…» le stesse che lui mormorava a Gotorget nel corso delle battaglie, quando la sua spada si abbatteva sugli uomini che si arrampicavano lungo le scale d’assedio, e la stanchezza era tale da non lasciare fiato per le grida di guerra.

«Trattienilo», gli ringhiò Cazaril, da sopra la spalla, avanzando a grandi passi verso Teidez.

Gettando indietro il capo, il giovane Royse incontrò e sostenne il suo sguardo. «Adesso non potete più fermarmi… ce l’ho fatta!» esclamò. «Ho salvato il Roya!»

«Cosa… cosa… cosa…» balbettò Cazaril, così atterrito e furioso da non riuscire a formulare parole coerenti. «Stolto ragazzo! Quale sorta di follia distruttiva è mai questa…?» gridò infine, allargando le mani tremanti e indicando il massacro che aveva intorno.

«Ho infranto la maledizione, la magia nera che stava causando la malattia di Orico», ribatté Teidez, protendendosi in avanti con un sorriso soddisfatto. «Essa proveniva da questi animali malvagi… Erano un dono segreto dei roknari, inteso ad avvelenare lentamente il Roya. Adesso però li abbiamo sterminati e abbiamo ucciso la spia dei roknari… o almeno credo…» aggiunse, lanciandosi alle spalle un’occhiata dubbiosa.

Soltanto allora Cazaril notò l’ultimo corpo steso in fondo al corridoio. Umegat giaceva su un fianco, in un mucchio inerte, immobile al pari degli uccelli e dei velia, con accanto le carcasse delle volpi del deserto; in un primo tempo, non si era accorto di lui perché la limpida luce bianca che scaturiva dalla sua persona era spenta. Possibile che fosse davvero morto? Con un gemito, avanzò barcollando verso di lui e gli s’inginocchiò accanto: il lato sinistro della testa di Umegat era lacerato e la treccia di capelli brizzolati appariva arruffata e intrisa di sangue. La sua pelle era grigiastra quanto un vecchio straccio, ma il sangue filtrava ancora lentamente dalla ferita, quindi…

«Respira ancora?» domandò Teidez, avvicinandosi per sbirciare da sopra la spalla di Cazaril. «Quando si è rifiutato di lasciarci passare, il capitano lo ha colpito col pomo della spada…»

«Stolto, stolto, stolto ragazzo!»

«Non sono stolto! Era lui l’artefice di tutto questo», dichiarò Teidez, indicando Umegat. «Uno stregone roknari, inviato a prosciugare e a uccidere Orico.»

«Umegat è un Divino del Tempio», sibilò Cazaril. «È stato inviato qui dall’Ordine del Bastardo, perché si occupasse degli animali sacri, donati dal Dio per preservare Orico. Se non lo avete ucciso, è l’unica cosa positiva in questa carneficina.»

Per fortuna, sebbene le sue mani fossero gelide, Umegat respirava ancora, anche se in maniera affaticata e irregolare.

«No…» insistette Teidez, scuotendo il capo. «No, vi state sbagliando, non può essere…» Ma l’aria eroica ed esaltata cominciò a svanirgli dal volto.

Cazaril scattò in piedi, inducendo Teidez a indietreggiare leggermente e, nel girarsi, scoprì con sollievo che Palli lo aveva seguito, accompagnato da Ferda, il quale si stava guardando intorno con espressione stupefatta e inorridita.

Sapendo che l’amico avrebbe potuto prestare i primi soccorsi, Cazaril gli si rivolse: «Palli… Assumi il controllo qui e occupati degli stallieri feriti, soprattutto di questo, che potrebbe avere una frattura al cranio». E indicò Umegat. «Ferda», chiamò poi.

«Mio signore?»

«Corri al Tempio e trova l’Arcidivino Mendenal», gli ordinò Cazaril, certo che la divisa del giovane gli avrebbe consentito di entrare nei recinti sacri. «Devi vederlo immediatamente… Riferiscigli ciò che è successo qui, chiedendogli poi di mandare i medici del Tempio… In particolare, digli che Umegat ha bisogno di quella levatrice dell’Ordine della Madre, quella speciale. Lui capirà cosa intendo. Fa’ in fretta!»

«Dammi il tuo mantello e muoviti, ragazzo», aggiunse Palli, che si era già inginocchiato accanto a Umegat.

Gettato il proprio mantello al suo comandante, Ferda si girò di scatto e si allontanò prima che Palli avesse avuto il tempo di avvolgere l’indumento di lana grigia intorno al corpo del roknari.

Cazaril si concentrò su Teidez, il cui sguardo saettava all’intorno con crescente incertezza. Il giovane era indietreggiato verso la carcassa del leopardo: lo splendido pelo maculato nascondeva le ferite, contrassegnate soltanto dalle chiazze di sangue sui fianchi. Nel contemplare quell’animale, Cazaril si sorprese a ripensare al cadavere trafitto di dy Sanda.

«L’ho ucciso con la spada, perché era il simbolo regale della mia Casa, anche se era stregato», dichiarò Teidez. «L’ho fatto anche per mettere alla prova il mio coraggio… Quella bestia mi ha artigliato una gamba», aggiunse, chinandosi a massaggiarsi lo stinco destro, dove in effetti i calzoni neri apparivano laceri e insanguinati.

Teidez era l’Erede di Chalion, e il fratello di Iselle, quindi Cazaril non poteva — o almeno non doveva — desiderare che il felino gli avesse squarciato la gola. «Per i cinque Dei, come vi è venuta in mente un’assurdità del genere?» domandò.

«Non è un’assurdità! Sapevate anche voi che la malattia di Orico non aveva cause naturali! Ve l’ho letto in viso… Per i demoni del Bastardo, chiunque poteva accorgersene! Lord Dondo mi ha confidato il segreto, prima di morire. Io credo che sia stato assassinato proprio per impedire che questo segreto venisse alla luce, ma ormai era troppo tardi.»

«Avete elaborato da solo questo… piano di attacco?»

«No», rispose Teidez, sollevando il capo con fare orgoglioso. «Però, quando sono rimasto solo, l’ho portato a termine con le mie forze. Avremmo dovuto farlo insieme, dopo il matrimonio di Dondo con Iselle… Avremmo distrutto la maledizione e liberato la Casa di Chalion dalla sua malvagia influenza. Ma questo compito è ricaduto per intero sulle mie spalle, quindi io mi sono eletto a portabandiera di Dondo, ho deciso di essere il suo braccio, che dalla tomba si protendeva ancora una volta in difesa di Chalion!»

«Ah! Ah!» gemette Cazaril, talmente sopraffatto dallo sgomento da non riuscire ad articolare parola. Possibile che Dondo avesse creduto davvero a quelle assurdità? Oppure si trattava soltanto di un astuto piano per servirsi di Teidez, in una maniera indiretta e indimostrabile, e mettere così fuori combattimento o addirittura assassinare Orico? Malizia o stupidità? Con Dondo, chi poteva saperlo?

«Lord Cazaril, che ne dobbiamo fare di questi baociani?» domandò Foix, con una nota diffidente nella voce.

Sollevando lo sguardo, Cazaril vide che il capitano delle guardie baociane era stato disarmato ed era tenuto in custodia da Foix e da una delle guardie dello Zangre. «E voi!» gli ringhiò contro. «Voi, vi siete prestato a questo… stupido sacrilegio, senza dirlo a nessuno? Oppure siete ancora al servizio di Dondo? Ah! Prendete in custodia lui e i suoi uomini e chiudeteli in una cella finché…» Cazaril s’interruppe, riflettendo. Senza dubbio, dietro tutto quello c’era la mano di Dondo, che si stava protendendo dalla tomba per provocare caos e disastri, ma per una volta, lui aveva il sospetto che dietro Dondo non ci fosse l’appoggio di Martou… Anzi, se la sua supposizione era esatta, era esattamente l’opposto. «Teneteli in cella finché il Cancelliere non sarà stato informato», riprese. E, protendendo un braccio verso un’altra guardia, aggiunse: «Ehi, tu… Corri alla Cancelleria, o a Palazzo Jironal, od ovunque si trovi attualmente il Cancelliere, e informalo di quello che è successo, pregandolo di venire da me prima di recarsi da Orico.»

«Lord Cazaril, non potete ordinare l’arresto delle mie guardie!» protestò Teidez.

Unico tra i presenti ad avere la forza, se non l’autorità, per dare quella disposizione, Cazaril gridò: «Quanto a voi, andrete immediatamente nelle vostre camere, e ci resterete fino a nuovo ordine da parte di vostro fratello. Provvederò di persona ad accompagnarvi».

«Toglietemi le mani di dosso!» strillò Teidez, quando le dita di Cazaril gli strinsero un braccio in una presa ferrea. Ma, scorgendo l’espressione del Castillar non osò muoversi.

«No. Siete ferito, signore, e io ho il dovere di accompagnarvi da un medico», ribatté Cazaril, in tono falsamente cortese. Poi abbassando la voce, aggiunse: «Se ci sarò costretto, vi darò un colpo in testa e vi trascinerò di peso…»

«In tal caso, va’ con loro senza opporre resistenza», ordinò Teidez al suo capitano, cercando di suonare dignitoso. «Ti manderò a liberare più tardi, una volta che avrò dimostrato che Lord Cazaril è in errore.» Ma i due uomini stavano già scortando fuori il capitano e le parole di Teidez risultarono del tutto inutili.

Gli altri stallieri feriti si erano raccolti intorno a Palli e lo stavano aiutando a curare Umegat. Lanciando un’occhiata a Cazaril da sopra la spalla, Palli gli rivolse un rapido cenno di rassicurazione. Annuendo a sua volta, Cazaril rinsaldò la presa sul braccio di Teidez e, fingendo di sorreggerlo, lo sospinse fuori del serraglio trasformato in un mattatoio.

Troppo tardi, troppo tardi, troppo tardi… Quell’angoscioso ritornello continuò a martellare nella mente di Cazaril a ogni passo. Fuori, i corvi avevano smesso di volteggiare e di stridere e stavano saltellando sull’acciottolato in preda all’agitazione, sbigottiti e disorientati quanto i pensieri del Castillar.

Cazaril spinse Teidez oltre il portone dello Zangre, da cui soltanto ora stavano uscendo altre guardie. Il giovane aveva smesso di protestare, ma la sua espressione cupa, rabbiosa e offesa non lasciava presagire nulla di buono per il futuro di Cazaril. Inoltre camminava facendo leva anche sulla gamba ferita, lasciando a ogni passo impronte insanguinate sull’acciottolato del cortile.

Una delle dame di compagnia di Sara e un paggio apparvero sulla porta della Torre di Ias.

«Presto, corri!» ingiunse la donna al ragazzo, che si mise a correre, pallidissimo in volto, andando quasi a sbattere contro Cazaril.

«Dove vai così di fretta, ragazzo?» gli gridò dietro lui.

Girandosi, il paggio si concesse appena un istante per rispondere. «Al Tempio, mio signore. Non oso indugiare… la Royina Sara… il Roya ha avuto un collasso!» Il paggio si allontanò alla massima velocità, saettando davanti alle guardie che lo fissarono per un momento e spostarono poi lo sguardo, pieno d’improvviso disagio, verso la Torre di Ias.

Sotto la stretta di Cazaril, il braccio di Teidez perse d’un tratto ogni tensione e, negli occhi corrucciati del ragazzo, cominciò ad affiorare un’espressione spaventata, mentre lui scoccava una guardinga occhiata in tralice al suo «custode». Dopo un momento d’indecisione, e senza lasciar andare il Royse, Cazaril si volse di scatto, dirigendosi alla Torre di Ias. Accelerò il passo per raggiungere la dama di compagnia, che nel frattempo era rientrata, e lanciò alcuni richiami che lei, dalle scale, non parve sentire. Quando infine arrivò al terzo piano, dove si trovavano le camere di Orico, Cazaril ansimava. Scrutò con apprensione il corridoio centrale, lungo il quale vide sopraggiungere con passo affrettato la Royina Sara, avvolta nel suo scialle bianco e seguita da una dama di compagnia.

«Mia signora, cos’è successo? Posso esservi d’aiuto?» le chiese Cazaril, inchinandosi, quando lei arrivò all’altezza della scala.

«Non lo so ancora, Castillar», rispose la Royina, spaventata, portandosi una mano al volto. «Orico… Stava leggendo ad alta voce per me, nelle mie camere, mentre io cucivo, cosa che fa talvolta per tenermi compagnia… Ma all’improvviso ha smesso e si è sfregato gli occhi, lamentandosi che non riusciva più a vedere le parole perché la stanza si era fatta buia… il che non era vero! Poi è caduto dalla sedia. Ho chiamato le mie dame, lo abbiamo messo a letto, e ho fatto convocare un medico del Tempio.»

«Ho visto il paggio reale», le confermò Cazaril. «Stava correndo più in fretta che poteva.»

«Oh, bene…»

«Credete che si sia trattato di un colpo apoplettico?»

«Non penso… non lo so. Riesce a parlare un poco, e il suo respiro non è troppo affaticato… Cos’erano quelle grida che arrivavano dalle stalle?» chiese Sara e, senza attendere risposta, oltrepassò Cazaril, avviandosi sulle scale.

Cinereo in volto, Teidez si umettò le labbra, ma non proferì parola quando Cazaril lo fece girare e lo condusse di nuovo nel cortile, un silenzio che si protrasse finché i due non cominciarono a salire le scale del corpo principale del castello.

«Non è possibile», ripeté infine il Royse, con un filo di voce. «Dondo mi ha detto che il serraglio era un’opera di magia nera, una maledizione roknari per tenere Orico malato e debole, e ho visto io stesso che era davvero così…»

«In effetti esiste una maledizione roknari, ma il serraglio è un miracolo bianco che la contrasta e mantiene ugualmente in vita Orico… o almeno lo era, fino a ora», ribatté Cazaril.

«No… no, è tutto sbagliato. Dondo mi ha detto…»

«Dondo era in errore… Oppure desiderava accelerare la sostituzione di un Roya che favoriva suo fratello con un Roya che avrebbe favorito lui stesso.»

Teidez socchiuse le labbra come per protestare, ma non emise suono. Notando la sua espressione sconvolta, Cazaril si convinse che il giovane non stava mentendo. L’unica cosa positiva di quella giornata era che Dondo, pur avendo ingannato Teidez, non sembrava averlo corrotto, almeno non al punto d’indurlo a prestarsi spontaneamente a un fratricidio. No, Teidez era soltanto uno strumento, non un complice consapevole, ma purtroppo si trattava di uno strumento che aveva continuato a funzionare anche dopo la scomparsa della mano che lo impugnava. E di chi è la colpa, se quel ragazzo ha creduto a una quantità di menzogne, se non di chi si è rifiutato di dirgli la verità? rifletté.

Quando infine spinse il ragazzo nelle sue stanze, il suo pallido segretario-tutore sollevò con sorpresa lo sguardo dalla scrivania. «Prendetevi cura del vostro padrone, che è ferito», ingiunse Cazaril. «Badate che non lasci questo edificio finché il Cancelliere dy Jironal non sia stato informato dell’accaduto e non gli abbia dato il permesso di uscire dai suoi alloggi. Se sapevate di questo abominio e non avete fatto nulla per impedirlo, credo che il Cancelliere s’infurierà con voi», concluse, con una nota di acida soddisfazione.

Mentre il segretario impallidiva, confuso, Cazaril si volse per tornare al serraglio e verificare le condizioni di Umegat.

«Lord Cazaril!» lo richiamò Teidez, con un tremito nella voce. «Cosa devo fare?»

«Pregate», ringhiò Cazaril, da sopra la spalla, oltrepassando la soglia.