124177.fb2 L’ombra della maledizione - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 8

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Il banchetto di benvenuto organizzato per la notte del loro arrivo venne seguito, anche troppo presto, dalla colazione e dal pranzo del giorno successivo e poi da una festa serale in maschera. Quel programma si ripeté nei giorni successivi, con pasti sempre più sontuosi, tanto che Cazaril smise di pensare che il Roya Orico fosse sgradevolmente grasso e cominciò invece a chiedersi come mai la sua mole non fosse ancora tale da impedirgli di camminare. Col passare del tempo, se non altro, l’iniziale pioggia di doni caduta sui due regali fratelli cominciò a scemare, permettendo così a Cazaril di mettersi in pari con l’inventario e di procedere a valutare a chi, e in quale occasione, alcuni oggetti potessero essere donati. Da una Royesse, infatti, ci si aspettava un’indubbia generosità.

La mattina del quarto giorno, Cazaril si risvegliò da un sogno confuso: stava correndo per i corridoi del castello di Zangre con le mani piene di gioielli, che non riusciva a consegnare al momento giusto e alla persona giusta, il tutto seguendo le assurde indicazioni di un grosso topo parlante. Soffregandosi gli occhi, valutò l’opportunità di astenersi dai vini offerti alla tavola di Orico, oppure dai dolci che contenevano troppa pasta di mandorle, anche se non sapeva a quale delle due cose attribuire l’origine dei suoi incubi. Dopo un momento, però, ricordando quand’era stato costretto a vivere con le razioni elargite durante gli assedi, si mise a ridere e, sempre ridendo, si alzò dal letto.

Prese la tunica che aveva indossato il pomeriggio precedente, la scrollò e slacciò il polsino dell’ampia manica per recuperare la mezza forma di pane che Betriz gli aveva fatto riporre li il giorno prima, quando il picnic in riva al fiume era stato bruscamente interrotto da un acquazzone. Mentre soppesava la possibilità che, in origine, l’ampiezza di quelle maniche fosse stata studiata apposta per permettere d’immagazzinarvi viveri, posò la tunica, si tolse la camicia da notte, indossò i calzoni e si avvicinò alla bacinella per lavarsi.

In quel momento, dalla finestra aperta, giunse il rumore di uno sbattere d’ali. Colto di sorpresa, Cazaril alzò lo sguardo e vide uno dei corvi del castello atterrare sull’ampio davanzale di pietra. L’uccello piegò la testa nella sua direzione, mettendosi prima a gracchiare e poi a emettere strani borbottìi. Divertito, Cazaril si asciugò la faccia e prese un pezzetto di pane, avanzando con lentezza verso il corvo. Voleva capire se era abbastanza addomesticato da accettare il cibo dalle sue mani. E infatti il volatile lo fissò con espressione intensa, poi gli sfilò il pane dalle dita con un colpo di becco. Al contatto con quell’appendice aguzza, Cazaril cercò di non sussultare, ma si rese subito conto che il becco non lo aveva ferito. Inghiottito il pane, il corvo cambiò posizione sul davanzale, scrollò le ali, allargando la coda, cui mancavano due penne, e riprese a borbottare e a gracchiare, un aspro suono echeggiante che invase la piccola camera.

«Non dovresti dire Cra, cra! bensì Caz, Caz!» commentò Cazaril. Quindi, per parecchi minuti, si divertì a istruire il volatile nell’uso di quel nuovo linguaggio, arrivando a ripetere Cazaril! Cazaril! con una voce trillante che, a suo parere, imitava il verso di un uccello. Nonostante le abbondanti elargizioni di pane, però, il corvo sembrava ancor più refrattario all’apprendimento di una nuova lingua di quanto non lo fosse Iselle col darthacano.

Un colpo alla porta interruppe bruscamente la lezione.

«Sì?» rispose Cazaril, in tono distratto.

All’aprirsi del battente, il corvo svolazzò all’indietro e cadde dalla finestra. Cazaril seguì con lo sguardo il suo volo, osservandolo precipitare per un breve tratto e poi allargare di scatto le ali, tornando a librarsi nell’aria. Si allontanò con un moto circolare, sulla spinta di una corrente d’aria mattutina che saliva lungo la superficie del burrone.

«Mio signore dy Cazaril, la…» cominciò una voce, che poi s’interruppe di colpo.

Cazaril si voltò e, nel trovarsi davanti un paggio dall’aria sconvolta, fermo sulla soglia della sua stanza, si rese conto con un improvviso senso d’imbarazzo di non aver ancora indossato la camicia. «Sì, ragazzo?» domandò, allungando senza fretta la mano verso la tunica e scrollandola ancora, prima d’infilarla. «Cosa c’è?»

Il suo tono, pacato e indifferente, intimava a non fare commenti o domande in merito al disastro, vecchio ormai di un anno, che gli segnava la schiena. Deglutendo a fatica, il paggio infine ritrovò la voce. «Mio signore dy Cazaril… La Royesse Iselle vi prega di raggiungerla nella camera verde, subito dopo la colazione.»

«Ti ringrazio», replicò freddamente Cazaril, congedandolo poi con un cenno.

L’escursione mattutina per la quale Iselle richiedeva la scorta di Cazaril contemplava semplicemente la visita al serraglio che Orico le aveva promesso. Al suo ingresso nella camera verde, Cazaril trovò il Roya su una sedia, immerso nel sonnellino successivo alla colazione; di lì a poco, comunque, Orico si riscosse con uno sbuffo, si massaggiò la fronte come se gli dolesse, si ripulì l’ampia tunica da alcune briciole appiccicose, poi prese qualcosa avvolto in un pezzo di lino e si avviò con la sorella e con Cazaril, oltrepassando il portone del castello e addentrandosi nei giardini.

Nel cortile delle stalle, i tre s’imbatterono nel gruppo formato da Teidez e dai suoi compagni di caccia, in procinto di muoversi. Fin dal suo arrivo a Zangre, Teidez aveva implorato di poter andare a caccia e, a quanto pareva, Lord Dondo aveva realizzato il suo desiderio, chiamando a raccolta una mezza dozzina di cortigiani, stallieri, battitori, sei cani e Ser dy Sanda. In sella al suo cavallo nero, Teidez salutò con allegria la sorella e il suo regale fratello. «Lord Dondo sostiene che probabilmente la stagione non è ancora abbastanza avanzata da poter avvistare un cinghiale», gridò. «Ma forse saremo fortunati.»

Lo stalliere di Teidez, che lo seguiva in sella al proprio cavallo, trasportava un vero e proprio arsenale di armi, comprese la nuova balestra e la lancia per cinghiali. Iselle, che non era stata invitata, lanciò alla piccola compagnia uno sguardo d’invidia. Persino dy Sanda sfoggiava un sorrisetto soddisfatto di fronte alla prospettiva di una mattinata dedicata a quella nobile attività. Poi Lord Dondo lanciò un grido di entusiasmo e il gruppo uscì dal cortile al piccolo trotto.

Cazaril cercò di capire perché si sentisse a disagio a contemplare quella gradevole immagine di caccia autunnale e d’un tratto comprese: nessuno degli uomini accanto a Teidez aveva meno di trent’anni, il che significava che nessuno lo stava seguendo per amicizia o almeno nella speranza d’instaurarne una. Quei cortigiani erano mossi esclusivamente dall’interesse personale. Se avessero posseduto un minimo d’intelligenza, pensò Cazaril, quegli uomini avrebbero fatto bene a chiamare a corte i loro figli, lasciando che la natura seguisse il suo corso. Certo, anche quello era un quadro non scevro da pericoli, tuttavia…

Con passo pesante, Orico si avviò per aggirare le stalle, costringendo le dame e Cazaril a seguirlo. Il capo stalliere Umegat, che di certo era stato avvertito, li stava aspettando tutto compunto vicino alle porte del serraglio, spalancate per lasciar entrare il sole e la brezza mattutina. Mentre si avvicinavano, lo stalliere fece un profondo inchino.

«Questo è Umegat», spiegò Orico alla sorella. «Gestisce il serraglio per mio conto. È un roknari, ma sotto molti aspetti è un brav’uomo.»

Controllando un sussulto di allarme, Iselle rivolse allo stalliere un aggraziato cenno del capo. «Che i santi vi benedicano in questo giorno, Umegat…» Aveva parlato in roknari e anche in modo abbastanza corretto. L’unico neo era l’aver fatto ricorso alla forma grammaticale adatta al rapporto padrone-guerriero e non a quello padrone-servitore.

Sgranando gli occhi, Umegat s’inchinò ancor più profondamente. «La benedizione degli Altissimi scenda anche su di voi, m’hendi», rispose, con un purissimo accento dell’Arcipelago, utilizzando la forma grammaticale richiesta a uno schiavo che si rivolga al suo padrone.

Nel sentirlo parlare, Cazaril inarcò di scatto le sopracciglia, perché era chiaro che quello non era un mezzosangue chalionese. Quali vicissitudini lo avevano condotto al castello di Zangre? «Siete molto lontano da casa, Umegat», azzardò allora, spinto dalla curiosità, utilizzando la forma propria del rapporto servitore-servo inferiore.

«Avete un orecchio acuto, m’hendi», osservò Umegat, con un accenno di sorriso. «È una cosa rara, a Chalion.»

«Lord dy Cazaril è il mio maestro…» iniziò a spiegare Iselle.

«In tal caso, mia signora, siete servita in maniera eccellente», replicò Umegat, poi si girò verso Cazaril e, passando alla forma servitore-studioso, una raffinatezza grammaticale ancora superiore alla modalità servitore-padrone, aggiunse: «Adesso, Saggio, Chalion è la mia casa…»

«Mostriamo a mia sorella i miei animali», intervenne Orico, annoiato da quelle amenità bilingui. Con un sorriso da cospiratore, sollevò il pacchettino avvolto nel tovagliolo e proseguì: «A colazione, ho rubato un favo per i miei orsi, e ben presto il miele comincerà a colare, se non mi libero di questo fagotto».

Ricambiando il sorriso, Umegat li precedette all’interno del serraglio, che quella mattina sembrava ancora più pulito e ordinato di quanto Cazaril lo rammentasse. Senza dubbio era più pulito delle sale per i banchetti di Orico.

Congedatosi dagli altri, Orico si diresse immediatamente verso una delle gabbie degli orsi. Al suo ingresso, l’animale che la occupava si svegliò, sollevandosi a sedere sulle zampe posteriori, posizione immediatamente imitata da Orico, che si accoccolò sulla paglia pulita. I due rimasero a fissarsi, il Roya stranamente simile all’orso nella posa e nella figura. Dopo un po’, Orico aprì il tovagliolo e staccò un pezzetto del favo, porgendolo all’orso che si protese in avanti, annusò e cominciò a leccargli le dita con una lunga lingua rosata. Lanciando esclamazioni ammirate, Iselle e Betriz fecero alcuni commenti sulla splendida pelliccia dell’animale, ma non accennarono a raggiungere il Roya nella gabbia.

Umegat le accompagnò poi a vedere quelle strane creature simili a capre. Giacché gli animali erano palesemente erbivori, le due dame non ebbero timore di entrare negli stalli per accarezzarli ed elogiare i loro grandi occhi scuri dalle lunghe ciglia. Spiegando che si chiamavano velia, e che venivano importati da un luogo che si trovava al di là dell’Arcipelago, Umegat porse alle dame alcune carote, che esse diedero ai velia con grande soddisfazione reciproca.

Dopo essersi pulita sulla veste le mani sporche di carota e della saliva dei vella, Iselle e gli altri seguirono Umegat verso le voliere, mentre Orico, con un cenno, fece loro capire che sarebbe rimasto ancora un po’ nella gabbia dell’orso.

In quel momento, una sagoma scura scese in picchiata dal cielo e s’insinuò nel corridoio di pietra dalla volta arcuata, arrestandosi poi con un borbottio e uno sbattere d’ali sulla spalla di Cazaril; sussultando con violenza, l’uomo girò la testa di scatto e si trovò davanti un corvo, probabilmente lo stesso che si era posato sulla sua finestra, almeno a giudicare dalla coda, cui mancavano due penne.

«Caz, Caz!» stridette il corvo, flettendo gli artigli intorno alla sua spalla.

«Era ora che imparassi, stupido uccello!» rise Cazaril. «Adesso però non ti serve più a nulla, perché ho finito tutto il pane.» Poi scrollò la spalla, ma il corvo mantenne la presa e continuò a strillare: «Caz, Caz!» in toni tanto acuti da riuscire dolorosi.

«Chi è il vostro amico, Lord Caz?» sorrise Betriz, stupita.

«Si è posato sulla mia finestra, stamattina, e ho tentato d’insegnargli qualche parola», spiegò Cazaril. «Non credevo però di esserci riuscito…»

«Caz, Caz!» insistette il corvo.

«Dovreste essere altrettanto diligente con lo studio del darthacano, mia signora!» esclamò Cazaril. «Avanti, Ser dy Corvo, adesso vattene. Non ho altro pane, quindi va’ a cercare qualche pesce sotto le cascate oppure una carcassa di pecora, o chissà che altro… sciò!» gridò, abbassando la spalla. Ma, dato che il volatile non accennava a muoversi, aggiunse: «Questi corvi del castello sono decisamente avidi e pigri. I corvi di campagna devono svolazzare di qua e di là per procurarsi il cibo; loro si aspettano quasi di essere imboccati».

«In effetti, i corvi del castello di Zangre sono veri e propri cortigiani», commentò Umegat, con un sorriso.

Trattenendo a stento una risata, Cazaril si girò a guardare l’impeccabile stalliere. Se lavorava lì da parecchio tempo, Umegat doveva aver avuto modo di studiare a fondo i cortigiani del palazzo… «Questo interessamento sarebbe più lusinghiero se tu non fossi un uccello del malaugurio!» disse poi, rivolto al corvo. «Ora vattene!» E spinse via il corvo, ma esso si limitò a svolazzargli sulla testa e ad affondargli gli artigli nel cuoio capelluto, strappandogli un grido di dolore.

«Cazaril!» gracchiò poi, dalla sua nuova posizione.

«Dovete essere davvero molto bravo nell’insegnare le lingue, Lord dy Cazaril», intervenne Umegat, con un sorriso sempre più ampio. «Se abbassate la testa, mio signore, cercherò di liberarvi del vostro… passeggero.» Quindi si rivolse al corvo, mormorando: «Sì, sì, ti ho sentito…»

Cazaril obbedì e Umegat prese a mormorare qualcosa in roknari. Dopo un po’, il corvo passò sul suo braccio, cosa che permise allo stalliere di condurlo fuori e lanciarlo in aria. L’uccello si allontanò svolazzando e, con sollievo di Cazaril, gracchiando in maniera più normale.

I tre visitatori si accostarono quindi alle voliere. Lì Iselle scoprì di essere tanto popolare presso gli uccelli in gabbia quanto Cazaril lo era stato con quel corvo arruffato; quando essi le si posarono sulle maniche, Umegat le insegnò come indurre quelle creature ad accettare chicchi di grano tenendoli tra i denti. Passarono poi agli uccelli sui trespoli, e Betriz ammirò in modo particolare un grosso volatile di un colore verde acceso, col petto giallo e con la gola color rubino, che emetteva versi chioccianti dal grosso becco giallo e si dondolava di continuo sulle zampe.

«Questo è un arrivo piuttosto recente, ma credo abbia avuto una vita difficile ed errabonda», spiegò Umegat. «È abbastanza quieto, ma ci è voluto non poco tempo per riuscire a calmarlo.»

«Sa parlare?» domandò Betriz.

«Sì, ma conosce soltanto parole volgari, anche se, per fortuna, esclusivamente in roknari… Ho il sospetto che sia appartenuto a qualche marinaio», rispose Umegat. «Il March dy Jironal lo ha portato con sé dal nord questa primavera, come bottino di guerra.»

Nel pensare alle voci giunte fino a Valenda in merito a quella campagna, che si era conclusa senza vincitori né vinti, Cazaril si chiese se anche Umegat avesse fatto parte di un bottino di guerra, proprio come lui. Forse è arrivato a Chalion proprio così… «Un uccello grazioso», commentò. «Tuttavia non mi pare che possa compensare la perdita di tre città e del controllo di un passo.»

«Ritengo che Lord dy Jironal abbia ottenuto in cambio anche altre cose di valore», replicò Umegat. «Al suo ritorno a Cardegoss, il convoglio dei suoi bagagli ha impiegato un’ora a oltrepassare il portone.»

«So quanto possono essere lenti e caparbi i muli da soma», ribatté Cazaril, per nulla colpito. «In quella sconsiderata avventura, Chalion ha perso più di quanto dy Jironal abbia guadagnato.»

«Non è stata una vittoria?» chiese Iselle, inarcando di scatto le sopracciglia.

«Come la si potrebbe mai definire tale? Noi e i principati dei roknari ci stiamo contendendo quella zona di confine ormai da decenni, e abbiamo reso una landa desolata quella che era una terra fertile. Frutteti, oliveti e vigneti sono stati dati alle fiamme, le fattorie sono state abbandonate, gli animali domestici sono regrediti allo stato selvatico o sono morti di fame… È la pace, e non la guerra, ad arricchire: la guerra si limita a trasferire il possesso di ciò che resta da un padrone più debole a uno più forte. La cosa peggiore, però, è che quanto viene comprato col sangue è poi venduto per denaro, solo per essere rubato di nuovo. Vostro nonno, il Roya Fonsa, ha pagato la conquista di Gotorget con la vita dei suoi figli, ma il March dy Jironal ha venduto quella fortezza per trecentomila reali d’oro… Una trasmutazione alchemica davvero incredibile, considerato che il sangue di un uomo viene trasformato in denaro a vantaggio di altri. Al confronto, convertire il piombo in oro appare davvero cosa da poco.»

«Non ci potrà mai essere la pace nel nord?» domandò Betriz, sorpresa da quella veemenza insolita per Cazaril.

«Non finché la guerra porterà simili profitti. Anche i principi dei roknari si comportano così. Si tratta di una forma di corruzione universale.»

«Vincere la guerra potrebbe tuttavia porre fine a questo stato di cose», obiettò Iselle.

«Una vittoria del genere è soltanto uno splendido sogno», sospirò Cazaril. «Per realizzarlo, un Roya dovrebbe indurre i nobili a prestarsi al suo gioco senza far capire loro che, in tal modo, loro perderanno enormi profitti futuri… Senza contare che, anche così, la vittoria non sarebbe possibile, perché, da sola, Chalion non potrebbe mai sconfiggere tutti e cinque i principati. E se pure, per qualche miracolo, ci riuscisse, dopo non avrebbe la potenza navale necessaria per conservare il controllo delle coste. Se tutte le royacy quintariane unissero le loro forze e combattessero con coraggio per una generazione, un Roya dotato di un potere e di una determinazione immensi potrebbe forse riuscire a unire l’intero continente, ma il costo in termini di uomini e di denaro sarebbe enorme.»

«Più elevato del costo generato da questo interminabile fiume di sangue e di disonestà che scorre nel nord?» chiese Iselle, soppesando le parole. «Se lo si facesse una volta, nel modo giusto, il problema sarebbe risolto per sempre.»

«Ma non c’è nessuno in grado di realizzare una cosa del genere. Il Roya di Brajar è un vecchio ubriacone che pensa solo a divertirsi con le dame della sua corte, la Volpe di Ibra è perennemente impegnata in una guerra civile, e Chalion…» Cazaril s’interruppe, rendendosi conto che il ridestarsi di emozioni sopite lo stava inducendo a parlare con una franchezza assai poco saggia e diplomatica.

«Teidez…» mormorò Iselle. «Forse questo nobile compito spetterà a Teidez, una volta che sarà diventato adulto.»

Non addosserei a nessuno un simile fardello, pensò Cazaril. Doveva tuttavia ammettere che il ragazzo sembrava dotato di un certo talento in quella direzione. Certo, sarebbe stato necessario insegnargli come farlo affiorare e indirizzarlo nel modo giusto…

«La conquista non è l’unico modo per unire i popoli», interloquì Betriz. «Esiste anche il matrimonio.»

«Sì, ma nessuno potrebbe mai unire in questo modo tre royacy e cinque principati», obiettò Iselle, arricciando il naso. «Non in una volta sola, comunque.»

L’uccello verde, forse irritato dal fatto che il suo pubblico si era distratto, scelse proprio quel momento per fare sfoggio della propria conoscenza del roknari con una frase particolarmente lasciva. Era senza dubbio appartenuto a un marinaio, probabilmente in servizio su qualche galea, rifletté Cazaril e sogghignò. Anche Umegat sorrise, ma poi inarcò le sopracciglia nel vedere Betriz e Iselle serrare di scatto le labbra, tingersi di un velato rossore e scambiarsi un’occhiata. Con noncuranza, allora, lo stalliere prese un piccolo cappuccio e lo infilò sulla testa del volatile.

«Buonanotte, mio verde amico», gli disse. «Credo che tu non sia ancora pronto per trattare con l’alta società locale. Forse Lord dy Cazaril dovrebbe passare di qui, ogni tanto, e insegnarti anche un po’ di roknari di casta alta.»

Cazaril stava per commentare che Umegat sembrava perfettamente in grado di assolvere quel compito, allorché venne distratto da un rumore di passi che proveniva dalla porta della voliera. Era Orico, che avanzò, sorridente, mentre si puliva sui calzoni le mani sporche di saliva dell’orso.

Il commento fatto dal siniscalco il giorno stesso del loro arrivo corrispondeva alla realtà, pensò allora Cazaril. Quel serraglio era fonte di enorme consolazione per Orico, che adesso aveva lo sguardo limpido e il volto soffuso di un colorito sano, senza più traccia dello sfinimento manifestato subito dopo la colazione.

«Dovete venire a vedere i miei gattoni», annunciò il Roya alle due dame.

Il gruppetto lo seguì lungo il corridoio di pietra, mentre lui mostrava con orgoglio alcune gabbie contenenti un paio di splendidi felini dal pelo dorato, con grossi ciuffi di pelo sulle orecchie, che provenivano dalle montagne nella parte sud di Chalion; un’altra gabbia ospitava un raro esemplare albino della stessa razza, con gli occhi azzurri e le orecchie sovrastati da ciuffi di pelo nero. Quell’estremità del corridoio accoglieva anche un paio di creature — volpi del deserto dell’Arcipelago, a detta di Umegat — simili a lupi, ma ossute e di taglia più piccola, con enormi orecchie triangolari e un’espressione insolitamente cinica.

Infine Orico mostrò loro il leopardo, senza dubbio il suo animale preferito. Condotto fuori dalla gabbia mediante il guinzaglio d’argento, il grosso felino prese a sfregarsi contro le gambe del Roya, emettendo strani, piccoli versi gorgoglianti. Cazaril trattenne il fiato quando Iselle, incoraggiata dal fratello, s’inginocchiò per accarezzare il leopardo, accostando il volto a quelle fauci possenti. La giovane cominciò a grattarlo sotto il muso, passando nel contempo la mano sullo splendido pelo maculato e, sebbene i tondi occhi ambrati dell’animale apparissero tutt’altro che amichevoli, esso socchiuse le palpebre con aria palesemente beata, l’ampio naso rossiccio che vibrava di piacere.

Incoraggiato, Cazaril provò a inginocchiarsi a sua volta, ma il ronfare del felino assunse subito un altro tono, che a lui parve ostile. Gli occhi ambrati, poi, lo scrutavano con tale freddezza da indurlo a rialzarsi.

Il Roya decise di trattenersi nel serraglio per parlare col capo stalliere, quindi toccò a Cazaril riaccompagnare le dame allo Zangre. Lungo il tragitto esse discussero allegramente, cercando di capire qual era la bestia più interessante.

«Secondo voi, qual è l’esemplare più strano, là dentro?» domandò infine Betriz a Cazaril.

Lui esitò un istante prima di replicare, ma alla fine decìse di rispondere con sincerità. «Umegat.»

Betriz stava per ribattere a quella che pensava fosse una battuta scherzosa, ma poi vide Iselle scoccare a Cazaril un’occhiata penetrante e tacque. Sui tre scese un pensoso silenzio, che continuò a regnare finché non raggiunsero il portone del castello.

L’accorciarsi delle giornate, dovuto al sopraggiungere dell’autunno, non venne vissuto come una perdita dagli abitanti del castello di Zangre. Le notti, infatti, continuarono a essere movimentate da banchetti e feste; i cortigiani sembravano fare a gara nell’offrire intrattenimenti, spendendo denaro a piene mani e sforzando al massimo la loro ingegnosità. Teidez e Iselle ne erano abbagliati, ma la fanciulla non perse del tutto il suo senso critico. Anzi, grazie ai commenti sussurrati da Cazaril, la Royesse cominciò a cogliere messaggi nascosti, a intuire intenzioni, aspettative e spese calcolate in previsione di qualche futuro vantaggio.

Teidez, invece, almeno secondo Cazaril, stava assorbendo ogni cosa. Gli scontri sempre più frequenti e aperti tra lui e dy Sanda ne erano un segno: il tutore si ostinava a combattere una battaglia persa in partenza, deciso com’era a costringere il ragazzo a osservare la disciplina vigente nella casa della Provincara. La stessa Iselle cominciò a preoccuparsi per i crescenti segni di tensione tra il fratello e il suo tutore. Cazaril lo comprese una mattina, quando Betriz, con fare noncurante, lo prese in disparte, e lo portò verso una finestra che sovrastava la confluenza dei due fiumi e buona parte dell’entroterra di Cardegoss. Dopo qualche vago commento sul clima, che rispecchiava la stagione, e sulla caccia, Betriz passò all’argomento che le stava a cuore. «Qual è stato il motivo della spaventosa lite che Teidez e il povero dy Sanda hanno avuto la scorsa notte?» chiese, in un sussurro. «Urlavano a tal punto che li sentivamo attraverso le finestre e il pavimento.»

«Uh… ecco…» annaspò Cazaril. Come poteva spiegare l’accaduto? Non era certo adatto alle orecchie di una fanciulla… Sarebbe stato più facile parlarne con Nan dy Vrit, dato che quella vedova piena di buon senso partecipava senza dubbio a tutte le discussioni che si svolgevano al piano di sopra. D’altro canto, era meglio essere franco che rischiare un fraintendimento, ed era di gran lunga meglio esserlo con Betriz, che non con Iselle. Betriz non era una bambina e, soprattutto, non era la sorella di Teidez: sarebbe stata più adatta di lui a decidere cosa riferire a Iselle e cosa tenere per sé. «La scorsa notte, Dondo dy Jironal ha portato a Teidez una donna a pagamento. Naturalmente, dy Sanda l’ha subito buttata fuori, e Teidez si è infuriato», spiegò allora. Teidez era furioso, a disagio, ma forse anche segretamente sollevato. Più tardi, nel corso della notte, era stato male per il troppo vino… Ah, la splendida vita di corte!

«Oh!» commentò Betriz che, con sollievo di Cazaril, non appariva eccessivamente sconvolta. «Oh», ripeté, chiudendosi poi in un silenzio assorto. Fissava la pianura dorata che si stendeva al di là del fiume e l’ampia vallata, dove il raccolto era ormai stato quasi ultimato. Infine, mordendosi un labbro, riportò lo sguardo su Cazaril e, in tono preoccupato, riprese: «Non è… Di certo non… Voglio dire, c’è senza dubbio qualcosa di molto strano nello spettacolo offerto da un quarantenne come Lord Dondo, che frequenta con assiduità un ragazzino di quattordici anni».

«Se si trattasse di un semplice ragazzino, lo troverei davvero strano, ma, considerato che stiamo parlando di un Royse, forse del prossimo Roya, futuro dispensatore di cariche, ricchezze, preferenze, opportunità militari… Be’, in tal caso direi che il suo comportamento ha una ragione evidente. Del resto, se pure Dondo smettesse di stare tanto addosso a Teidez, il suo posto sarebbe subito preso da altri tre uomini. Non è tanto la frequentazione assidua a colpire, bensì… la maniera in cui essa si svolge.»

«Senza dubbio», convenne Betriz, contraendo le labbra in un’espressione disgustata. «Una donna a pagamento, addirittura! Quanto a Lord Dondo… Il suo ruolo è stato quello del mezzano, vero?»

«Infatti, anche se ci sono definizioni più volgari. D’altro canto… In effetti, Teidez è prossimo all’età adulta, e prima o poi dovrà pur imparare…»

«La notte di nozze non è più che sufficiente per questo?» lo interruppe Betriz. «Noi dobbiamo imparare tutto in quella circostanza.»

«Gli uomini… di solito si sposano più tardi», replicò Cazaril, con una certa cautela. Era un argomento che preferiva evitare, anche perché il suo tardivo apprendistato in quel campo lo imbarazzava ancora. «Di norma, un uomo ha un amico, un fratello, o anche il padre o uno zio, che s’incarica… d’insegnargli come comportarsi con le donne. Ma Dondo dy Jironal non è nulla di tutto questo, per Teidez.»

«Però Teidez non ha vicino una persona del genere», obiettò Betriz, accigliandosi. «Ecco, tranne… il Roya Orico, che in un certo senso è per lui padre e fratello.»

I loro sguardi s’incontrarono e Cazaril comprese. No, non c’era bisogno di esprimere il pensiero che entrambi avevano formulato: in quella duplice veste di padre e di fratello, il Roya non era certo molto utile.

Seguì un altro silenzio pensoso.

«E non riesco a immaginare Ser dy Sanda che…» riprese poi Betriz.

«Oh, povero Teidez, non ci riesco neppure io», convenne Cazaril, con una risata soffocata. «Quella di Teidez è un’età difficile. Se avesse sempre vissuto a corte, si sarebbe abituato a quest’atmosfera e non ne sarebbe rimasto così… impressionato. Se fosse stato portato qui a un’età più matura avrebbe avuto già un carattere definito e una volontà più solida. Naturalmente, la corte può abbagliare a qualsiasi età, soprattutto quando ci si ritrova al centro dell’attenzione… Però, se Teidez deve diventare l’Erede di Orico, è tempo che si cominci a insegnargli come equilibrare piaceri e doveri.»

«Non mi pare proprio che lo si stia sottoponendo a un addestramento del genere», obiettò Betriz. «Dy Sanda ci prova in tutti i modi, ma…»

«È in netta inferiorità numerica», concluse per lei Cazaril, con aria cupa. «E questa è la radice del problema. Nella casa della Provincara, dy Sanda aveva l’appoggio della sua autorità, che completava e integrava la propria. Qui a Cardegoss, dovrebbe essere il Roya Orico ad addossarsi quel compito, ma lui non dimostra il minimo interesse al riguardo. Così dy Sanda deve lottare da solo e senza speranza di vittoria.»

«Questa corte…» cominciò Betriz, aggrottando la fronte nello sforzo di mettere a fuoco pensieri per lei poco familiari. «Questa corte ha un… centro?»

«Una corte ben gestita ha sempre al suo centro una figura che detiene l’autorità morale», sospirò Cazaril. «Se non il Roya, può trattarsi della sua Royina, di qualcuno che, come la Provincara, impone criteri e controlla che vengano osservati. Orico è…» Cazaril esitò di nuovo, consapevole di non poter dire che il Roya era debole e non osando asserire che era malato. Alla fine optò per una frase più vaga e diplomatica. «Orico non è interessato a rivestire tale compito e neppure la Royina Sara…» Voleva aggiungere che, ai suoi occhi, la Royina Sara appariva davvero molto pallida ed esile, sottile come un fantasma, ma si trattenne. «Ci rimane quindi soltanto il Cancelliere dy Jironal, che però è molto assorbito dagli affari di Stato e non si preoccupa di tenere a freno il fratello.»

«State dicendo che è lui a istigare Dondo?» chiese Betriz, socchiudendo gli occhi.

«Ricordate la battuta di Umegat, quando ha paragonato i corvi dello Zangre ai cortigiani?» chiese Cazaril, accostandosi un dito alle labbra con fare ammonitore. «Provate a invertire quell’affermazione. Avete mai visto i corvi combinare le loro forze per depredare il nido di un altro uccello? Uno allontana i genitori, mentre un altro sottrae le uova o i pulcini… Per fortuna, la maggior parte dei cortigiani di Cardegoss non è in grado di collaborare con la stessa efficacia dei corvi.»

«Non sono neppure certa che Teidez si renda conto che non tutto viene fatto nel suo interesse», sospirò Betriz.

«Temo che dy Sanda, nonostante la sua preoccupazione quanto mai concreta, non gli abbia spiegato la faccenda in termini abbastanza crudi. È pur vero che bisognerebbe essere quanto mai crudi, per dissolvere la nebbia di adulazione in cui Teidez sta fluttuando.»

«Ma è una cosa che voi fate di continuo per Iselle», replicò Betriz. «La spingete a osservare questo o quell’uomo, a notare cosa sta facendo e perché lo sta facendo… E, una volta constatato che quelle osservazioni corrispondono alla realtà, Iselle e io non possiamo fare a meno di darvi retta. Di conseguenza, anche noi cogliamo quei particolari rivelatori. Dy Sanda non potrebbe fare lo stesso per il Royse Teidez?»

«È più facile vedere una macchia sulla faccia di un altro che non sulla propria. Le pressioni esercitate su Iselle da questo stuolo di cortigiani sono infinitamente minori a quelle cui è sottoposto Teidez, cosa di cui rendo grazie agli Dei. Tutti sanno che lei verrà data in sposa lontano dalla corte e, probabilmente, fuori da Chalion, quindi non riveste per loro nessun interesse. Da Teidez, invece, dipenderà il loro benessere.»

La conversazione si dovette interrompere su quella nota inconcludente, ma Cazaril fu lieto di constatare che Betriz e Iselle cominciavano a essere consapevoli dei pericoli insiti nella vita di corte. Quell’ambiente era abbagliante e seducente, una vera festa per gli occhi, e per alcuni cortigiani era davvero soltanto un gioco allegro e innocente, anche se costoso. Per altri, invece, era un modo per mettersi in mostra, un susseguirsi di messaggi cifrati, una serie di attacchi e di parate analoga a quella di un duello vero, anche se non altrettanto letale, almeno a breve. Da quel turbine, la ragione rischiava di uscirne ubriaca, barcollante. Per rimanere in piedi, era necessario distinguere i giocatori dalle pedine. Dondo dy Jironal era senza dubbio uno dei principali giocatori, eppure ogni sua mossa doveva avere l’avvallo del fratello maggiore, sempre che non fosse addirittura diretta e controllata da lui. Tuttavia, anche se quella riflessione aveva un innegabile fondamento di verità, era molto più sicuro non formularla ad alta voce.

Quale che fosse il suo parere in merito alle direttive morali della corte, Cazaril dovette ammettere che almeno i musici impiegati da Orico erano decisamente abili. Ascoltandoli suonare, nel corso del successivo ballo serale, Cazaril pensò che il conforto provato da Orico nel suo serraglio equivaleva al conforto che la Royina Sara traeva dai menestrelli e dai cantori del castello di Zangre. La Royina non danzava, sorrideva di rado, ma non mancava mai una festa allietata dalla musica. Sedeva accanto al suo sposo ubriaco e addormentato oppure, se Orico si ritirava con passo barcollante, indugiava nel salone, in una galleria posta di fronte a quella occupata dai musici, insieme con le sue dame, al riparo di un paravento di legno intagliato. Non era difficile capire perché gradiva la musica, pensò Cazaril, mentre, appoggiato alla parete, in quello che era ormai diventato il suo posto abituale, batteva il tempo con un piede e osservava con fare benevolo le dame a lui affidate vorticare sul lucido pavimento di legno.

Dopo un brano particolarmente vivace, musici e danzatori si concessero una pausa e Cazaril si unì agli applausi generali, avviati dalla Royina. D’un tratto, una voce familiare quanto del tutto inaspettata, gli risuonò all’orecchio.

«Bene, Castillar, mi fa piacere constatare che cominci ad avere di nuovo l’aspetto di un tempo.»

«Palli!» esclamò Cazaril, controllando appena in tempo l’impulso di abbracciare l’amico e trasformando il gesto in un profondo inchino.

Palli era vestito coi calzoni azzurri, con la tunica e col tabarro bianchi, propri dell’Ordine militare della Figlia, e aveva gli stivali lucidi e la spada che gli scintillava al fianco. Scoppiò a ridere e rispose con un inchino altrettanto cerimonioso, seguito però da una salda e calorosa stretta di mano.

«Cosa ti conduce a Cardegoss?» chiese poi Cazaril, incuriosito.

«La giustizia, per la Dea! E non è stato lavoro da poco, considerato che ci è voluto un anno per mettere insieme tutti i pezzi. Sono qui per sostenere uno dei Lord Devoti, il Provincar dy Yarrin, in una sua piccola impresa di natura sacra. Non mi dispiacerebbe dirti di più al riguardo, ma non qui.» Lasciò vagare lo sguardo per la sala, dove le danze stavano riprendendo. «A quanto pare, sei sopravvissuto al tuo viaggio fino a corte… Significa che hai superato quella tua lieve crisi di nervi?»

«Finora sono sopravvissuto», replicò Cazaril, con una smorfia. «Anch’io preferisco non dire altro, qui, perciò suggerirei di trovare un angolo più fresco dove poter parlare tranquillamente.» Con una rapida occhiata, vide che Lord Dondo e suo fratello non c’erano, ma lì intorno si aggirava almeno una mezza dozzina di uomini che avrebbero senza dubbio riferito a entrambi di quel loro incontro.

I due si avviarono con passo noncurante verso la camera successiva, dove Cazaril guidò Palli verso la rientranza di una finestra che si affacciava su un cortile rischiarato dalla luna; di sotto, una coppia sedeva sul lato opposto del cortile, ma era troppo lontana per poterli sentire e aveva di certo altre cose cui pensare.

«Allora, cosa sta facendo bollire in pentola il vecchio dy Yarrin, per essere venuto a corte con tanta determinazione?» chiese Cazaril.

Il Provincar dy Yarrin era uno dei nobili di Chalion di rango più elevato tra coloro che avevano scelto di affiliarsi all’Ordine militare della Figlia. In genere, la maggior parte dei giovani nobili inclini alla vita militare preferiva votarsi all’Ordine del Figlio, per via della sua gloriosa tradizione nel combattere contro gli invasori roknari. Da giovane, perfino Cazaril aveva pronunciato un giuramento di Devoto laico all’Ordine del Figlio, giuramento che aveva poi rinnegato… in circostanze cui preferiva non pensare. Di dimensioni assai ridotte, il sacro Ordine militare della Figlia s’interessava di problemi umili e domestici, come la protezione dei Templi, il pattugliamento delle strade di accesso ai santuari oggetto di pellegrinaggio e, per estensione, si occupava della cattura di ladri di cavalli e di bestiame nonché degli assassini. Per quanto inferiori in numero rispetto agli altri ordini, i soldati votati alla Dea compensavano abbondantemente quella mancanza con la loro appassionata dedizione al loro servizio, come dimostrava il comportamento dello stesso Palli che, a parere di Cazaril, aveva finalmente trovato la sua vera vocazione.

«Si tratta di pulizie di primavera», spiegò Palli, sfoggiando un sorriso degno di una delle volpi del deserto di Umegat. «Un piccolo, sgradevole pasticcio insorto all’interno delle mura del Tempio, che finalmente si sta risolvendo. Da tempo dy Yarrin sospettava che qui a Cardegoss qualcuno si fosse appropriato dei fondi dell’Ordine, approfittando della lunga malattia del vecchio generale. Che qualcuno, insomma, facesse finire nella propria borsa quel denaro.»

«Una cosa sgradevole», borbottò Cazaril.

«La notizia non ti sorprende?» domandò Palli, inarcando un sopracciglio.

«In linea di massima, no», replicò Cazaril, scrollando le spalle. «Certi uomini, davanti a una tentazione così forte, cedono e basta. Non ho sentito dire nulla di preciso contro il controllore dell’Ordine della Figlia, qui a Cardegoss, a parte le abituali calunnie… Ma quelle vengono mosse a qualsiasi funzionario e ogni stolto è pronto a ripeterle.»

«Dy Yarrin ha impiegato oltre un anno a raccogliere prove e testimoni… Due ore fa, abbiamo colto di sorpresa il controllore, appropriandoci dei suoi libri mastri. Adesso lui è rinchiuso nelle celle della Casa della Figlia, sotto sorveglianza, e domattina dy Yarrin presenterà il caso al consiglio dell’Ordine. Il controllore verrà privato della sua carica e del suo rango entro il pomeriggio e sarà consegnato entro sera alla Cancelleria di Cardegoss per ricevere la meritata punizione», concluse, serrando il pugno.

«Ben fatto! Ti fermerai per qualche tempo, una volta concluso il processo?»

«Spero di restare qui un paio di settimane, per andare a caccia.»

«Oh, splendido», esclamò Cazaril, assaporando già il doppio piacere del tempo che avrebbe trascorso con l’amico e della possibilità di conversare con un uomo intelligente e onorevole.

«Ho preso alloggio in città, a Palazzo Yarrin, e stanotte non mi posso fermare a lungo. Sono venuto allo Zangre soltanto per accompagnare dy Yarrin, che è andato a presentare i suoi omaggi e il suo rapporto al Roya Orico e al generale Lord Dondo dy Jironal. Considerato il tuo aspetto decisamente sano, devo dedurre che i tuoi timori relativi ai fratelli Jironal siano risultati infondati.»

Cazaril non rispose immediatamente. La brezza che giungeva dalla finestra si era fatta gelida, tanto che perfino i due amanti nel cortile avevano scelto di rientrare. «Sto bene attento a non contrastare l’uno o l’altro, in nessun modo», rispose, infine.

Palli si accigliò, e parve lottare con se stesso per trattenere le parole che gli bruciavano sulle labbra.

In quel momento, un paio di servitori entrarono nella stanza, spingendo un carrettino su cui era sistemato un otre di vino caldo, che esalava un aroma di spezie e di zucchero, destinato alla sala da ballo. Sulla soglia, incrociarono una giovane dama che usciva ridacchiando, inseguita da presso da un cortigiano che rideva a sua volta. Ben presto, i due svanirono in lontananza, anche se l’eco delle loro risate continuò ad aleggiare, confondendosi con la musica, le cui note cadevano come fiori dall’alto della galleria.

«Lady Betriz dy Ferrej ha accompagnato qui da Valenda la Royesse Iselle?» domandò Palli.

«Non l’hai vista, tra le coppie che danzavano?» ribatté Cazaril.

«No… Ho visto anzitutto te, simile a un lungo bastone impegnato a puntellare le pareti. Quando ho saputo che la Royesse era qui, sono venuto a vedere se per caso c’eri anche tu, sebbene il modo in cui ti eri espresso nel corso del nostro ultimo incontro m’inducesse a dubitarne. Credi che potrei danzare con lei, prima che dy Yarrin finisca di conferire con Orico?»

«Se ritieni di avere le forze necessarie per aprirti un varco tra la calca che la circonda…» commentò Cazaril. «Io, in genere, preferisco rinunciare.»

Palli riuscì nell’impresa senza sforzo apparente, e ben presto si trovò a guidare una sorpresa e ridente Betriz nelle complesse figure della danza. Dedicò la danza successiva alla Royesse Iselle che, come Betriz, sembrò lieta di rivederlo. Poi si concesse una pausa e una mezza dozzina di nobili si avvicinò per salutarlo. Anche un paggio gli si accostò, mormorandogli all’orecchio un messaggio, in risposta al quale Palli si affrettò ad accomiatarsi con un inchino. Probabilmente doveva raggiungere il Lord Devoto dy Yarrin e accompagnarlo a casa.

Nel guardarlo allontanarsi, Cazaril si augurò che, il giorno dopo, il nuovo generale del sacro Ordine della Figlia, Lord Dondo dy Jironal, si mostrasse lieto e grato per l’opera di pulizia che quei due avevano intrapreso per suo conto, e a sua insaputa.