124186.fb2 La carezza della paura - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 10

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Lo stadio aveva una capienza di millequattrocento persone sulle tribune; le gradinate di legno sulla parte opposta ne contenevano altre trecento. Don se lo immaginò pieno di gente vestita di nero, convenuta per piangere la perdita di Amanda Adler, macellata.

Pianti. Lamenti. Pretesa di castigo.

Ma mentre correva, con il freddo tanto pungente da fargli lacrimare gli occhi, c’era solo il suono che le sue scarpe facevano sulla pista e sulle tribune sedevano soltanto duecento studenti e qualche insegnante. Li aveva contati, o meglio, aveva tentato di contarli, ma per ogni giro che faceva, qualcuno si muoveva, arrivavano nuove facce mentre alcune delle precedenti sparivano. Qualcuno dei ragazzi fissava il vuoto; altri si agitavano, parlavano sommessamente, si stringevano le mani e scrollavano le spalle.

Era successo subito dopo la terza ora — l’annuncio era stato fatto da suo padre, per mezzo della radio interna. Amanda Adler era morta, ammazzata nel parco, e la scuola veniva chiusa immediatamente in segno di lutto, e sarebbe restata chiusa anche il giorno dopo per dar modo ai suoi amici di renderle omaggio nel modo che ritenevano più opportuno. Dopo aver fatto una pausa di rispetto, aveva aggiunto che il concerto nel parco per la Festa di Ashford del giorno dopo non sarebbe stato annullato, come si diceva, ma sarebbe stato dedicato ai due studenti che avevano perso la vita negli ultimi tempi in modo tanto violento. Poi aveva domandato agli insegnanti di terminare le lezioni e di sospendere gli incarichi il più presto possibile.

Brian Pratt aveva esclamato: «Benissimo! Liberi!» e Tar Boston gli aveva dato un pugno nella pancia.

Adam Hedley sedeva con Harry Falcone alla tavola calda della facoltà e si lamentavano per la chiusura, ovviamente non per indifferenza, ma per le conseguenze politiche che avrebbe avuto sullo sciopero degli insegnanti in un momento come quello. Era, a suo avviso, una mossa cinica ed efficace di cui Boyd aveva pieno merito; e bisognava rispondere. Quando Harry gli chiese spiegazioni, Hadley gli raccontò della giacca.

Jeff Lichter si pulì gli occhiali quindici volte in dieci minuti, nel tentativo di togliere una macchia fastidiosa dalle lenti.

Fleet Robinson era assente.

Dopo aver spento la radio, Norman era andato a sedersi dietro la scrivania e si era messo a fissare la finestra, pensando che Harry sarebbe stato fregato, Joyce sarebbe stata comprensibilmente triste alla cerimonia di apertura delle festività e, con tutta probabilità, i giornali avrebbero tagliato a metà le sue dichiarazioni, come succede con i politici — tutto questo in una giornata, che inferno.

Don aveva immediatamente riposto i libri nell’armadietto e si era diretto verso la pista. Per strada aveva incontrato Chris, che lo aveva abbracciato e gli aveva mormorato qualcosa sul fatto di aver visto Amanda proprio il giorno prima. Era stordito e l’aveva accarezzata con aria assente, senza sembrare minimamente imbarazzato dal passaggio degli altri studenti e cercando di non fare caso al soffice contatto dei suoi capelli sul mento. Nessuno aveva badato loro. Poi lei si era staccata, aveva sorriso, gli aveva dato un bacio sulla guancia e l’aveva ringraziato. Gli ci erano voluti parecchi minuti, prima di riuscire a muoversi, poi, senza cambiarsi, aveva sentito il bisogno di andare a prendere una boccata d’aria fresca e di non pensare a niente, anche se il contatto con il giaccone leggero di Chris gli aveva fatto tornare in mente Amanda, con i suoi capelli lunghi e neri, attaccata al fianco di Fleet, il maschione che lei riusciva a prendere in giro con notevole grazia.

Era già stato informato dell’assassinio.

La sera prima, il sergente Verona aveva telefonato subito dopo che Joyce era rientrata dalla riunione. Don aveva sentito l’ultima parte della conversazione di Boyd e si era preparato a quanto gli avrebbe detto suo padre. Poi il telefono aveva squillato di nuovo e aveva continuato a farlo per ore, con giornalisti e solo Dio sa chi altro, che volevano sapere le reazioni ufficiali, private, a caldo del preside. Norman se l’era cavata bene, e Joyce era al suo fianco, intenta a scarabocchiare al tavolo della cucina una dichiarazione che lei avrebbe dovuto leggere a tutti in continuazione.

Durante una pausa, Norman si era girato verso di lui e gli aveva chiesto se la conosceva, se era una sua amica. Si era limitato ad annuire ed era tornato senza ostacoli nella sua stanza.

Si era innervosito, perché avrebbe voluto fare qualcosa di più che annuire. Avrebbe voluto dire che non faceva nessuna differenza che lei fosse sua amica o meno. Aveva diciassette anni e lui ne aveva diciassette e mezzo, e lei era morta e giaceva sotto un lenzuolo sporco in qualche fottuto obitorio. Era morta, e gli altri no. Non era uno stronzo qualsiasi di una scuola qualsiasi; era Amanda, Mandy, la bella donna dai capelli scuri di Fleet, e lui la conosceva, e lei era morta, e aveva solo diciassette anni, e possono morire i giovani sconosciuti, ma Amanda no, perché Don la conosceva e la gente che lui conosceva non poteva morire. E, più di ogni altra cosa, non si poteva morire per colpa di qualche maniaco, non si poteva passare sopra a un assassinio mentre i ragazzi morivano per le fottutissime strade e che importanza poteva avere se la conosceva o no; era morta e aveva solo diciassette anni.

Quella mattina aveva promesso di non dire niente fino alla dichiarazione ufficiale. Non faceva differenza, visto che la maggior parte dei ragazzi lo sapeva comunque grazie ai macabri pettegolezzi che si facevano in giro, e coloro che non lo sapevano erano stati immediatamente informati.

Ma lui aveva mantenuto la promessa e, quando le lezioni erano state sospese, si era diretto verso la pista.

E là vide le facce che si muovevano, ne vide arrivare di nuove, vide qualche ragazzo che sorrideva perché la scuola era stata sospesa, e altri imbronciati che fissavano vacuamente l’erba agitata dal vento.

Non c’era nessuno sulle gradinate.

Al terzo giro, si accorse di un movimento sotto i sedili di legno, rallentò, scrutò attentamente le ombre, poi riprese velocità. Non era niente. Solo un gioco di luci. Un gioco del cielo e del sole, ai quali non importava un fico secco che una diciassettenne fosse stata squartata, perché i poliziotti non erano stati in grado di catturare un lurido assassino.

E questo, decise, avrebbe fatto parte del nuovo regolamento che aveva escogitato: nessuno, nemmeno gli adulti, avrebbe dovuto morire per mano di un pazzo bastardo, che pensava di essere chissà che tipo di bestia.

Iniziò un altro giro, a capo chino e con le braccia penzolanti. Aveva la maglietta sporca di sudore, i pantaloni umidi e attaccaticci. Tracey non era andata a scuola. Non poteva darle torto. Dal resoconto ingarbugliato che aveva sentito la sera prima, anche lei aveva rischiato di essere ammazzata. La prima cosa che avrebbe fatto tornando a casa sarebbe stato di perdonarla per non essersi messa in contatto con lui e di telefonarle.

Sentì chiamare il suo nome.

Lo ignorò e si avvicinò alla curva che aveva di fronte, in direzione delle gradinate. Avrebbe fatto ancora un giro e sarebbe tornato a casa per farsi una doccia. Poi avrebbe telefonato. E avrebbe cercato di capire che cos’era successo alla sua migliore amica.

Era stato domenica, quando aveva avuto finalmente la possibilità di studiare il poster più da vicino, che si era reso conto di aver avuto torto, perché nessuno aveva tentato di rovinare la fotografia — aveva toccato la carta con un dito e si era accorto che i graffi erano all’interno della fotografia stessa. Non c’erano increspature, né ammaccature. Solo uno schermo statico di linee bianche che non avevano nessun senso. Erano graffi che non erano stati causati dal passare del tempo.

Sentì chiamare il suo nome.

Aggrottò le sopracciglia e si guardò attorno, e vide Jeff alla ringhiera delle tribune. Diede un’occhiata alle gradinate, domandandosi che cosa avesse intravisto prima, e poi decise di averne abbastanza. Massaggiandosi il collo con una mano, si diresse al gradino più vicino, si fermò e si lasciò cadere sul primo sedile per aspettare Jeff.

«Ehi», disse Lichter, senza molto entusiasmo.

«Sì», rispose passandosi il braccio sulla bocca.

«Che stronzi!»

Don appoggiò i gomiti sulle ginocchia e si sporse in avanti, nel tentativo di riprendere fiato. Pensava ad Amanda. Una goccia di sudore gli cadde sulla scarpa.

«Cioè, non sanno nemmeno che aspetto abbia quel pazzoide, santo cielo! Ma credono che sia un gioco? E siamo a sette, no? E non sanno nemmeno che aspetto abbia!» Si tolse gli occhiali, tirò fuori un lembo della camicia e si mise a ripulirli. «Tracey è pronta a trasferirsi da sua nonna, e ti garantisco, Don, che non posso darle torto.»

Don si coprì la faccia con le mani, allargò leggermente le dita e guardò verso il cielo. «Che cosa vuoi dire?»

«Voglio dire che lei e Mandy stavano tornando dalla biblioteca, pensando ai fatti loro, e tutt’a un tratto salta fuori quel pazzo, e l’ultima cosa che Tracey riesce a ricordare è che Mandy e quell’uomo sono entrati nel parco. Si è messa a urlare come una matta — Tracey, intendo — tanto che è diventata roca e si è precipitata da Beacher per telefonare. E là ha trovato suo padre, ma non riusciva a parlare, tanto era spaventata. È dovuto andare un dottore a casa sua per darle qualcosa per farla dormire.» Si rimise gli occhiali e si tirò indietro i capelli. «Scommetto che non ci è riuscita lo stesso. Scommetto che non ha chiuso occhio.»

Don si sdraiò sul gradino fino ad appoggiare i gomiti su quello più in alto. Poi si rivolse a Jeff. «Ti ha telefonato?»

«Sì.»

Annuì e sentì che qualcosa crollava dentro di lui, come una crepa che incrina lentamente una parete.

«Ha pianto molto, credimi.»

La parete crollò completamente, sollevando un polverone. «Ti ha telefonato.»

«Sì, ho detto di sì.» Jeff sorrise, poi trovò qualcosa su cui concentrarsi sul campo da football. «Ha detto di aver bisogno di parlare con qualcuno e la tua linea era sempre occupata. Ha detto che ha tentato per quasi un’ora, ma doveva parlare con qualcuno e, siccome non riusciva a comunicare con te, ha provato con me.»

«E tu eri a casa.»

La risata di Jeff suonò spontanea. «Certo! Credi che mio padre mi lascerebbe stare fuori fino a tardi nelle sere feriali?»

«Be’, sono contento per te», disse Don, alzandosi e pulendosi i pantaloni.

«Ehi, Don, ti ho detto che ha provato a telefonarti.»

«Lo so, lo so.»

«Ma la linea era occupata.»

«Mio padre», spiegò. «I giornalisti e chissà chi altro, e la polizia.»

«Oh. Be’, senti, dovresti telefonarle quando torni a casa, sai? Cioè, voleva parlare con te, non con me.»

«Certo.» Si diresse verso le scale; aveva voglia di correre ancora, nonostante la fitta che sentiva al fianco.

«Ehi, Don, maledizione», lo chiamò Jeff.

Non si voltò.

«Ehi, non è colpa mia.»

Riprese a correre.

«Be’, va’ al diavolo, amico.»

E quando passò dalle gradinate, Jeff se n’era andato.

Imputò il bruciore all’occhio sinistro al vento, abbassò il capo per cercare di schiarirsi la vista e si concentrò sul ritmo costante dei piedi che battevano sulla pista.

Un. Due. Il selciato era tanto soffice che non aveva nemmeno l’impressione di muoversi.

E fu allora che sentì tutte le sensazioni — la rabbia gli induriva i muscoli e gli mozzava il fiato, gli annebbiava il cervello tanto da non riuscire più a pensare, a capire, e fu costretto a fermarsi, ansimante, con le mani sui fianchi, e ad alzare il viso al cielo alla ricerca di un po’ d’aria che lo calmasse.

Tornò alle gradinate, asciugandosi le lacrime e cercando di non urlare il nome di Jeff. Cercando di non inseguire l’amico, per gettarlo contro una parete e domandargli che cosa aveva creduto di fare, permettendosi di parlare con la ragazza di Don quando era a Don che Tracey voleva parlare, quando era Don che aveva tentato di chiamare, e non ci era riuscita perché i suoi genitori erano troppo impegnati a sdrammatizzare il colpo della morte di Mandy. Nemmeno attutire. Stavano solo cercando il modo di permettere che la vita continuasse con il minor scompiglio possibile: la scuola, i festeggiamenti. Ashford. Centocinquant’anni. E Mandy aveva solo diciassette anni e lui ne aveva solo diciassette e mezzo e avrebbe fatto di tutto per evitare che succedesse anche a lui.

Si mise a sedere e lasciò penzolare nel vuoto le gambe. Le mani tremavano violentemente, la tensione non si era ancora scaricata; si sentiva le ginocchia gonfie, e si stava preparando a smetterla, a finirla, a cercare di dare un senso a tutto quanto quando, sulla destra, sentì un rumore.

Uno struscio, qualcosa che annusava e si muoveva sotto i sedili.

Voltò la testa e scrutò tra le ombre. Un cane, probabilmente. E rivide quello che aveva notato in precedenza — un luccichio degli occhi, o qualcosa che aveva in bocca. Un artiglio, oppure il colore del pelo.

Rimase ad ascoltare, ma non sentì niente.

Tornò a fissare la pista, scrollandosi tutto per rilassarsi e far sparire il rosso che aveva nella vista. Poi inspirò più volte e si alzò, guardando fra i gradini.

Superò la sorpresa iniziale e disse: «Ehi, chi è?»

Ma l’uomo rannicchiato contro il muro di mattoni si limitò a sollevare una mano lurida per fargli cenno di andarsene. Era un individuo dall’età indeterminata, con pantaloni da fatica e giacca di tweed, un’espressione di dolore sul viso, macchie scure sulle dita e il mento non rasato. Un uomo che si stava rannicchiando contro la parete e che gli fece cenno di andarsene per la seconda volta, senza dire una parola.

«Si sente bene, signore?»

Ancora quel gesto.

«Ehi, se ha bisogno di aiuto o di qualcosa…»

L’uomo lo guardò torvo e Don arretrò, controllando se sulle tribune ci fosse qualcuno da chiamare. Tornò a guardarlo e sbatté le palpebre. Una volta. Lentamente.

Il rosso sparì e riuscì a vedere con una chiarezza che faceva male agli occhi. Ma non sentì niente. Si limitò a tornare sulle gradinate e a sorridere all’uomo che si nascondeva sotto i gradini.

«Va’ a farti fottere, ragazzo», disse l’uomo.

Don continuò a sorridere, senza allegria, né felicità, solo una smorfia, era il messaggio con cui intendeva dire che sapeva bene chi fosse; lo sapeva e non gli faceva piacere.

«Maledizione, va’ a farti fottere, piccolo stronzo», esclamò l’uomo.

Annuì e si allontanò, attraversò il prato, salì i gradini e uscì dalla scuola per dirigersi verso casa.

Fantastico, pensò; è fantastico.

Se ne avesse avuto voglia, avrebbe potuto diventare un eroe.

Poteva andare diretto in cucina, chiamare la polizia, raccontare che sapeva dove si trovava lo Squartatore. E se l’assassino se ne fosse andato quando fossero arrivati sul posto, sarebbe stato in grado di fornire loro più di un semplice indizio, avrebbe potuto fornire una descrizione completa. La prima. L’unica. E lo Squartatore non si sarebbe più sentito tanto sicuro.

Ma quando entrò nell’ingresso, vide la sua giacca appesa alla ringhiera delle scale. La prese in mano, infilò un dito nel laccio sul collo e se la gettò sulle spalle.

Ragazzi, pensò, è un grande giorno. Ho ritrovato la giacca e ho la possibilità di diventare un eroe.

Andò in cucina a prendere una lattina di soda e si fermò sulla soglia. Suo padre era seduto al tavolo, intento a scarabocchiare qualcosa su un blocchetto giallo, con un’aria frettolosa e affaticata, e per niente allegra.

«Vedo che hai ritrovato la giacca», disse Norman, dopo aver alzato lo sguardo.

«Già. Chi l’ha riportata?» Aprì il frigorifero, prese la bibita e gettò la linguetta di chiusura nella spazzatura.

«Il signor Hedley.»

«Chi?»

Norman lasciò cadere la penna sul blocco e si appoggiò allo schienale.

«Il signor Hedley. Te lo ricordi l’insegnante? Mi ha portato la giacca in ufficio ieri mattina.»

Don non riusciva a capire e si mise a fissare il padre finché, infine, cominciò a intuire come stavano le cose.

«Pensi che sia stato io, eh?»

Norman scosse la testa. «No, no davvero.»

Ancora il rosso, questa volta a ondate.

«Che cosa intendi dire con no davvero? Non sono stato io, se lo vuoi sapere.» Gettò con violenza la lattina sul bancone, ignorando la schiuma che stava uscendo. «Cristo!»

Norman si gonfiò le guance e sbuffò: «Donald, non ho tempo per discutere. Tu dici di non aver gettato quella porcheria sulla sua veranda e lui ha trovato la tua giacca sulla siepe. E adesso pensa anche che abbia svuotato tu quella fialetta in classe. Mette insieme due più due e decide di essere gentile e di venire da me e non dalla polizia.»

«Okay», rispose lui. «Okay.»

«Ma dici di non essere stato tu. Anche dopo tutto quello che hai sofferto, dopo tutte quelle punizioni, continui a negarlo.»

«Mio Dio!» esplose Don. «Che cosa vuoi da me, una confessione scritta? Vuoi che mi sottoponga al test della verità?»

«Donald, basta così.»

Don era sul punto di dire che erano padre e figlio e che di tanto in tanto sarebbe stata una buona idea aver fiducia in ciò che diceva.

Ma non lo fece.

Disse: «Hai ragione, papà. Basta così.»

Si incamminò fermamente verso le scale, si fermò per assicurarsi di non essere seguito e poi si precipitò nel bagno. Riempì la vasca di acqua fredda e se ne gettò un po’ in faccia, cercò una spugna e se la passò sul collo.

Ma il rosso non se ne andava.

Si rifletteva anche sullo specchio, sbiadendo in rosa quel tanto che bastava per permettergli di vedere la propria immagine riflessa; si diffuse nello stomaco e credette di essere sul punto di esplodere; fece irruzione nelle orecchie con la violenza dell’oceano dopo la tempesta; lo circondò vorticosamente, lo fagocitò, lo scrollò e sparì così all’improvviso che dovette aggrapparsi al lavandino per non cadere sulle ginocchia.

Stava sudando e aveva freddo, si mise una salvietta attorno al collo e andò in camera sua, chiuse la porta e rimase in piedi di fronte al poster.

Gli alberi c’erano ancora; anche la nebbiolina, anche la strada.

Lo stallone era parzialmente nascosto dietro uno schermo di linee bianche.

«Che cosa sta succedendo?» sussurrò nervosamente, allungando una mano infreddolita per toccare il punto dove lo stallone stava sbiadendo. «Che cosa sta succedendo?»

Poi andò a sedersi sul letto e si coprì il volto con le mani.

Improvvisamente ebbe paura. Non per quello che stava succedendo al cavallo, ma per la pazzia che lo stava catturando, facendogli credere che stesse sparendo. Doveva essere quello il motivo. Stava impazzendo. Non c’era nessun poster al mondo dal quale sparissero le immagini e non c’era nessun ragazzo al mondo che parlava con una stupida fotografia e che la considerava un amico a cui raccontare i segreti e chiedere consiglio. Non c’era nessuno come lui, perché stava impazzendo, e non poteva nemmeno dirlo a Tracey perché aveva telefonato a Jeff e non a lui.

Jeff aveva paura.

C’era un maniaco che si aggirava in città ammazzando persone che lui conosceva; aveva la netta sensazione, provocata da un non so che, di aver perso ogni possibilità di avere Tracey; e c’era un pazzo, uno sconosciuto o chissà che altro, che si stava impossessando del corpo di quello che una volta era il suo migliore amico.

Subito dopo che Don si era allontanato dallo stadio, aveva risalito i gradini ed era tornato a scuola. Era rimasto per qualche minuto nello spogliatoio della squadra, sapendo che non ci sarebbe stato l’allenamento e chiedendosi dove avrebbe potuto andare. Non gli andava di tornare a casa perché suo padre era al lavoro; non poteva andare da Beacher perché non aveva soldi.

Aveva voglia di andare da Tracey. Aveva voglia di parlare con qualcuno. Aveva voglia di sentirsi dire da qualcuno — e Tracey l’avrebbe fatto, lo sapeva — che era giusto piangere quando muore un amico.

E aveva pianto.

E quando era entrato Tar Boston, aveva dovuto asciugarsi il viso togliendosi gli occhiali.

«Santo cielo», gli aveva detto Boston. «Non era mica tua sorella, no?»

Jeff si era voltato.

«Cazzo», aveva esclamato Boston, dando un calcio alla parete. «Non è giusto, vero? Non è giusto.»

Jeff aveva aspettato, non aveva sentito più nessun rumore e aveva richiuso violentemente lo sportello del suo armadietto per poi dirigersi verso la porta.

Mentre stava per impugnare la maniglia, aveva creduto di sentire qualcosa sbuffare alle sue spalle. Come un singhiozzo.

Cristo, aveva pensato, e poi si era girato.

Tar si era appoggiato alla parete e sorrideva mentre faceva il verso del pianto. «Quattrocchi», aveva detto. «Tu non sei cattivo, ma di certo non sei un uomo.»

Jeff gli si era avvicinato e Boston si era messo a ridere, alzando le mani per parare il colpo che si aspettava. Rideva così tanto da non accorgersi che Jeff stava spostando il peso sul piede sinistro e non aveva fatto in tempo a proteggersi quando Jeff gli aveva tirato un calcio nelle palle.

Era uscito sorridente dalla palestra con una musica marziale nella mente. L’avrebbe pagata. Ragazzi, certo che l’avrebbe pagata. Ma l’espressione che quel bastardo aveva in volto l’aveva ripagato per tutte le ossa che poi avrebbero potuto rompergli.

Era ripagato, davvero.

E allora perché mai non riusciva a trovare lo stesso coraggio per invitare fuori Tracey?

Al pensiero allargò un sorriso. Be’ … forse ci sarebbe riuscito. Forse ci sarebbe riuscito davvero. E poi forse sarebbe potuto andare da Don per vedere di scoprire quello che non andava nella testa del ragazzo.

Don sentì la macchina di sua madre entrare nel vialetto, la porta d’ingresso chiudersi e delle voci soffocate provenire dalla cucina. Squillò il telefono. Qualcuno andò a rispondere. Si mise sdraiato sulla schiena con le mani dietro la testa. Tirò su con il naso, rabbrividì e poi sentì dei passi fuori dalla sua porta. Qualcuno bussò dolcemente. La porta si aprì.

«Tesoro», disse Joyce, «ti senti bene?»

Era splendida con i capelli sciolti sulle spalle e una camicetta colorata sbottonata al collo.

Annuì, ma soltanto una volta.

Lei gli fece un sorriso forzato e andò a sedersi ai piedi del letto. «È dura, vero?»

Annuì di nuovo.

Lei posò una mano comprensiva sulla gamba e gliela massaggiò distrattamente, guardando gli scaffali vuoti e la scrivania ordinata. Non disse niente a proposito del poster. «Non è facile, lo so. Si conosce della gente, e poi muore … così. Non è facile, credimi.»

Sapeva che stava riferendosi a Sam ma, anche se Sam era suo fratello, era solo un bambino. Mandy non era stata una vera amica, ma aveva diciassette anni e l’aveva conosciuta meglio del suo fratellino.

Joyce si schiarì la gola e fece un sorriso triste e coraggioso che poi sparì.

Lui la osservò e gli venne un prurito alla gola. «Mamma», disse prima di riuscire a trattenersi, «c’è qualcosa che vorrei dirti. Giù alla scuola, questo pomeriggio, ho visto un…»

«Tra un minuto, per favore, tesoro», lo interruppe lei facendogli capire che non stava ascoltando. «Pochi minuti fa ha telefonato Tracey Quintero.» Lo picchiettò sul ginocchio, si alzò e si diresse verso la porta.

«Cosa?» Si alzò a sedere appoggiandosi con le mani per tenersi in equilibrio. «Tracey? E perché non me lo hai detto?»

«Be’, tesoro, è difficile da spiegare, ma lei aveva voglia di parlare con qualcuno e io credo sia meglio che lo faccia con i suoi genitori prima, non trovi anche tu?»

«Cosa?» disse, così sommessamente da non farsi sentire.

«Gli adulti hanno esperienza e, in genere, sanno che cosa si prova alla vostra età in … circostanze come questa.» Tornò a sorridere brevemente. «Io credo che il signor Quintero la possa aiutare meglio di chiunque altro.»

Lui si lasciò cadere sulla schiena. «Che cosa le hai detto?»

«Le ho detto che stavi dormendo. Che eri stato colpito da quanto era successo e che stavi dormendo.»

«Grazie», rispose piattamente.

Joyce gli fece l’occhiolino e se ne andò, chiudendosi la porta alle spalle.

La stanza si riempì di un silenzio che respirava rumorosamente coprendo il battito del suo cuore, mentre le molle del letto scricchiolavano e dal piano di sotto arrivavano voci non benvenute. E ripensando all’immagine persistente di sua madre si domandò: che cosa ne sai di quello di cui ho bisogno, eh? Che cosa diavolo puoi sapere tu di Tracey? Cristo, non sapevi nemmeno che era spagnola, santo cielo.

«Oh, Cristo», mormorò. «Oh, Cristo, oh, Cristo.»

Al diavolo tutti. Stava per dare loro la possibilità di aiutarlo a diventare un eroe e forse a salvare la vita di qualche ragazzo, ma a loro non importava. Non importava niente. Pensavano tutti che era uno stronzo che gettava la merda sulle verande della gente e che non era capace di aiutare i suoi amici a sentirsi meglio. Lo guardavano e vedevano il piccolo Sam.

Al diavolo tutti. Chiuse gli occhi e sentì ancora un peso sullo stomaco. Caldo, rosso, persistente.

Se non volevano aiutarlo, se non si fidavano di lui, allora avrebbe fatto tutto da solo. Era l’unico a conoscere l’aspetto dello Squartatore; era l’unico in grado di far rinchiudere l’assassino dietro le sbarre per il resto della sua vita; era l’unico a sapere e, per quanto lo riguardava, potevano andare tutti all’inferno. E in quel momento una vocina interiore gli chiese: come fai a essere sicuro che è lo Squartatore?

Per un istante si sentì confuso e tirò un respiro alla ricerca di una risposta.

Poi socchiuse gli occhi, tirò il fiato e smise di preoccuparsi pensando: sono tutti della stessa razza.

Perché a modo suo era vero. Quel tipo sotto le gradinate faceva parte delle sue Regole, e Don aveva ideato un nuovo insieme di Regole tutto suo. Non poteva dirle ad alta voce, ma le conosceva bene lo stesso — erano scritte in rosso, dentro di lui, e aspettavano.

Si girò su un fianco appoggiando la testa su una mano.

Guardò il poster ed emise un sospiro che si trasformò in lamento. Si alzò, attraversò la stanza e andò ad appoggiarsi alla scrivania, con lo sguardo fisso e la fronte imperlata di sudore.

Il cavallo nero era sparito.

I graffi erano svaniti, ma anche lo stallone era sparito.

Toccò il poster, sfiorò i tronchi degli alberi, i turbini della nebbia, ci passò sopra il palmo, premette la fronte contro la foto e alzò un angolo per controllare che cosa ci fosse dietro.

La strada era vuota. Era sparito.

Fece un piccolo passo all’indietro verso la porta, in preda al panico, e poi sentì un movimento all’esterno e corse verso la finestra. Il giardino era buio, contornato dalla luce della luna, e in mezzo al prato c’era un’ombra. Pensò subito che si trattasse di Chris che tornava da lui per qualche strano motivo; poi cercò di guardare meglio, premendo le mani contro il vetro, saggiandone il freddo. Non era … non era lo stesso visitatore che aveva visto una settimana prima, quello che l’aveva guardato dalla galleria dello stadio mentre correva. Informe. Nero. Intento a osservarlo come se fosse fornito di occhi perfetti.

Una goccia gelata gli cadde sulla nuca.

Girò il capo e diede un’occhiata al poster.

Il cavallo era sparito.

Quando tornò a guardare il giardino, anche l’ombra era sparita.

Improvvisamente, piangendo senza ragione, si allontanò dalla finestra, dal poster e si lasciò cadere sul letto. Cercò di deglutire ma non ci riuscì; cercò di chiamare aiuto, ma non ci riuscì; cercò di convincere se stesso che non era pazzo, non veramente, ma il poster non cambiava e in genere non c’erano fantasmi scuri che se ne andavano in giro nel suo giardino di notte.

«Aiuto», sussurrò. «Qualcuno mi aiuti.»